Lo sdoganamento e la normalizzazione di organizzazioni naziste nella vita delle società euroatlantiche ha fatto un salto di qualità con l’intervento russo del febbraio scorso in un’Ucraina già in guerra civile dal 2014.
Del resto, le cosiddette “democrazie occidentali” hanno sempre usato i nazisti, ma un certo sdegno ancora si sentiva nelle ricostruzioni di questi casi.
Con la scusa dell’attacco russo, è stata letteralmente cancellata la coscienza, fino a pochi mesi prima testimoniata da articoli e denunce, dell’infestazione dell’Ucraina da parte di bande armate di nazisti, con una forte influenza nel governo.
E tutte le svastiche e braccia tese del famoso battaglione Azov sono state “scusate”, di fronte al ruolo di combattenti anti-putiniani.
La legittimazione dei nostalgici del Terzo Reich e dei suoi collaborazionisti, come l’ucraino Bandera, non passa più solo dalle narrazioni dei media, ma ormai arriva persino dall’Accademia.
Il 29 giugno la famosa università d’eccellenza californiana Stanford ha ospitato un evento col battaglione Azov, per la seconda volta dopo l’autunno scorso.
Gli ospiti erano un sergente che ha combattuto all’Azovstal di Mariupol ed è stato prigioniero per più di sette mesi, sua moglie e quella del comandante dell’unità militare (apparso più volte con simboli nazisti). Entrambe le donne rivestono importanti ruoli nell’Association of Azovstal Defenders Families, che raccoglie fondi per chi ha combattuto nell’acciaieria.
Il titolo dell’incontro era intriso di propaganda: “The ongoing fight for freedom”. Quale sia questa “libertà”- se non quella di mettere fuorilegge partiti (ben prima del 24 febbraio 2022), di discriminare le minoranze linguistiche e di perpetrare crimini di guerra nel sanguinoso conflitto interno, come riportato dall’ONU – bisogna ancora capirlo.
All’evento ha partecipato anche il politologo Francis Fukuyama, autore del saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”. Seppur aggiornato nel corso degli anni, è ormai diventato oggetto di ironia per essere andato completamente fuori strada nell’interpretare i cambiamenti del mondo, scambiando in misura clamorosa i propri desideri da conservatore con la realtà empirica.
La teoria storiografica di Fukuyama vedeva nel crollo dell’Unione Sovietica l’incedere del progresso, che aveva il suo apice nella democrazia liberale e nella diffusione mondiale del capitalismo. Le fondamenta filosofiche del suo lavoro possono magari avere tutta la legittimità possibile… ma un’onesta critica deve riconoscere l’assoluta inadeguatezza di questa visione nel descrivere il presente.
I motori delle sue considerazioni teleologiche erano l’evoluzione scientifica e la necessità di riconoscimento di dignità e diritti. Quando si è reso conto che persistevano tuttavia alcuni elementi negativi, come la disoccupazione e l’individualismo, ha provato a indagarli, ma non ha mai unito questi nodi al grado di sviluppo delle forze produttive.
L’impianto contraddittorio delle sue riflessioni è dimostrato nel concreto proprio dal fatto che, nell’approfondirsi della crisi sistemica del modo di produzione capitalistico, il fautore della storia come realizzazione dei diritti liberali ringrazia dei nazisti per l’operato in una guerra inter-capitalista. “I fatti hanno la testa dura”, direbbe Marx ancora una volta, e a ragione.
Ma c’è di più: il pensiero di Fukuyama è uno strumento di legittimazione dell’ordine unilaterale imposto per trent’anni dagli euroatlantici. Di fronte al cambiamento delle condizioni materiali, invece di accettare una nuova governance globale condivisa con attori emergenti, Washington e Bruxelles soffiano sul fuoco dell’escalation per imporre la propria primazia.
Nel maggio di quest’anno l’accademico ha infatti pubblicato un articolo nel quale si augurava che la controffensiva di Kiev riuscisse a riconquistare il terreno perso fino al Mar Nero.
In questo modo si sarebbe messo in difficoltà l’apparato militare russo in Crimea, lasciando a Mosca invece gli oneri della ricostruzione del Donbass – come a dire, “bombardiamolo più che si può” –.
A quel punto ci potrebbero essere le condizioni per un armistizio, che però a suo avviso sarebbe garantito unicamente dall’adesione dell’Ucraina alla NATO, come unica deterrenza possibile alla ripresa della guerra. Fukuyama vorrebbe addirittura che i membri stanziassero truppe nel paese.
Per lo studioso è questo l’unico percorso possibile per porre fine al conflitto. L’idea che un’alleanza criminale che appena due anni fa si è ritirata in maniera disastrosa dall’Afghanistan, lasciando dietro di sé milioni di morti, sfollati e profughi, non sia un vettore di pace non gli passa in testa nemmeno per sbaglio.
Anzi, nella sua narrazione la pace è indissolubilmente legata al rifiuto di qualsiasi cooperazione internazionale di fronte all’emergere di un mondo multipolare. Insomma, è una visione muscolare e guerrafondaia, tipica di chi crede di poter disporre del mondo a proprio piacimento.
È la visione che ha «l’impero mondiale» oggi in crisi, mutuando una definizione di un intellettuale della Nuova Sinistra cinese, Jiang Shigong, di cui un libro del 2021 è una risposta alle teorie di Fukuyama e di Huntington. Un suo contributo molto interessante è stato pubblicato sul blog di David Ownby, docente all’università di Montréal.
Personalmente, non concordo nemmeno con alcuni passaggi di Shigong, ma come lo stesso Ownby dice “una volta che la Cina diventerà una grande potenza, le idee cinesi conteranno, indipendentemente dalla loro qualità intrinseca“.
Intanto l’Occidente risponde alla crisi, che apre profonde crepe sulla sua capacità egemonica, con la corsa sul piano inclinato della guerra, che porterà alla distruzione l’umanità intera, altro che pace.
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Bick.
Ormai non c’è più limite agli orrori che rinascono in occidente ed in giappone dove vengono esaltate di nuovo immagini del terrore nazista, che in talune di queste nazioni trovano seguito e spazio nell’opinione pubblica e nei relativi strumenti di propaganda.