Domenica 5 febbraio il governo peruviano ha decretato lo “stato d’emergenza” nelle 7 regioni attualmente al centro delle mobilitazioni popolari in corso dal 7 dicembre scorso: Madre de Dios, Cusco, Puno, Apurimac, Arequipa, Moquegua, Tecna.
Sono tutti territori che hanno già pagato un notevole prezzo in termini di morti e feriti da quando sono iniziate le proteste contro il golpe, come denuncia la Coordinadora Nacional de Derechos Humanos: 26 persone morte solo a Puno, e 205 feriti nella sola Juliaca; 6 persone decedute ad Apurimac, un morto a Cusco, e 76 feriti; una persona morta ad Arequipa, senza neanche contare le detenzioni arbitrarie e i maltrattamenti avvenuti.
Questa misura, il decreto supremo N.°018-2023-PCM pubblicato sulla gazzetta ufficiale El Peruano, è stata presa dopo l’ennesima giornata di protesta a Lima il 4 febbraio, chiusasi con un bilancio di 26 persone arrestate e 24 ferite a causa della repressione poliziesca che ha fatto uso perdigones; pallottole.
La proclamazione dell’Estado de Emergencia di 60 giorni di fatto annulla qualsiasi garanzia legale per i cittadini e dà pieni poteri a polizia (PNP) e forze armate, militarizzando ulteriormente la vita politica del paese.
Il tutto qualche giorno prima dell’ennesimo Paro National che si è svolto il 9 febbraio, proclamato da diversi organizzazioni sindacali (tra cui la maggiore centrale sindacale peruviana CGTP ed il sindacato degli insegnanti, la Sutep) ed altri organismi di lotta.
Il decreto stabilisce che durante l’Estado de Emergencia sono ristretti o sospesi “i diritti costituzionali relativi all’inviolabilità del domicilio, la libertà di transito per il territorio nazionale, libertà di associazione e sicurezza personale”.
Il decreto stabilisce che sia la polizia a mantenere il controllo dell’ordine interno con l’ausilio dell’esercito, “eccetto che nel dipartimento di Puno, in cui si richiede che il controllo interno sia assunto dalle Forze Armate”, con il divieto di circolazione notturna – di fatto un coprifuoco – per 10 giorni.
Di fatto la regione di Puno si trova sotto assedio militare in un contesto di “guerra civile a bassa intensità”; qui nelle prossime settimane l’esecutivo tenterà di annichilire con ogni mezzo l’opposizione, procedendo anche ad un tentativo di “auto-riforma” dagli esiti incerti.
Già a metà gennaio l’Esecutivo aveva dichiarato lo Stato d’Emergenza per 30 giorni a Callao, Amazonas, La Libertad, oltre che nella capitale, che era divenuta centro delle proteste di inizio anno, dopo la breve tregua per le festività.
Da circa un mese a questa parte Lima, che era stata solo “sfiorata” dalle proteste del Perù Profondo – avvenute con blocchi stradali, occupazioni di scali aeroportuali e marce di protesta – è diventata teatro di mobilitazioni quotidiane, con manifestanti che provengono da tutte le parti del Paese e i palazzi del potere trasformati in una sorta di “fortini assediati”, difesi da un numero ingente di forze dell’ordine che fanno sempre più sfoggio di muscoli.
Siamo manifestamente di fronte ad una dittatura, come viene apertamente denunciato dalle opposizioni, senza che nessuna delle istituzioni del paese abbia minimamente risposto a nessuna delle richieste che da più di due mesi vengono dalla piazza: rinuncia da parte di Dina Boluarte – passata ben presto nell’immaginario popolare da essere considerata da usurpatrice ad assassina -, scioglimento del Congreso, convocazione di elezioni anticipate il prima possibile, contestualmente all’avvio di un processo che porti all’Assemblea Costituente, e la liberazione di Pedro Castillo.
Dal carcere di massima sicurezza di Barbadillo, nel quale è detenuto scontando una pena “preventiva” di 18 mesi, Pedro Castillo, in una intervista al giornale iberico El Salto ha ribadito la necessità di una Assemblea Popolare Costituente che cambi la Carta fujimorista del 1993.
Castillo denuncia il “massacro” dei propri compatrioti ed il “terrorismo di Stato da parte di questo governo”, ribadisce che il Congreso, anche a causa dell’incapacità di decidere per andare ad elezioni anticipate, è “delegittimato”.
L’ultimo episodio, che dà la cifra del livello di marcescenza delle forze politiche che lo animano – compresa una parte della cosiddetta “sinistra parlamentare” – è stato il ritiro della firma all’ultimo momento del Bloque Magisterial, lo scorso 9 febbraio, rispetto all’impegno preso con altri portavoce di gruppi parlamentari per mettere in agenda la tenuta anticipata delle elezioni, frustrando di fatto la possibilità di un dibattito e di una approvazione.
L’impegno in tale direzione era stato sottoscritto da Cambio Democrático, Perú Libre, Fuerza Popular, Perú Democrático, Podemos Perú, ed il Bloque Magisterial.
Una possibilità di discussione che sembra potersi riaprire questo mercoledì, stando alle dichiarazioni di Alianza para el progresso (APP), cui si sono detti disponibili Perú Libre, Somos Perú, mentre Acción Popular ne discuterà in sede direttiva questa settimana.
L’estrema destra di Renovación Popular si è detta contraria a qualsiasi ipotesi di elezioni anticipate.
Ma è chiaro che fino ad ora nessuno dei poteri istituzionali è stato in grado di fare avanzare una soluzione che sblocchi l’impasse e porti il paese fuori dalla crisi politica.
Castillo conclude l’intervista dicendo che: “continuo ad essere il presidente del Perù, come peruviano non riconosco questo governo genocida come rappresentante del Perù. Non parlo non solo come presidente, parlo come peruviano, questo governo dittatoriale non ci rappresenta”.
É chiaro che le parole di Castillo sono sulla stessa lunghezza d’onda della maggior parte delle popolazioni del paese andino e dei leader progressisti latino-americani, che non riconoscono Dina Boluarte e denunciano da tempo l’involuzione autoritaria del paese.
Intanto, questo giovedì a Juliaca più di una ventina di persone sono risultate ferite a causa della repressione della polizia e dell’esercito il giorno in cui veniva commemorato – a distanza di un mese – il “massacro di Juliaca” del 9 gennaio, in cui erano stati uccisi 18 manifestanti. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti anche nei dintorni dell’aeroporto Inca Manco Capac, facendo uso di bombe lacrimogene e peridigones.
La repressione ha colpito duro pure ad Apurimac, dove venerdì mattina è stata confermata la morte del Denilson Huaraca Vilchez, di 23 anni ferito nella serata a Aymaraes, colpito da una bala.
La polizia ha cercato di impedire il trasporto del feretro durante la marcia funebre, che ha assunto un carattere politico, sbarrandogli la strada, come mostra il video pubblicato dal sito di contro-informazione Wayka.
Oltre alla persone deceduta, ed ai numerosi feriti – tra cui una bambina di 11 anni – si sono verificati numerosi arresti arbitrari.
Anche sabato ci sono state mobilitazioni a Lima duramente represse nonostante il loro carattere pacifico, così come sono avvenute manifestazioni nel resto del paese andino.
Un altro dirigente, Ernesto Tapia, Segretario generale dei Diritti umani della CGTP, è stato detenuto nel mercato di Pucallpa a Ucayli. L’ennesimo repressivo nei confronti di una figura di spicco dell’opposizione.
Una parte piuttosto consistente del Deep State peruviano che ha appoggiato il golpe della destra oligarchica sta portando avanti – sia sotto il profilo operativo che prettamente culturale-informativo – un’azione che riassume il profilo della guerra contro-insurrezionale, questa volta non praticata contro l’insorgenza maoista di Sendero Luminoso e la sua base popolare di consenso, ma direttamente contro i popoli peruviani.
All’interno di questa strategia – la dittatura militare con una facciata “parlamentare” che si instaura dopo un’operazione di lawfare giudiziario “da manuale” – vengono sempre più minacciati gli spazi di informazione e di comunicazione non monopolizzati dai media mainstream (come il gruppo che edita Diario El Comercio), sia con la caccia ai giornalisti delle reti alternative da parte delle forze dell’ordine durante le manifestazioni, sia con la denuncia anonima promossa dal Ministero dell’Interno contro presunti reati di “terrorismo”.
Gli apparati che controllano veramente il Perù d’oggi per conto dell’oligarchia economica e dei propri padrini occidentali non vanno troppo per il sottile: se appoggi le proteste, o denunci le violenze poliziesche o l’attuale assetto politico sei passibile di essere “un terrorista“.
L’attuale sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, i canali digitali ed i programmi di messaggeria non rendono più possibile una censura su ciò che avviene nel paese, com’era stato durante la dittatura di Alberto Fujimori, per cui l’attuale sistema di potere – come denuncia Laura Arroyo, in un editoriale di Wayka – “necessita ridurre in silenzio la verità e la unica forma di farlo è ridurre al silenzio tutti e tutte che la raccontano in qualche modo” con una immagine, un filmato, una semplice espressione di disapprovazione di fronte alla mattanza in corso.
“Qualsiasi persona, senza essere in dovere di provare la sua identità, può denunciare ora qualsiasi persona che la pensi diversamente. Questo include, soprattutto, chiunque dica la verità”.
Anche per questo, attraverso questo giornale, continueremo a denunciare ciò che avviene nel Paese cui le “belle anime” liberal-democratiche occidentali, sempre pronte ad essere in prima fila quando si possano denunciare strumentalmente le presunte violazioni dei diritti umani, sembrano chiudere un occhio – anzi entrambi – su quello che avviene nel Paese andino. Di fatto complici con la élite di Lima noncurante della sorte dei “cholos”.
Siamo sicuri che l’insurrezione delle popolazioni peruviane, così com’è avvenuto nel resto dell’America Latina, relegherà nella pattumiera della storia questa oligarchia reazionaria che ha imposto una feroce dittatura militare.
Come ha scritto in un suo recente intervento, Manuel Guerra, Segretario Generale del Partido Comunista del Perú – Patria Roja, “ciò che è in gioco non è solo la permanenza nel Palacio di Dina Boluarte, né se si anticipano le elezioni o meno. Quello che è in gioco è il Perù ed il suo destino.
Questo è il compito dell’insorgenza popolare, le cui domande non si esauriscono nell’attuale congiuntura; mette in discussione dalle fondamenta il modello neo-liberale imposto in questi tre decenni, e reclama una soluzione alle antiche fratture e alle persistenti diseguaglianze dei 200 anni di vita repubblicana. La crisi attuale ci ha posto di fronte a questa rottura storica, questione che la destra cercherà di impedire a tutti i costi”.
É una sfida storica sia per il Perù che per il corso progressista di tutta l’America Latina.
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Ernesto Torres Espinoza
Interessante e ben dettagliato articolo MA devo aggiungere che la liberazione del professor e ormai ex presidente Pedro Castillo non fa parte delle richieste più urgenti della protesta. Rinuncia della presidente usurpatrice Dina Boluarte, chiusura del Congresso, Nuove Elezioni (questo 2023) e referendum per la possibilità di avere una nuova costituzione sono ormai le petizioni più attuali. Il professor Castillo, non ha potuto esercitare il suo lavoro per colpa di un congresso dominato dalla desta ma è vero anche che ha commesso molti errori politici e non ha saputo gestire e allontanare i suoi parenti, amici e assessori pronti ad aggrapparsi al potere e commettere una serie di atti criminali legati alla corruzione…