Il 2 e 3 luglio si è svolta a Pechino l’undicesima edizione del World Peace Forum. Si tratta di un consesso annuale sulla sicurezza internazionale, di natura non governativa anche se approvato dal Consiglio di Stato della Repubblica Popolare, tenuto dal 2012 all’università Tsinghua e co-organizzato dal Chinese People’s Institute of Foreign Affairs.
Più di 400 persone, tra cui ex e attuali dignitari e diplomatici di vari paesi, accademici ed esperti di think tanks internazionali, nonché dirigenti di grandi multinazionali, hanno partecipato all’evento. Il suo sottotitolo quest’anno era “stabilizing an unstable world through consensus and cooperation”, un indirizzo sviluppato attraverso 19 panels e quattro sessioni plenarie.
Alla cerimonia di apertura è intervenuto il vicepresidente cinese Han Zheng, che ha ribadito come la modernizzazione del paese segua una via “non bellicosa”. Ha poi sottolineato come la Cina abbia arricchito la costruzione di una comunità internazionale pacifica e orientata al miglioramento delle condizioni dei popoli attraverso la Global Development Initiative, la Global Security Initiative e la Global Civilization Initiative.
Han Zheng ha dunque esplicitato che questo percorso deve fondarsi su quattro pilastri. Ovvero: il rispetto dell’indipendenza e del diritto di ogni paese di esplorare la propria via per la democrazia e la piena realizzazione delle persone; la risoluzione dei conflitti attraverso il dialogo, stimolato in primo luogo dalle principali potenze mondiali; il sostegno al multilateralismo per rendere la governance globale più giusta ed equa; la promozione dell’inclusività e di approcci win-win nei rapporti tra paesi.
Questi punti sono stati largamente ripresi anche da Dilma Roussef, da poco alla guida della New Development Bank dei BRICS. A suo avviso, adeguare le politiche e le istituzioni è urgente e necessario in questa fase di incertezza macroeconomica, dettata dai problemi dell’inflazione, del debito e della guerra, che va affrontata cercando inclusività e stabilità.
L’economista brasiliana ha censurato il comportamento di quei “modelli politici che si vogliono ergere a standard universale da imporre persino con la forza”, con evidente riferimento al Blocco Euroatlantico. “Se non accetti questo sistema di valori imposto, sarai punito di conseguenza o dovrai affrontare misure come guerre, colpi di stato o sanzioni” è stato il suo magistrale riassunto.
La Roussef ha affermato che il de-coupling e il de-risking, al centro dell’agenda politica occidentale, non solo indeboliscono le relazioni economiche, ma vengono anche utilizzati come armi politiche per impedire l’ascesa di nuovi attori sulla scena internazionale. La spinta alla globalizzazione si è indebolita, ma non si può disconnettere il mondo, e il protezionismo è stato indicato come uno dei pericoli maggiori di questo periodo.
La presidente della banca dei BRICS non si è limitata però a parlare della dimensione economica dei dazi. Erigere barriere insormontabili tra nazioni viene considerato qui come erigere una nuova Cortina di Ferro, “una mentalità da Guerra Fredda piuttosto che di adesione al multilateralismo”, ascrivibile alla logica che vuole porre un freno allo sviluppo dei paesi emergenti.
L’ex presidente brasiliana è stata ancora più netta ed esplicita quando ha criticato le politiche di contenimento contro la Cina, che si tratti delle tariffe, delle sanzioni o del CHIPS and Science Act. È perciò necessaria una “riforma della governance globale per combattere l’unilateralismo”, cercando il consenso e permettendo così a tutti i paesi di beneficiare della ricchezza creata a livello mondiale.
A proposito delle relazioni tra Cina e USA, lo statunitense Daniel Russel – un tempo al Dipartimento di Stato nella sezione per gli affari dell’Asia orientale e del Pacifico e ora membro di spicco dell’Asia Society Policy Institute – ha spiegato come sia necessario trovare urgentemente dei modi per abbattere la diffidenza reciproca. È dal mantenimento di contatti tra i vertici militari dei due paesi che si deve partire per evitare il peggio.
Infatti, nessuno vuole la guerra, ma i conflitti scoppiano anche per caso. “Penso ci sia un rischio reale che ci possa essere un incidente tra Cina e Stati Uniti e che, poiché non abbiamo buoni canali di dialogo e poiché la fiducia reciproca è a un livello così basso, un incidente potrebbe rapidamente degenerare in una crisi, e una crisi potrebbe potenzialmente degenerare in un conflitto, anche se nessuno dei nostri presidenti, nessuno dei nostri governi lo vuole”.
Queste note apocalittiche non possono che preoccupare, soprattutto se dette da un veterano della diplomazia statunitense.
Il piano inclinato che ci porta alla guerra, originato dalla crisi irreversibile del capitale, va combattuto in ogni modo, per salvare l’umanità e il pianeta dalla barbarie di questo modo di produzione.
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