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Il neo-colonialismo dell’imperialismo occidentale in Sahel: storia di una sconfitta

La fuga dell’Occidente dall’Afghanistan nell’estate del 2021 e la fine formale dell’operazione Barkhane, alcuni mesi fa, da parte della Francia – in realtà un tentativo di riorganizzazione più che un disimpegno effettivo dell’Esagono nell’Africa subsahariana – sono due dei fatti più significativi del declino militare dell’egemonia euro-atlantica.

Segnano, in contesti diversi, la fine di un’epoca iniziata con il crepuscolo del “mondo bipolare” (Usa/Urss), la fine di un ordine che ha regnato fino a poco tempo fa, dove un pugno di Stati – in primis gli USA – poteva fare il bello ed il cattivo tempo in ogni angolo del mondo, imponendo supremazia militare, egemonia politica, sudditanza ad un modello economico e subordinazione culturale.

Per certi versi la guerra tra Nato e Russia in Ucraina, è un aspetto della stessa dinamica, ma in fase di declino.

Ma quelle che sembravano le strettissime maglie dell’imperialismo si stanno sfibrando, rompendo quella gabbia neo-coloniale in una parte dell’Africa. Segno non solo della crisi di una particolare configurazione geopolitica, ma del modo di produzione capitalista che lo sostanzia.

Il Sahel per i francesi, ma in generale per l’aspirazione neo-coloniale del polo imperialista dell’Unione Europea, che stava articolando un suo “braccio armato” nella regione, è stato uno un punto di caduta che l’evoluzione successiva del corso politico in Mali, Burkina Faso e Guinea ha confermato.

Questi paesi si stanno sganciando sempre più dall’orbita occidentale e rifiutano la cornice di relazioni in cui sono stati collocati, così come altri paesi africani che non ci stanno a fare da retroterra neocoloniale della metropoli imperialista – sia che la capitale sia Washington, Parigi o Londra -, o delle aspirazioni espansionistiche delle potenze del Golfo.

Questa dinamica è in forte dialettica – anche strumentalmente – con il ruolo giocato da altre potenze del calibro di Cina, Russia e Turchia, che non hanno un passato coloniale alle spalle, ed hanno fra loro un modus operandi anche molto differente, con una chiara strategia di penetrazione a tutto campo nell’area che va però indagata a fondo, senza indossare le lenti deformanti dell’ideologia occidentale.

Sarebbe sbagliato vedere però il continente solo come un “oggetto” della contesta tra blocchi, e non anche come un “soggetto” che mira in vario modo alla propria emancipazione, esprimendosi in una pluralità di forme a seconda dei contesti, assolutamente non omogenei, che da tempo cerchiamo di indagare.

Sono forme fenomeniche del fatto che il neocolonialismo è morto”, come afferma Mohamed Hassan, anche se le aspirazioni neo-coloniali permangono, anzi s’intensificano con l’approfondirsi dello scontro in atto.

Ma è chiaro che i punti di rottura dell’ordine che fin qui ha regnato sembrano, per ora, attraversare il Tricontinente piuttosto che la cittadella occidentale.

Abbiamo voluto tradurre questo intervento dell’Associazione Survie, pubblicato sul “Club de Mediapart”, che fa luce sul decennale intervento francese nella regione ed i suoi riflessi politici in madrepatria.

Buona lettura.

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Sahel, da Serval a Barkhane, dieci anni di intervento militare

La logica dell’eccezione che prevale quando si tratta della politica francese in Africa, e in particolare dei suoi interventi militari, non è più accettabile oggi di quanto non lo fosse in passato. Una democrazia sana e degna di questo nome dovrebbe essere in grado di aprire un dibattito sui suoi interventi all’estero e sulla sua politica estera.

di Association Survie

Dieci anni fa, l’11 gennaio 2013, la Francia ha lanciato l”Operazione Serval’ in Mali, con l’obiettivo di contrastare l’avanzata dei terroristi sulla capitale. All’epoca, Survie pubblicò un’analisi che ci mise in guardia sulle zone d’ombra e sulla posta in gioco di questa operazione, sottolineando l’illegittimità dell’intervento della Francia e il fallimento programmato di questo intervento.

La Francia era chiaramente parte del problema e non della soluzione: un ex colonizzatore che impediva lo sviluppo sovrano e la vita democratica, un kingmaker o un piantagrane, colpevole di decine di interventi militari volti a sostenere regimi o i propri interessi contro la volontà del popolo, e chiaramente incapace di prendere in considerazione i rischi di un intervento militare straniero per i maliani e la regione, soprattutto dopo la catastrofica operazione del 2011 in Libia.

Purtroppo, non ci siamo sbagliati.

La realtà supera di gran lunga gli sviluppi previsti all’epoca. L’Operazione Serval è stata seguita dall’Operazione Barkhane, e da allora Survie ha osservato l’evoluzione di questo interventismo militare e l’interferenza francese che lo ha accompagnato.

Il suo corollario è ben noto: il peggioramento della situazione in Mali e più in generale nella regione, in particolare in Burkina Faso e Niger, sia in termini di sicurezza, di vita democratica e sociale o di sviluppo di questi Paesi.

Due mesi fa, Emmanuel Macron ha ufficializzato la fine dell’operazione Barkhane.

Dieci anni di intervento militare massiccio, con fino a 5.400 soldati di forze convenzionali e speciali posizionati contemporaneamente nel Sahel, tra gli 8 e i 10 miliardi di euro di budget aggiuntivo per le operazioni esterne (Opex), 59 soldati francesi e migliaia di soldati maliani, burkinabé e ciadiani morti.

La cifra ufficiale non è nota; più di 12.000 civili morti, 3 milioni di sfollati entro la fine del 2022, mentre i gruppi jihadisti che dovevano essere sradicati hanno continuato a diffondersi e a guadagnare potere.

Cifre che dicono molto sulla portata di questo intervento francese – il più grande dalla guerra d’Algeria – e sulla portata del suo prevedibile fallimento.

La realtà di questo intervento è anche costituita dalle bugie, dalla propaganda, dall’opacità e dall’assenza di dibattito che ne hanno fatto parte fin dall’inizio. Anche sotto questo aspetto, è un esempio perfetto della politica neocoloniale della Francia in Africa. Si tratta di elementi che è essenziale rivisitare oggi.

UN’OPERAZIONE BASATA SULLA MANIPOLAZIONE DELL’OPINIONE PUBBLICA

Fin dall’inizio, questa operazione è stata sostenuta da una manipolazione dell’opinione pubblica (occidentale).

Ufficialmente, mentre il Presidente Hollande aveva ripetuto che la Francia non sarebbe intervenuta in Mali, l’Operazione Serval è stata lanciata sotto la pressione degli eventi. Una colonna di jihadisti stava presumibilmente cercando di impossessarsi della capitale maliana e di trasformare il Mali in uno ‘Stato terrorista’ che minaccia la regione e l’Europa.

Si tratta niente di più e niente di meno che di un “travestimento della realtà“, secondo le modeste parole di un ufficiale superiore: i pick-up armati sono effettivamente in movimento, ma è stato costruito un mito dicendo che stavano prendendo di mira Bamako, che non avevano i mezzi per controllare in quel momento.

Questa manipolazione è stata ampiamente documentata dal 2013 da diversi giornalisti e ricercatori. Eppure la storia ufficiale mantiene questa falsa versione.

Inoltre, l’intervento francese era stato preparato da tempo, anche se inizialmente era probabilmente destinato ad essere sostenuto da un intervento africano.

La Francia, che non aveva un mandato ONU per intervenire da sola, ha invocato la richiesta di aiuto del Presidente del Mali. La legittimità legale di questa richiesta era ancora più debole perché si trattava solo di un presidente “transitorio” e la richiesta iniziale era solo per il supporto aereo: la lettera fu riscritta a Parigi per adattarsi ai piani francesi…

LA LOTTA CONTRO IL TERRORISMO

Con questo intervento, la Francia si è unita alla logica e alla retorica della ‘lotta al terrorismo’.

Evocata dai politici francesi già nel 2010, la ‘guerra al terrore’ è diventata nell’autunno del 2012 l’argomento principale per considerare l’intervento in Mali. I vantaggi politici erano evidenti: ottenere un ampio sostegno da parte dell’opinione pubblica, della classe politica francese e della ‘comunità internazionale’, e impedire qualsiasi critica, pena l’accusa di assecondare il nemico.

Ma la retorica semplicistica della lotta al terrorismo ha oscurato la complessità della crisi maliana e saheliana. In particolare, ha eluso le specificità dei movimenti jihadisti, che sono diventati gruppi armati con un forte ancoraggio territoriale, mescolando rivendicazioni religiose e forme insurrezionali rurali.

La Francia ha così giustificato il suo intervento internazionale, ma ha nascosto le ragioni locali che hanno permesso a questi movimenti di fiorire.

In nome dell’antiterrorismo, la Francia si è anche esentata dalle regole del diritto nazionale e internazionale. Contrariamente alla Convenzione dell’Aia del 1907 sulle leggi e gli usi della guerra, il cui articolo 23d stabilisce che “è vietato ordinare che non ci siano sopravvissuti, minacciare l’avversario con un tale ordine o condurre le ostilità sulla base di un tale ordine“, l’obiettivo è quello di “neutralizzare” il nemico, cioè, in realtà, di eliminarlo.

Parigi ha moltiplicato gli omicidi mirati e i bombardamenti aerei, favorendo l’uso di droni armati a partire dal 2020, con il rischio di commettere gravi errori in Mali, come nel caso del villaggio di Bounti, dove l’esercito francese ha bombardato per errore un matrimonio, uccidendo 19 civili. La Francia ha sempre negato questa strage, sebbene sia stata documentata dalle Nazioni Unite.

Le “vittorie tattiche” di cui l’esercito e il governo francese hanno potuto vantarsi non hanno impedito ai gruppi armati di prosperare e hanno addirittura alimentato il loro rinnovamento e la loro moltiplicazione permanente, come già avvenuto in Afghanistan.

Inoltre, le alleanze con alcuni gruppi armati comunitari mobilitati da Barkhane nella ‘guerra al terrore’ hanno contribuito a etnicizzare il conflitto e a renderlo più letale, o addirittura ad alimentare indirettamente le reti di trafficanti.

Questo approccio è stato rapidamente, e per tutta la durata dell’intervento, denunciato da ricercatori, ONG e movimenti di cittadini che hanno chiesto di mettere i militari al servizio degli obiettivi politici e di rendere prioritaria la protezione dei civili.

UN’INGERENZA SISTEMATICA FRANCESE

Questo intervento militare va di pari passo con una più generale ingerenza politica francese, a spese della sovranità degli Stati e delle loro popolazioni, in contrasto con il discorso di Parigi sulla ‘difesa della libertà e della democrazia’.

La diplomazia francese ha commesso un’interferenza dopo l’altra, mettendo gradualmente l’opinione pubblica maliana contro se stessa.

Nel 2013, ha imposto un’elezione presidenziale nel bel mezzo di una guerra, quando intere regioni non potevano votare e centinaia di migliaia di sfollati speravano di tornare presto a casa. A Kidal, una città strategica nel nord del Mali, la Francia sta impedendo al Mali di riacquistare la sua piena sovranità, per risparmiare i suoi alleati tra i gruppi armati indipendentisti locali.

Dal 2015, la Francia fa pressione sul presidente del Mali IBK (Ibrahim Boubacar Keita) affinché applichi alla lettera gli accordi di pace firmati ad Algeri, che sono molto impopolari in Mali perché sospettati di preparare una scissione nel Paese.

Si è sempre opposta all’apertura di negoziati con alcuni gruppi jihadisti, che la maggioranza dei maliani ha chiesto e che ha contribuito al radicamento della situazione.

Infine, Parigi si è posta come arbitro dei colpi di Stato ‘buoni’ (nell’agosto 2020 in Mali e nell’aprile 2021 in Ciad) e di quelli ‘cattivi’ (nel maggio 2021 in Mali).

In Ciad, una famigerata dittatura, il corollario dell’intervento francese è in realtà il rafforzamento del partenariato con la Francia. Nel 2013, il Presidente ciadiano Idriss Déby ha inviato soldati in Mali a fianco delle truppe francesi, riscattando così la sua reputazione internazionale.

Le risorse di Barkhane vengono persino utilizzate a beneficio del regime di Idriss Déby: nel febbraio 2019, i mirages di Barkhane vengono utilizzati per sparare contro una colonna dell’opposizione armata che minaccia il regime di  Déby. Questo è ben lontano dal mandato di questa operazione di ‘guerra al terrorismo’.

Poi Emmanuel Macron si reca in Ciad quando Idriss Déby muore, nel 2021, per sostenere la presa di potere di suo figlio e rimane in silenzio lo scorso ottobre quando più di 50 manifestanti vengono uccisi dalle forze armate ciadiane.

L’interferenza e il sostegno ai regimi autoritari sono anche al centro della relazione tra la Francia e gli altri suoi  ‘partner’ nella regione.

In Burkina Faso, nell’ottobre 2014, sono state le forze speciali francesi, stanziate nel Paese nell’ambito dell’Operazione Sabre, a esfiltrare il dittatore Blaise Compaoré dopo la rivolta popolare.

Da allora, in un contesto politico mutevole e in un Paese sotto pressione da parte di gruppi armati che stanno creando scompiglio in gran parte del territorio, i termini del ‘partenariato’ militare con la Francia sono stati messi in discussione: le forze speciali francesi si stanno quindi preparando a trasferirsi in Costa d’Avorio.

Il Niger, fonte strategica di approvvigionamento di uranio per la Francia, è diventato in pochi anni una nuova base di retrovia per l’esercito francese e ha aumentato fortemente i bilanci militari, a scapito di settori sociali come l’istruzione e la sanità, che sono stati sacrificati.

Allo stesso tempo, il governo ha compiuto una svolta autoritaria, lontana dall'”esempio di democrazia” citato da Emmanuel Macron, moltiplicando i divieti di manifestazione e gli arresti di attivisti [9], in particolare di quelli critici nei confronti dell’intervento militare e della perdita di sovranità del Paese.

In Mauritania, la repressione avviene a porte chiuse. Il generale Abdel Aziz, il leader del colpo di Stato, ha lasciato la poltrona presidenziale nel 2019 dopo un decennio al potere, ma per installare un altro generale, Mohamed Ould Ghazouani, al primo turno, che è stato immediatamente lodato dalla diplomazia francese.

Così, a poco a poco, alimentata anche dall’incomprensione dell’incapacità di Barkhane di sradicare i gruppi armati, l’esultanza popolare filo-francese si è trasformata in una legittima ostilità popolare nei confronti di Parigi, e le teorie sulla doppiezza della Francia stanno prendendo piede, in particolare in Burkina Faso e in Mali.

Diventato un mantra mediatico e politico ineludibile, al quale i governi africani sono persino chiamati a dare spiegazioni, il ‘sentimento antifrancese’ è una doppia finzione intellettuale. Da un lato, non è rivolto ai francesi o a tutto ciò che la Francia può produrre o incarnare, ma alla sua politica neo-coloniale in Africa.

D’altra parte, non ha nulla a che fare con un ‘sentimento’ – un termine che mobilita il campo lessicale degli affetti e della passione -: è un’analisi fredda e documentata da parte di popolazioni che hanno subito le conseguenze di questa politica per troppo tempo.

In breve, è un rifiuto razionale e popolare della Françafrique che ci invita a cambiare finalmente le griglie di lettura dominanti.

Il risentimento nei confronti dell’intervento e della posizione della Francia, alimentato anche dalla tempestiva propaganda pro-Putin, ha quindi aperto un viale agli imperialismi concorrenti. I mercenari russi del gruppo Wagner sono stati accolti a braccia aperte all’inizio del 2022, e la partnership con la Russia è stata indicata come un’opzione dal nuovo governo del Burkina Faso.

Questo cambiamento nel contesto geopolitico e le inaccettabili azioni criminali di Wagner sono state ampiamente commentate e trattate dalla stampa francese. Ma questi crimini non devono farci dimenticare che la Francia ha una pesante responsabilità in questa situazione, che oggi le permette di imporsi come nuovo partner militare del Mali.

IN PARLAMENTO, CONTROLLO MINIMO E MASSIMA UNANIMITÀ

Nel 2013, abbiamo sottolineato l’urgenza di un controllo parlamentare molto vigile sull’operazione appena avviata. Questo non è accaduto.

Da gennaio 2013 in poi, l’unanimità intorno all’intervento ha regnato per diversi mesi in Francia, e qualsiasi forma di critica si è rivelata scandalosa – sulla base del fatto che l’intervento veniva effettuato su richiesta dei maliani!

Solo poche voci critiche della società civile francese e maliana si sono levate per mettere in dubbio la validità e i rischi di questo intervento, portando persino al rifiuto di un visto Schengen all’attivista di Aminata Traoré.

Se, a poco a poco, sono stati ascoltati punti di vista e analisi critiche, è persistito soprattutto il disinteresse o addirittura l’indifferenza nei confronti della situazione nel Sahel.

Sia sotto Hollande che sotto Macron, gli esecutivi successivi hanno mantenuto uno storytelling su questo intervento ed evitato qualsiasi dibattito pubblico sul tema – nella tradizione della politica della Francia in Africa.

Nel 2015, il Governo ha persino violato la Costituzione, che dalla riforma del 2008 prevede che sia necessaria un’autorizzazione del Parlamento per prolungare un’operazione esterna oltre i quattro mesi (articolo 35).

Mentre l’estensione dell’operazione Serval in Mali è stata votata a fine aprile 2013, l’estensione di Barkhane non è mai stata autorizzata. La continuazione di questa operazione, lanciata il 1° agosto 2014 in cinque Paesi, avrebbe dovuto essere discussa e votata.

Ma con il pretesto che si trattava solo di una continuazione delle operazioni Serval per il Mali ed Epervier per il Ciad, il Ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian ha ritenuto che non si trattasse di una nuova operazione, nonostante la sua portata più ampia e altri obiettivi. Al contrario, nel gennaio 2015, è stata messa ai voti la proroga dell’operazione francese in Iraq!

Fino ad oggi, questo ha smosso solo pochi parlamentari: l’unanimità delle forze politiche sull’interventismo francese in Africa e su questo intervento è quasi totale.

In otto anni, l’Operazione Barkhane è stata oggetto di una sola relazione parlamentare e di un dibattito (senza voto) in plenaria nel febbraio 2022, in reazione al licenziamento dell’ambasciatore francese da parte del Mali e quando le decisioni sulla fine dell’operazione erano già state prese. Abbiamo poi assistito a un atteggiamento indignato, senza la minima valutazione o messa in discussione della strategia francese nel Sahel.

Oggi, la guerra in Ucraina e la conseguente evoluzione geopolitica stanno spostando il centro di gravità dell’attenzione politica. Il rischio di un’“invisibilizzazione” dell’apparato militare francese, che è in fase di riorganizzazione, e di una crescente indifferenza nei confronti della situazione in Africa occidentale, è immenso.

La Francia intende infatti mantenere una forte presenza militare nella regione. L’unica lezione che le autorità traggono dal fallimento di Barkhane è che la presenza militare francese deve essere più discreta e che il vecchio discorso secondo cui questa presenza è al servizio degli africani deve essere riattivato.

La logica di sicurezza dell’antiterrorismo rimane la stessa e non c’è motivo di credere che l’interferenza militare straniera sarà meno dannosa in futuro. L’unico vero cambiamento è che 3.000 uomini rimarranno schierati, ma senza lo status di operazione esterna e quindi senza un minimo controllo parlamentare. Un’operazione fantasma, per così dire.

La logica dell’eccezione che prevale quando si tratta della politica francese in Africa e in particolare dei suoi interventi militari non è più accettabile oggi di quanto lo fosse in passato. Una democrazia sana e degna di questo nome dovrebbe essere in grado di aprire un dibattito sui suoi interventi all’estero e sulla sua politica estera.

Resta da vedere se i media e i politici francesi, che non hanno preso la misura della posta in gioco quando è stata lanciata l’Operazione Serval 10 anni fa, saranno finalmente in grado di cogliere l’opportunità di evitare una sepoltura discreta di 10 anni di guerra nel Sahel.

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