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I venti di guerra e la battaglia per la pace

Nelle attuali dinamiche del mondo multipolare assistiamo a due tendenze in direzione assai diversa.

Da una parte c’è chi soffia sul fuoco dei vari conflitti latenti, così come delle vere e proprie guerre guerreggiate (non solo in Ucraina) per mantenere la propria rendita di posizione affermatasi negli ultimi trent’anni con l’ormai crepuscolare – ma non “superata” – globalizzazione neoliberista.

Si tratta, in sostanza, del blocco euro-atlantico con i propri alleati in Medio Oriente (Israele) ed in Asia: prevalentemente, ma non esclusivamente, Corea del Sud, Giappone, Filippine ed Australia.

Lo strumento principale di tale mission è l’Alleanza Atlantica a guida anglo-americana, che comprende Finlandia e probabilmente comprenderà la Svezia come 32simo membro, e che sta integrando di fatto nel Pacifico una serie di Paesi.

Questi Paesi si stanno velocemente riarmando, svolgono esercitazioni sempre più importanti insieme agli USA, e che – come accade a Giappone e Corea del Sud – hanno riattivato un programma di sviluppo nucleare che, probabilmente, non si esaurirà con il suo uso civile.

Da non dimenticare, sempre questi ultimi due Stati – in particolare la Corea del Sud -, svolgono un ruolo di supporto nel conflitto ucraino.

Dall’altra parte ci sono una serie di soggetti del mondo multipolare che stanno cercando di preparare le condizioni per una risoluzione politica dei conflitti reali e potenziali, senza rinunciare ad una certa assertività nell’affermare i propri interessi geopolitici, ma che hanno compreso la necessità della battaglia per la pace dentro una rinnovata cornice di rapporti internazionali.

Ultima tappa della folle corsa alla guerra è stata la visita – la prima in vent’anni – del premier sud-coreano Yoon Suk-yeol a Washington, questa settimana, che ha portato alla firma dell’accordo – Washington Declaration – che mette nero su bianco l’utilizzazione di tutti i dispositivi di deterrenza statunitensi per contrastare ogni possibile minaccia nucleare nord-coreana.

La Dichiarazione comprende “il regolare dispiegamento di assets strategici”. In poche parole, teoricamente, di tutto l’arsenale a disposizione degli Stati Uniti.

Uno dei risultati di quest’ulteriore rafforzamento della cooperazione tra i due paesi – dentro la ridefinizione delle filiere produttive nell’ottica del friendshoring –  è il fatto che i porti della Corea del Sud ospiteranno sommergibili statunitensi dotati di armi nucleari, anche se sembrano non esserci per ora piani per lo stazionamento di armi nucleari statunitensi sul suolo sud-coreano.

Non proprio un segnale di distensione…

La Cina afferma che Washington sta provocando il confronto – e non ha tutti i torti – e senz’altro sta alzando l’asticella moltiplicando, così come nel Mare Cinese Orientale, le possibilità di incidenti e provocazioni.

Bisogna ricordare che a metà aprile Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti avevano svolto esercitazioni congiunte di “difesa balistica”, e successivamente Sud-Corea e USA avevano condotto esercitazioni bilaterali congiunte, fino al 28 aprile, con l’uso di 110 aerei da guerra, inclusi gli F-35.

Queste esercitazioni sono in continuità con quelle che i due paesi avevano svolto a marzo: le loro più grandi manovre congiunte sul campo di sempre, oltre ad altre esercitazioni aeree e navali, con l’utilizzo di gruppi di combattimento aereo ed i B-52 con capacità nucleare.

Numerosi analisti sottolineano “il salto di qualità” fatto dalla Corea del Nord con i testi del Missile Intercontinentale Balistico (ICBM l’acronimo in Inglese) a carburante solido, che amplia il raggio d’azione dell’arsenale nord-coreano, ed in generale l’incremento in prospettiva della capacità nucleare complessiva del paese.

Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU vieterebbero il Paese nel mettere in campo l’attività balistica che Pyongiang afferma essere legittimamente l’esercizio delle proprio diritto di autodifesa, ma Russia e Cina hanno opposto il proprio diritto di voto alle sanzioni nei confronti del paese.

Ma se passiamo dal Pacifico, al quadrante euro-asiatico più vicino geograficamente a noi, la tendenza non cambia.

Visti gli sviluppi successivi, appare particolarmente sciagurato il punto 23 del comunicato pubblicato al termine del vertice di Bucarest della NATO, nell’aprile del 2008, in cui – senza che fosse prefigurato un calendario vero e proprio – veniva affermato che: «La NATO si felicità delle aspirazioni euro-atlantiche dell’Ucraina e della Georgia (…) Oggi noi abbiamo deciso che questi paesi diventeranno membri dell’Alleanza Atlantica».

Quattro mesi dopo “scoppiava” il conflitto georgiano, con l’intervento risolutivo della Federazione Russa che di fatto sottraeva il 20% del territorio alla Georgia (l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud).

Poco più di 5 anni dopo, nel 2014, gli esiti politici di “Euromaidan” sembravano accelerare quel processo avviando una sanguinosa guerra civile, cambiando di fatto l’assetto territoriale Ucraino – con l’integrazione della Crimea alla Russia e l’auto-proclamazione delle Repubbliche popolari del Donbass, rompendo il difficile equilibrio tra gli attori geopolitici in causa.

Gli Accordi di Minsk I e II non trovavano la parte occidentale minimamente interessata alla realizzazione del loro contenuto e all’avvio di un vero proprio processo di pace, congelando in un conflitto a bassa intensità una guerra civile riaccesasi con la politica del “fatto compiuto”, poi proseguita dalla Russia con l’intervento militare del febbraio scorso.

14 anni più tardi gli occhi sono puntati sul prossimo vertice di Vilnius in Lituania – uno dei 31 paesi membri della NATO – di giugno, con i paesi baltici e la Polonia a spingere maggiormente per una entrata dell’Ucraina all’interno dell’Alleanza e quindi per un conflitto diretto e frontale tra l’Alleanza Atlantica e la Russia.

Anche recentemente, durante la visita di Jens Stoltenberg a Kiev il 20 aprile, è stato proprio Zelensky a chiedere un trattamento accelerato della propria candidatura.

Bisogna ricordare che l’Ucraina dal giugno 2022 è ufficialmente candidata ad entrare nella UE.

Washington non sembra spingere per ora per l’accelerazione di una adesione formale – che incontrerebbe comunque il probabile dissenso almeno della Germania – ma più per una integrazione sostanziale a livello di standard NATO e di “inter-operabilità” che di fatto sta avvenendo, vista la fornitura di mezzi militari sempre più sofisticati, l’addestramento di truppe da parte dei paesi dell’Alleanza, il supporto di intelligence fornito a Kiev.

Probabilmente l’Occidente continuerà a sostenere Kiev “fino all’ultimo Ucraino” ma senza per ora – al netto di possibili incidenti e provocazioni – scatenare un conflitto diretto tra NATO e Russia.

É un crinale sottile che non dà alcuna assicurazione che il conflitto non possa estendersi oltre i suoi attuali confini, nelle zone adiacenti nel Mar Baltico, nell’enclave di Kaliningrad od in Moldavia.

Un segnale importante, invece, nella direzione della costruzione delle condizioni per una de-escalation del conflitto è stata la telefonata tra il leader cinese Xi Jinping e Volodymyr Zelensky il 26 aprile, il primo contatto ufficiale dal febbraio dell’anno scorso.

Il premier cinese ha ribadito il proprio impegno per la pace e la volontà di mandare un Inviato Speciale in Ucraina. Si tratterebbe di Li Hai, per 10 anni ambasciatore cinese a Mosca dal 2009 al 2019.

Secondo quanto riporta il report del canale informativo cinese in lingua inglese CCTV, ripreso da “Le Monde“: «La parte cinese invierà un rappresentante speciale del governo cinese, incaricato per l’Eurasia, in Ucraina ed in altri Paesi per degli scambi in profondità con tutte le parti verso un soluzione politica alla crisi ucraina»

Ha ribadito la propria contrarietà alla prospettiva dell’uso dell’arma nucleare, richiamando tutti alle proprie responsabilità rispetto ad uno scenario in cui non ci sarebbero vincitori, ma la comune rovina delle parti in causa.

La Cina quindi, dopo la pubblicazione dei suoi “dodici punti” per una risoluzione della crisi ucraina, conferma la propria volontà di essere mediatore nell’attuale crisi, cogliendo tra l’altro le sollecitazioni caldeggiate da Macron e, in misura minore, dalla Von der Leyen, ad entrare in contatto diretto con Zelensky.

Non è superfluo ricordare che Pechino è il primo partner commerciale di Kiev, oltre ad essere un pivot della “Nuova Via della Seta”, e che l’Ucraina è stata fin qui una fautrice della politica “una sola Cina”.

Questo impegno concreto cinese, insieme all’ostinata perseveranza del Pontefice nell’adoperarsi per la prospettiva di una “pace integrale” non solo in Ucraina – perché la Pax Atlantica non corrisponde in alcun modo alla Pax Christiana -, e la politica di “neutralità attiva” portata avanti dal maggiore attore geopolitico latino-americano (il Brasile di Lula), ribadita ad ogni tappa della sua lunga visita nelle capitali europee, sono i perni per poter mettere al centro dell’agenda politica anche in Italia la lotta contro la guerra.

Una lotta necessaria, visto il coinvolgimento del nostro paese nel conflitto e la trasversale fede della quasi totalità quadro politico istituzionale al “pensiero unico atlantista”, nonostante la maggioranza della popolazione sia contro l’invio di armi e per una soluzione diplomatica del conflitto.

Una battaglia necessaria alla viglia della possibile ripresa dei combattimenti su larga scala a metà maggio, che rischia di aggravare ulteriormente la situazione.

In questa direzione va la raccolta di adesioni all’appello: “fermare la guerra, imporre la pace”, che da una settimana è iniziata in varie città anche attraverso l’uso di banchetti e la promozione di iniziative locali di dibattito.

Una campagna di sensibilizzazione che vedrà la presenza, nelle varie piazze militanti del Primo Maggio, proprio di quel sindacalismo combattivo che ha come tratto distintivo le parole d’ordine “giù le armi, su i salari”.

Un appello che vuole essere complementare e non concorrenziale alle altre importanti e meritorie iniziative sul campo, ma che ha la medesima funzione politica: nei venti di guerra che soffiano, aprire la prospettiva della battaglia per la pace.

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2 Commenti


  • Binazzi Sergio

    l’appello sicuramente non è negativo, ma ho le mie perplessità sul fatto che abbia la stessa funzione politica del referendum, poiché con esso si sancisce a tutti gli effetti quale è la vera posizione dei cittadini. credo sia una forma di lotta più chiara e incisiva, almeno si spera in una sua riuscita.


  • Danilo Franzoni

    Non basta più sperare!
    Bisogna incazzarsi!
    Bisogna agire!
    Ad un certo punto ci si deve render conto, del limite di certe iniziative e del loro peso, dei risultati che genereranno in futuro!
    Per cambiar questo mondo, c’è bisogno di azioni generalizzate, masse di cittadini incazzati che per strada mettano paura, per cambiare l’orizzonte progettuale di chi ci governa.
    Scioperi, dimostrazioni con blocchi che ledano la possibilità di spostamento di personalità di governo e non solo.
    Organizzare una stagione che porti scompiglio nel bel mondo del jet set internazionale!
    Ecco cosa ci vuol…
    …e non solo

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