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Le piazze italiane con la Resistenza palestinese. Una riflessione sulla lezione di Jenin

Venerdi e sabato a Roma e Milano ci sono state manifestazioni di aperta solidarietà con la Resistenza del popolo palestinese contro l’aggressione permanente israeliana. Una presa di posizione chiara che riconosce ai palestinesi il diritto alla sicurezza e quindi a difendersi dagli attacchi israeliani (sia dei militari che dei coloni) con ogni mezzo necessario, incluso quella militare.

Ma sui fatti di Jenin pubblichiamo una riflessione del giurista Ugo Giannangeli che ci sembra utile per la comprensione e la discussione su quanto avvenuto.

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Riflessioni sulla Lezione di Jenin

In questi giorni abbiamo letto e ascoltato più volte il solito ritornello secondo cui Israele ha diritto di difendersi. Lo hanno detto un esponente della Casa Bianca, un portavoce dell’Onu, il ministro degli esteri tedesco e tanti altri. Probabilmente si riferivano ai mitra dei giovani combattenti della brigata Jenin e delle altre brigate operanti a Jenin. Io penso, invece, che Israele debba difendersi ma da se stesso e dalla deriva socio/politica in corso nel Paese.
A livello politico troviamo il governo più a destra della storia di Israele con ministri come Gvir e Smotrich che si dichiarano fascisti, razzisti ed omofobi.
A livello militare troviamo un esercito che continua a proclamarsi “il più etico del mondo” ma che attacca civili con droni, missili e tank, giungendo ad impedire i soccorsi ai feriti e a distruggere l’ingresso dell’ospedale, peraltro senza conseguire gli obiettivi dichiarati.
A livello istituzionale troviamo una magistratura allineata all’esecutivo che, notizia di oggi, assolve un soldato che ha ucciso a freddo un disabile disarmato, soldato definito eroe da Gvir.
A livello sociale vediamo migliaia di persone che scendono in piazza per protestare contro la riforma della giustizia ma che ignorano l’eccidio di palestinesi in corso a pochi chilometri di distanza.
Allora è difficile dare torto allo storico ebreo israeliano Zev Sternhell quando afferma che in Israele cresce non solo un fascismo locale ma anche un razzismo vicino al nazismo ai suoi esordi. E l’affermazione risale a ben prima dell’insediamento dell’attuale governo.
Se sul fronte sionista abbiamo un governo fascista, un esercito feroce e codardo, un apparato istituzionale del tutto dipendente dall’esecutivo (a sua volta dipendente dal militare), una società indifferente (tranne minoritarie eccezioni sempre più isolate), sul fronte palestinese abbiamo una ritrovata unità della Resistenza. I giovani che resistono armi in pugno contro coloni ed esercito fanno parte di organizzazioni laiche ed islamiste, Fatah incluso (ma in questo caso in evidente contrasto con i vertici del partito). Questa unità gode di ampio consenso popolare, ha restituito speranza e fiducia.
La cacciata da Jenin dei rappresentanti dell’ANP la dice lunga sul sentimento popolare: l’ANP con la sua cosiddetta “collaborazione alla sicurezza” è completamente screditata ed è vista come istituzione collaborazionista.
Il cosiddetto “processo di pace” sostenuto dall’ANP altro non è che un processo di normalizzazione dell’occupazione che condanna i palestinesi a una vita da schiavi.
Il processo alternativo, rappresentato dai giovani della Resistenza e dal popolo che li sostiene, è quello della lotta di liberazione.

Questi giovani sono nati e cresciuti nel campo profughi. I loro nonni hanno vissuto la Nakba; i loro genitori l’occupazione del 1967 e la rioccupazione del 2002. Il loro destino è vivere nelle misere condizioni del campo, emigrare o combattere. Hanno scelto questa opzione. Non hanno dignitose alternative e vedono nella lotta armata l’unica possibile risorsa a loro disposizione. Di questa scelta sono responsabili tutti coloro che in 75 anni nulla hanno fatto per ostacolare il progetto sionista ed appoggiare le legittime richieste palestinesi.
È probabile che la lotta da Jenin, Nablus, Tulkarem si estenda a tutti i territori sotto occupazione. Storicamente la scintilla è sempre partita dai campi profughi ed in particolare da quello di Jenin. Ero lì nel 2002, poco dopo la distruzione di metà del campo. C’erano ancora le macerie fumanti. Ricordo ancora i toni irridenti della stampa sionista e filosionista sul numero dei cadaveri asseritamente amplificato dai palestinesi. Da allora sono passati 21 anni e Jenin combatte ancora.

Cosa è successo in questi anni?

Una continua espansione delle colonie.
Continue stragi di palestinesi con punte altissime di uccisi nel 2008/ 2009, nel 2012, nel 2014, nel 2018/ 2019 ( Grande marcia del ritorno), nel 2021.
Una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2016 che ordina il ritiro  dei coloni senza alcun esito.
Una legge del 2018 della Knesset che afferma che il diritto all’autodeterminazione spetta solo alla popolazione ebraica e che la colonizzazione è un valore da promuovere e incrementare (quando per il diritto internazionale è un crimine di guerra).
Nei territori occupati è in corso il passaggio dall’amministrazione militare a quella civile a dimostrazione della definitività della annessione dei territori.
Insomma, la Nakba prosegue. Il tutto nel silenzio complice della cosiddetta comunità internazionale.
L’oscenità dei media in questi giorni di aggressione a Jenin ha raggiunto punte inimmaginabili, nella loro rappresentazione di quella che è una aggressione militare violenta contro civili come una azione antiterrorismo. La rituale accusa di antisemitismo rivolta ai pochi che diffondono una narrazione diversa si rivela sempre più un’arma ridicola e spuntata a fronte dell’evidenza.
La vicenda Ucraina da un lato rappresenta un utile strumento di distrazione dalla Palestina, dall’altro fornisce palesi esempi di doppio standard: i combattenti ucraini non sono terroristi ma partigiani, tanto che li riempiamo di armi; è invocato il rispetto del diritto internazionale; la Corte penale internazionale è intervenuta con un pool investigativo pochi giorni dopo l’ingresso delle truppe russe ed è stato emesso un ordine di arresto contro Putin, ordine scambiato da un commentatore come una condanna già intervenuta. Sono scattate subito sanzioni contro la Russia e praticati boicottaggi contro personalità e artisti russi che hanno superato la soglia del ridicolo.
Qualcosa però sembra muoversi a livello internazionale e non va nella direzione auspicata dall’Occidente e dagli USA in particolare. La Siria, sopravvissuta al tentativo di distruzione, è tornata nella Lega araba. Iran e Arabia Saudita si sono riconciliati grazie alla mediazione cinese. L’attacco a Jenin è stato condannato dall’Arabia Saudita, condanna non intervenuta in precedenza.
Gli USA non sembrano amare molto il nuovo governo israeliano. Sembra, insomma, che si riduca il campo di coloro che sono disponibili a difendere l’indifendibile.
I giovani partigiani di Jenin stanno combattendo per la liberazione della Palestina ma, indirettamente, anche per la riaffermazione di diritti fondamentali quali l’autodeterminazione dei popoli e il diritto alla resistenza contro l’occupazione e l’ aggressione.
Quanto mai attuali risuonano le parole di Marwan Barghouti: “L’ultimo giorno di occupazione sarà il primo giorno di pace”; di Nelson Mandela: “La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”; di Desmond Tutu:” Se siete neutrali in situazioni di ingiustizia avete scelto la parte dell’oppressore”.

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1 Commento


  • Pasquale

    Da cinquant’anni circa il popolo palestinese lotta per la propria libertà e autodeterminazione. Israele non ha mai cercato la pace, non ha mai rispettato i confini e i trattati. I coloni, sostenuti dalle politiche sioniste di un governo fascista e da un esercito violento e criminale, occupano sempre più terre. Prendere posizione contro il sionismo non vuol dire affatto essere antisemiti, ma al contrario, stare con i perseguitati. Libertà per i fratelli palestinesi.

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