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Congo. “Dialogo, sconfiggere tribalismo, imperialismo e odio, costruire la Pace dei popoli”

La RDC, Repubblica Democratica del Congo, continua a fare i grandi titoli nei media, in particolare rispetto alla situazione nell’Est del paese e agli enormi problemi posti sul piano della sicurezza delle popolazioni, vittime di massacri, rapimenti e distruzioni di beni, ivi compreso quando si trovano nei campi profughi. In questo momento, la visita del Santo Padre, partito questo martedì 31 gennaio per Kinshasa, contribuisce non poco a puntare l’attenzione dell’opinione sul gigante dell’Africa centrale.

Nondimeno, è triste constatare come tutta questa mediatizzazione – con tutte le sue ambiguità, semplificazioni e, dobbiamo dirlo, talora infarcita di falsità – non apporti la luce necessaria all’individuazione del sentiero della pace. Manca il «faro» che suggerisca, in questo scenario offuscato dalle brume, l’itinerario, magari tortuoso e lastricato di trappole, per arrivare alla fine delle guerre e della violenza.

Da parte nostra, è possibile stabilire una diagnosi della situazione: i suoi elementi sono conosciuti ed in parte condivisi da molti degli attori presenti nella crisi. In questo testo, cercheremo di indicarli in breve e non certo esaustivamente, data la complessità e gli aspetti multi-dimensionali di quella che si apparenta sempre di più a una tragedia.

Il primo elemento si riferisce alla istituzioni politiche non funzionali, che fanno dello Stato della RDC uno Stato fallito. Tra le cause principali dei conflitti il cui epicentro sono le province orientali, il fallimento dello Stato è caratterizzato da una paralisi quasi totale delle istituzioni, soprattutto per quello che riguarda l’Amministrazione e l’apparato securitario, e la legittimazione della corruzione consacrata dall’impunità generalizzata nell’insieme delle istituzioni.

Per impunità, si è presa l’abitudine d’intendere, nella RDC, l’assenza di procedure giudiziarie a carico dei responsabili dei gruppi armati o di quegli elementi dell’esercito (Forze armare della RDC, FARDC) che si sono resi colpevoli d’atrocità. L’impunità tuttavia, non riguarda solo la violenza fisica sulle persone, ma tutto lo spettro della criminalità a partire da quella economica, causa principale dell’impoverimento di milioni di Congolesi.

Tutto questo perché essa sottrae allo Stato le risorse necessarie per fornire il servizi pubblici, la cui assenza resta una delle cause della miseria crescente delle popolazioni ed in particolare della mortalità (infantile, di quella delle donne durante il parto, oppure dovuta alla malaria e alla mancanza di strade, il cui effetto è la balcanizzazione reale del paese).

Questa mortalità, si guardi bene, presenta un tasso più elevato di quella prodotta dalle violenze fisiche causate da guerre e conflitti. Questo profilo di Stato predatore si manifesta paradossalmente nel fatto che l’Ovest del paese, regione considerata pacificata, soffre talora più dell’Est in termini di povertà, malnutrizione, mortalità infantile e femminile in particolare.

Un secondo elemento si riferisce a una classe politica che fa uso a piene mani e voci della demagogia e del populismo e che si mantiene al potere utilizzando la diffusione di discorsi e messaggi d’odio, funzionali a far dimenticare al popolo la propria inettitudine e le proprie turpitudini.

Come ha scritto Umberto Eco nel suo libro «Il cimitero di Praga», «Bisogna trovarsi un nemico per dare una speranza al popolo. Qualcuno ha detto che il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie: chi manca di principi morali è abituato a trovarsi una bandiera e i bastardi si reclamano sempre della purezza della razza. L’identità nazionale è l’ultima risorsa dei diseredati.

Ora, il sentimento dell’identità si fonda sull’odio, l’odio dell’Altro, del non-identico. Si deve coltivare l’odio come passione civile. Il ‘nemico’ è l’amico dei popoli. E’ sempre necessario qualcuno da odiare per trovare una giustificazione alla propria miseria. L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala». (pag. 257, 2010).

Il terzo elemento si riferisce a una ideologia nefasta caratterizzata dal tribalismo in generale e dalla tutsifobia in particolare, anche se le comunità prese di mira sono numerose, valga per tutti l’esempio dei pastori Hema dell’Ituri.

La debolezza dello Stato, aldilà del deficit d’Amministrazione che lo lo mette in evidenza, si evince dal fatto che l’élite al potere, o quella che cerca di conquistarlo, tribalizza la vita politica.

L’effetto di questa tribalizzazione si manifesta nelle forme perverse della decentralizzazione, traducendosi nel fatto che in ogni Provincia regni sicuramente una tribù per via della sua superiorità numerica: per via che le primarie delle elezioni locali non si svolgono all’interno di un partito, ma in seno alla tribù di maggioranza.

A parte il fallimento dello Stato dovuto alla corruzione, il tribalismo costituisce quindi un’altra causa profonda delle guerre e della miseria del popolo. L’odio per alcune minoranze della RDC è diventato un appello all’adunata di folle super eccitate, che si reclamano dell’identità «bantù» contro gli usurpatori «nilotici», identificati nelle comunità ruandofone dell’Est secondo delle scorciatoie etnologiche prive di qualsiasi fondamento storico e scientifico.

Questi sentimenti di ostilità che criminalizzano le diverse identità son pertanto considerati come une forma di patriottismo. Essi sono la fonte di tutte le discriminazioni, ma soprattutto di una violenza che pretende auto-legittimarsi nel momento in cui il suo obiettivo è rappresentato da quelli che sono additati come la razza che nasconde l’intenzione di balcanizzare la RDc per creare un Impero Hima (di Niloti..), dominato dai Tutsi del versante inter-lacustre dell’Africa centrale.

Le persone non sono più giudicate per quello che fanno, ma per quello che sono. E questo è il principio fondatore del Genocidio. Il delitto di morfologia -assomigliare al diverso- è un crimine che si paga, sempre più frequentemente, con la pena di morte in Congo e come gli avvenimenti di questi ultimi mesi insegnano.

Dei pogrom contro i Tutsi avvengono sempre più spesso nella provincia orientale del Nord-Kivu, in particolare nei territori di Beni-Butembo, di Masisi e di Rutshuru. Se si dovessero generalizzare nello sterminio massiccio, un nuovo genocidio, dopo quello del 1994 contro i Tutsi in Ruanda, non sarà più un rischio ma una realtà.

Siamo di fronte a une meccanismo letale e perverso, in cui si è riuscito a trasformare la vittima in carnefice per giustificare la violenza.

Pertanto, Papa Francesco l’aveva detto ai giovani incontrati a Nairobi, in Kenia: «Il tribalismo distrugge: il tribalismo è avere le mani nascoste dietro la schiena, tenendo una pietra in ogni mano, pronti a scagliarla contro qualcun altro». (1)

In questa situazione e a partire da questo momento, noi non possiamo esimerci dal lanciare un appello immediato alla pace e al Dialogo. Già l’abbiamo scritto e dobbiamo ripeterlo. Ma che non sia un Dialogo limitato ai paesi implicati nella crisi o alle sole forze politiche.

Convincere il governo della RDC a normalizzare le proprie relazioni con quello del Ruanda e a negoziare con l’M23 è certo necessario. Ma il Dialogo, nel paese profondo e reale, deve maturare tra le diverse comunità, oggi divise dai messaggi d’odio di alcuni leader estremisti

Fare del popolo l’artigiano del proprio destino

In questo senso e rispetto al fallimento delle soluzioni internazionali, ci si deve porre come urgenza la determinazione della capacità delle popolazioni congolesi a concentrarsi sulla costruzione della pace. Obiettivo irraggiungibile se il popolo non diventerà artigiano del proprio destino.

Come aveva affermato Paolo VI: «La Pace non si limita all’assenza della guerra, che è sempre frutto dell’equilibrio precario delle forze. La Pace si costruisce giorno dopo giorno nel perseguire l’ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia perfetta tra gli uomini» (2)

Per questo motivo, senza una lotta permanente contro il tribalismo non ci sarà pace.

Sempre Papa Francesco, nel 2015 a Nairobi, aveva avvisato: «Se voi non dialogate, ci saranno sempre tribalismo e divisioni, come un veleno che si diffonde nella società. Voi dovete debellare il tribalismo con un lavoro quotidiano, un lavoro di ascolto dell’Altro, di aperture dei cuori e delle mani. Dobbiamo darci la mano gli uni con gli altri».

Le tribù sono chiamate a fondersi per formare la Nazione. Questo processo di ‘nazionalizzazione’ dei popoli, che sarebbe dovuto essere prioritario dopo le Indipendenze africane, e che ha funzionato molto bene nella Tanzania di Julius Nyerere, deve ancora cominciare nella RDC. Mettiamoci al lavoro per strutturare insieme un discorso sull’evoluzione delle identità tribali in identità nazionali, il tutto nel rispetto delle caratteristiche dei valori positivi delle prime.

Chi si incaricherà di raggiungere questo obiettivo ?

Per rendere il popolo protagonista della sua sicurezza e della pace, non si devono mai dimenticare le cause profonde dei conflitti attuali, quelle che abbiamo evocato nella prima parte di questo testo. Ma per essere costruttori di pace, il Dialogo è strettamente necessario e deve essere basato sulla riconciliazione, la giustizia e il perdono. Par questo, lo ripetiamo, esso deve maturare in seno al popolo.

Una rifondazione radicale dello Stato congolese non essendo possibile nell’immediato, è lecito per il momento proporre la creazione di una Commissione patrocinata dal cardinale di Kinshasa. Una Commissione ‘Giustizia e Pace’, articolata territorialmente a livello delle diocesi e allargata alla presenza di dirigenti dell’Amministrazione, del Clero e delle diverse comunità, ma anche delle Ong e di membri dell’apparato securitario.

Il tutto nello spirito e nella lettera della Populorum Progressio di Paolo VI, i cui insegnamenti corrispondono alle parole e all’insegnamento di Sua Santità Papa Francesco.

 * da IlFarodiRoma

Note

1 Papa Francesco, Incontro con i giovani di Nairobi, 27 novembre 2015.

2 Populorum Progressio – Lettera enciclica di Sua santità Papa Paolo VI sullo sviluppo dei popoli. 1967.

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    Indiscutibilmente la diffusione dell’automobile produce un incremento della mortalità (soprattutto tra chi non ne fa uso: pedoni, ciclisti…). In particolare nei Paesi a basso reddito, l’Africa in primis.
    Eppure la narrazione più diffusa rimane quella delle “magnifiche sorti e progressive, ossia l’aumento di automobili, strade e autostrade (asfaltate, beninteso).

    L’INCUBO AUTOMOBILE SI AGGIRA PER L’AFRICA (ANCHE) E FA STRAGE .
    CHI VUOLE PUO’ CHIAMARLO PROGRESSO…

    Gianni Sartori

    Ovviamente, provenendo da ambienti interessati all’Africa in quanto fonte di affari e profitto, la notizia veniva data avvolta in un alone positivo, ottimistico.

    Per la serie delle “magnifiche sorti e progressive”.

    Mi riferisco all’ulteriore asfaltatura delle strade in Camerun prevista per il 2013.

    Ma facciamo qualche passo (a piedi, ca va sans dire) indietro.

    E’ ormai risaputo, se non proprio universalmente, almeno tra gli “addetti ai lavori” che in Africa di incidenti stradali si muore più che per l’Aids. Come confermano certi ambienti missionari di mia conoscenza la cui frequentazione con il Continente Nero (o “Vero” come si va diffondendo in ambienti moderatamente progressisti) è ormai secolare.

    Statisticamente qui si registrano più incidenti che in ogni altro continente. E il tasso medio di mortalità stradale (dati dell’OMS) sarebbe di 26,6 morti ogni 100mila abitanti (il triplo rispetto all’Europa). Riesce a far peggio solo la Repubblica Dominicana. Seguita da una lista di ben 24 paesi africani.

    Tra i primi: Zimbabwe, Malawi (nel 2018 un camion era piombato sul mercato di Kampepuza uccidendo oltre 20 persone), Liberia, Eritrea, Uganda…ma anche Kenya (12° posto, 48 morti ogni 100mila abitanti), Nigeria, Egitto e Sudafrica non scherzano.

    In Sudafrica, per dire, nel 2022 circa 22,7 vittime ogni 100mila abitanti (nonostante da anni sia attiva una campagna – Be safe-get there – per “arrivare vivi”). Mentre in Nigeria (41.709 vittime sulle strade tra il 2013 e il 2020) come causa di morte è allo stesso livello del banditismo e degli attacchi jihadisti.

    Fermo restando che presumibilmente anche in Africa chi muore dopo qualche giorno o qualche settimana (sebbene la causa principale sia l’incidente) non rientra nel calcolo complessivo (rimanendo statisticamente classificato tra i “feriti”).

    Tra le cause, l’alcol (forse la principale), la mancanza di rispetto per la segnaletica e l’eccesso di velocità. Al solito, non si considera adeguatamente, tantomeno si cerca di quantificare, l’incidenza dell’uso del cellulare (o di altri marchingegni analoghi) durante la guida. Oltre naturalmente alla cronica corruzione per cui le infrazioni al codice della strada spesso si possono sanare pagando direttamente l’agente.

    Quanto all’obiezione in merito al “cattivo stato delle strade”, in diversi casi sterrate, si tratta – a mio avviso ovviamente – di un falso. In realtà l’eventuale asfaltatura (sempre che non serva a ricoprire – ricordate in Somalia all’epoca di Ilaria Alpi? Altro che la nostra A31! – quantità industriali di rifiuti tossici) servirebbe soltanto a incentivare la velocità e quindi i rischi di incidenti più o meno mortali.

    Invece, come dicevo all’inizio, è stato commentato positivamente il recente annuncio (v. conferenza semestrale dei capi dei servizi centrali e decentrati del ministero dei Lavori pubblici del Camerun) del ministro Emmanuel Nganou Djoumessi. Ossia la prossima asfaltatura di oltre 700 km di strade in Camerun entro il 2023.

    Quasi quanto quelli asfaltati nel 2021(778,6 km) e più del doppio di quelli (395) del 2022.

    Più o meno contemporaneamente giungeva la notizia di quello che probabilmente resta il peggior incidente nella storia del Camerun.

    Il 25 gennaio 2023 (verso le tre di notte) ben 53 persone perdevano la vita (un numero destinato ad aumentare in quanto risultano anche una trentina di feriti in gravi condizioni) non lontano dalla città di Dschang lunga una strada con molte curve.

    Qui un autobus delle linee urbane si era scontrato con un furgone utilizzato per trasportare carburante. Nell’incendio immediatamente divampato i corpi delle vittime venivano letteralmente divorati dalle fiamme e resi irriconoscibili. Tra le ipotesi, un cattivo funzionamento dei freni del furgone, la scarsa visibilità e – ovviamente – la velocità eccessiva. Problemi che difficilmente si potrebbero risolvere ricoprendo la strada d’asfalto (tra l’altro, osservando le foto, in molti tratti sarebbe già asfaltata).

    Altra strage su una arteria stradale africana (anche in questo caso già asfaltata in quanto autostrada, la Kano-Zaria), quella del 6 gennaio in Nigeria. Confermato il decesso pressoché immediato di 19 persone. A cui da allora se ne saranno sicuramente aggiunte altre in quanto quelle gravemente ferite erano almeno una trentina.

    Stando alle dichiarazioni del Frsc (Federal road safety corps) si sarebbe trattato di uno scontro frontale tra due autobus. Sempre a causa dell’alta velocità e anche in questo caso i veicoli si sono immediatamente incendiati.

    Da un articolo di Edward Duncan e Isabelle Uny apparso circa tre anni fa su “The Conversation”, si apprendeva che “gli incidenti stradali rappresentano l’ottava causa di morte al mondo” e che “la stragrande maggioranza di questi decessi avviene in Paesi a basso reddito come quelli dell’Africa subsahariana”. Pur essendo questi Paesi quelli “con le percentuali più basse in termini di veicoli posseduti per ogni abitante”.

    Inoltre, spiegavano i due esperti “qui gli incidenti stradali hanno un impatto maggiore rispetto a malattie mortali come la malaria, la tubercolosi e – in alcune zone- l’HIV e l’AIDS”. Anche nell’Africa sub-sahariana — lo davo per scontato – la maggior parte delle vittime stradali “sono pedoni, ciclisti e motociclisti, dato che per molti camminare e andare in bicicletta restano gli unici mezzi di trasporto a disposizione”.

    Surreale però la successiva affermazione (da cui traspare un certo “stupore”, tutto occidentale) per cui sarebbe “una cosa normale vedere bambini, adulti e anche venditori ambulanti camminare lungo i bordi delle strade estremamente trafficate”. Scusate, ma proprio non capisco. Perché camminare lungo le strade non dovrebbe essere “normale”? Dove dovrebbero andare? “A campi”? In giro per la savane…? Evidentemente mi sono perso qualcosa.

    Duncan e Uny denunciavano poi le carenze in materia di pronto intervento, pronto soccorso, cure mediche e riabilitazione. Per cui, ma era prevedibile “molti dei feriti poi muoiono” (anche se, aggiungo, presumibilmente non rientreranno nelle statistiche).

    Tralascio per ora di approfondire altri aspetti della questione.

    Come la relazione (già documentata) tra lo sviluppo della viabilità e la diffusione dell’Aids (in particolare grazie alle camionabili, dove migliaia di povere donne, spesso abbandonate con figli, si prostituivano agli autisti che poi, viaggiando su gomma, portavano l’infezione a centinaia di chilometri). Oppure le stragi di bambini lungo le piste della Parigi-Dakar (quelle del percorso originario dove, pare, non sarebbe più gradita dagli indigeni).

    Ma concludo dicendo che se i progetti onusiani di una capillare, diffusa educazione stradale rappresentano comunque un atto di buona volontà, insistere ulteriormente sull’omologazione al modello occidentale (più strade e autostrade – asfaltate – più auto private…) mi sembra non solo inutile, ma controproducente.

    Ovviamente spetterà alle popolazioni interessate decidere. Sempre che sia loro consentito.

    Gianni Sartori

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