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Quando decollerà la nuova “Rzeczpospolita 2.0” polacco-ucraina?

La distruzione dell’Ucraina come pegno per lo sviluppo della Polonia, scrive l’ucraino Stanislav Lešcenko sulla russa Vzgljad.

Secondo le più recenti proiezioni demografiche di Eurostat, e nonostante le ambizioni imperiali di Varsavia, alla fine di questo secolo, degli attuali 37,6 milioni di polacchi, ne resteranno meno di 30, e l’età media salirà da 42 a oltre 50 anni. Ma «la leadership polacca si appresta a risolvere questo problema a spese altrui. Questo processo è già in corso e riguarda direttamente anche il nostro paese».

Le previsioni del Ministero delle finanze polacco sono ancora più nere di quelle di Eurostat e parlano di una diminuzione, da qui al 2080, del 41,4% di persone in età lavorativa e dell’aumento del 42,3% di persone in età pensionistica: un modo per annunciare quasi sicuri tagli pensionistici.

L’OCSE ipotizza per la Polonia, da ora al 2050, una crescita del debito pubblico dal 55 al 138%, con “conseguente raccomandazione” di portare a 67 anni l’età pensionabile.

In tutto ciò, le ricette dei capitalisti polacchi ricalcano quelle di italici cognati: innalzare l’età lavorativa, ma soprattutto allentare la politica migratoria, con braccia a basso prezzo pronte a entrare in Polonia.

Già ora, dicono a Varsavia, il 6,5% della forza lavoro è composta da stranieri: si tratta solo di raddoppiare o triplicare tale percentuale e non permettere che altri si approprino di quella merce vilia ma preziosa costituita dalla forza-lavoro ucraina.

Secondo l’agenzia Gremi Personal, il 38% degli ucraini che lavorano in Polonia non ha intenzione di tornare in patria: ciò significa, per Varsavia, alleggerire la crisi demografica già nel giro di 3-4 anni.

La soluzione ideale per la Polonia, afferma il polonista Stanislav Stremidlovskij, sarebbe la scomparsa dello stato ucraino, con la popolazione che fluidamente si ritrova polacca: niente bisogno di tutte quelle formalità (lingua, cultura, ecc.) che si presenterebbero in caso di confederazione e non ci sarebbe da preoccuparsi del reintegro di L’vov nella compagine polacca: avverrebbe di per sé.

Naturalmente, quest’ultima soluzione eviterebbe tante tappe intermedie. Ma, per il momento, si comincia per gradi. Dunque, l‘Ucraina si “scioglie” nella Polonia, scrive Odna Rodina: la collaborazione del Ministro dell’istruzione ucraino Oksen Lisovoj con la Polonia non si limita a un accordo per la “correzione” o il “perfezionamento” dei testi scolastici ucraini di storia e geografia.

D’ora in poi, in una serie di scuole, istituti superiori e di istruzione prescolare ucraini, ad esempio nella regione di Dnepropetrovsk, le lezioni verranno condotte in polacco.

Il Ministero golpista per la reintegrazione intende includere il polacco tra le materie con valutazione esterna indipendente, e la Ministra Irina Vereščuk dichiara che stretti legami con i polacchi significano «garanzia di sviluppo sostenibile e sicurezza»: è dunque necessario studiare la lingua polacca in ogni scuola.

«Dobbiamo passare ad azioni concrete per integrarci nello spazio europeo», ha detto la Vereščuk; e il «primo passo è lo studio delle lingue dei paesi vicini». Russo escluso, ca va sans dire; ed esclusività polacca.

E che ne sarà allora della “mova”, il termine con cui gli ucraini definiscono la lingua, e in particolare la loro lingua, e per cui sin da 2014 mossero guerra al Donbass?

Finirà che la lingua diventerà, come in un lontano (ma non lontanissimo) passato, un campagnolo suržik, quel miscuglio di ucraino e russo che storpia entrambi gli idiomi. Dopotutto, nota Odna Rodina, furono i bolscevichi, ora “decomunistizzati” in Ucraina, a registrare nel 1926 milioni di piccoli e grandi russi come ucraini e fu il governo sovietico a far sì che la “mova” si sviluppasse a ritmi senza precedenti.

Non c’è da aspettarsi nulla di simile da Varsavia, come aveva dimostrato il periodo 1920-1939.

La nazionalista (e filo-russa) Myśl Polska scrive però che non si arriverà a un’unione polacco-ucraina. È anzi molto probabile il fallimento di tale disegno: già così, l’apertura delle frontiere con l’Ucraina è una catastrofe economica, basti pensare al diluvio di derrate agricole a prezzi irrisori, che strozzano il mercato polacco.

Già oggi le perdite potrebbero ammontare a centinaia di miliardi di zloty all’anno, perché, lamenta Myśl Polska, un paese degradato quale l’Ucraina, ma molto più grande, oltre che forte produttore agricolo, può distruggere completamente l’agricoltura polacca, che si muove in condizioni peggiori e dovrebbe vendere molto più a buon mercato.

Questo metterebbe il paese fuori dalla UE, i cui membri adotterebbero misure di difesa. Dunque, «dobbiamo iniziare a farci guidare dai nostri interessi, storicamente in contraddizione con il concetto di integrazione politica e giuridica con lo Stato ucraino, oltre che con l’attuale politica orientale dell’Unione Europea».

Oltretutto, scrive Myśl Polska, l’esperienza del passato dimostra che nulla di ucraino ci sarà nella compagine della Polonia, che è una nazione monolitica: l’ucraino non diventerà la seconda lingua di stato in Polonia e la cultura ucraina sarà schiacciata. Il processo di polonizzazione è inevitabile.

Di parere opposto, naturalmente, a Varsavia, pur nello spirito della Polonia imperiale di Jozef Pilsudski. L’ufficialissima Rzeczpospolita titola “La Polonia dei due popoli. Già in azione l’unione con l’Ucraina” e, mentre sottolinea che 3,2 milioni di ucraini vivono in Polonia – ma non dice a quali condizioni lavorino – annuncia summo cum gaudio: «A livello di società polacca, l’unione funziona già. La Polonia è diventata uno stato binazionale».

È in questo modo, chiosa Valentin Lesnik ancora su Odna Rodina, che la stampa polacca prepara gradualmente la società alla comparsa dell’ennesima copia della Rzeczpospolita: questa volta, secondo la formula Polonia+Ucraina.

Il retroscena di tale polonizzazione, di questa nuova “Rzeczpospolita 2.0” per cui si adoperano Andrzej Duda e Vladimir Zelenskij – e, a quanto pare, anche il presidente lituano Gitanas Nauseda – è dato dai piani di Varsavia (e dei suoi curatori d’oltreoceano), per trasformare tale spazio in una palude in cui far impantanare la Russia, un territorio cuscinetto tra Occidente e Oriente, atto anche a “filtrare”, o ostacolare, gli scambi economici tra Russia (e Cina) e Europa.

Nel frattempo, in attesa di tanta “evoluzione”, il primo ministro ceco Petr Fiala, lo slovacco Eduard Heger e il polacco Mateusz Morawiecki hanno composto sull’americana Foreign Affairs un canto appassionato su Ucraina e “mondo libero”.

«È sempre più evidente che la Russia ha concluso da tempo di essere in guerra con noi», constatano affranti, e se la Russia vince, allora l’Europa centrale «potrebbe essere la prossima» vittima. Bisogna quindi sconfiggere la Russia, e inviare così «un chiaro segnale che i conflitti congelati non hanno posto nella nostra regione».

Ancora: «Noi dobbiamo sostenere l’Ucraina finché le truppe russe non saranno ritirate dal suo territorio, col che si porrà fine al revanscismo e all’imperialismo del Cremlino». Siamo quindi «orgogliosi che l’Europa si sia levata tutta insieme di fronte all’aggressione russa» e, per sconfiggere Mosca, «nessun tipo di arma deve essere escluso a priori».

Quindi il canto: «... se l’Europa vuol rimanere libera e integra, sono decisive partecipazione e leadership americane»; che altro non è che una variazione sul ritornello intonato da anni da quel palafreniere atlantista che è Varsavia, secondo cui «la modernizzazione dei rapporti atlantici» significa il vassallaggio di Germania e Francia di fronte a Washington e la crescita d’influenza polacca.

In altra istanza, e come misura urgente, l’armata polacco-baltica propone di confiscare gli asset e le riserve russe in Occidente e dividerli, utilizzandoli anche «per la ricostruzione dell’Ucraina».

Per l’undicesimo pacchetto di sanzioni anti-russe, si chiede l’esclusione di Gazprombank dal SWIFT, il taglio completo di ogni qualsivoglia fornitura di gas russo e la riduzione della portata del “Družba”, attraverso cui il petrolio russo arriva a Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria. Di passaggio: chiusura totale a diamanti e alluminio russi.

Va da sé che Vladimir Putin ha immediatamente firmato un decreto – “Sulla gestione temporanea di alcune proprietà” – sulle misure di ritorsione per il sequestro di beni russi all’estero, che prevede il passaggio alla gestione delle proprietà degli stranieri in Russia.

L’83,7% delle azioni di Unipro (della tedesca Uniper) e il 98% dei titoli di Fortum (controllata della finlandese Fortum) sono già in fase di trasferimento di gestione. Sembra che alla notizia del decreto, il 26 aprile le azioni Unipro alla Borsa di Mosca siano cresciute del 5,19%: il valore più alto, nota RT, da febbraio 2022.

A quanto pare, il capitale russo sta ricevendo davvero “colpi mortali” da sanzioni, sabotaggi e altre “trovate” euro-atlantiche: secondo le ultime rilevazioni di Forbes, sono 22 in più dello scorso anno, per un totale di 110, i miliardari russi, che si spartiscono un patrimonio complessivo di 505 miliardi di dollari: 152 più di un anno fa.

«L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore» (Samuele, 2-4). Ma, chi è il debole e chi il forte?

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