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La storia sovietica e i popoli “vittime delle deportazioni staliniane”

Nel manuale di storia per le classi 10° e 11° delle scuole russe, introdotto lo scorso 1 settembre, si dovrà riscrivere il capitolo sui popoli dell’URSS “vittime delle deportazioni staliniane”.

Lo ha chiesto il presidente del parlamento ceceno Magomed Daudov su incarico di Ramzan Kadyrov e la richiesta è stata prontamente accolta dall’ex ministro della cultura (nonché coautore del nuovo manuale) Vladimir Medinskij e appoggiata dal ministro per l’istruzione Sergej Kravtsov.

Va da sé che, per i “democratici” dei media padronali, se Medinskij è colpevole di qualcosa, è di aver «costruito la rilettura revisionista delle vicende russe da Ivan il Terribile a Stalin».

Per quanto ci riguarda, Medinskij è l’ex ministro che, negli anni recenti, ha disseminato la Russia di targhe e monumenti a generali bianchi e collaborazionisti filo-nazisti, esortando alla “pacificazione” tra bianchi e rossi e, nel nome della “unità della nazione russa”, chiama i rossi a pentirsi dei loro “peccati”.

Daudov ha scritto che il nuovo manuale «ha sollevato un’ondata di indignazione tra gli esponenti dei popoli dell’URSS vittime delle repressioni», che invece avevano contribuito alla vittoria nella guerra patriottica; ha scritto che, nel periodo della lotta al terrorismo internazionale in Caucaso, il primo presidente ceceno – Akhmat Kadyrov, padre di Ramzan – e i suoi avevano difeso l’integrità dello Stato, così come oggi difendono gli interessi del paese nelle operazioni in Ucraina.

Il Congresso russo dei popoli del Caucaso esige addirittura di vietare il manuale. Sotto accusa, il 31° paragrafo, in cui i popoli repressi vengono elencati «insieme a banderisti, vlasoviani e altri» (banderisti di OUN-UNA ucraini e vlasoviani del cosiddetto “Esercito di liberazione russo”: tutti agli ordini dei nazisti) e si contesta la formulazione che «Sulla base di fatti di collaborazione con gli occupanti da parte di karachaevi, kalmyki, ceceni, ingusci, balkary, tatari di Crimea, nel 1943-1944 il Comitato statale di difesa decise una loro punizione collettiva: il trasferimento forzato nelle regioni orientali del paese. Come risultato, subirono repressioni non solo banditi e complici, ma anche molte persone innocenti».

Ora, con il rispetto dovuto alle formazioni che a suo tempo hanno collaborato alle operazioni anti-terrorismo in Cecenia e hanno ora portato un decisivo contributo in alcuni momenti delle operazioni di guerra in Ucraina, le non nuove esternazioni di Ramzan Kadyrov a proposito delle “repressioni staliniste” necessitano di qualche precisazione.

Ai primi posti tra i “popoli repressi” in URSS, c’è stato senza dubbio quello ceceno e, per limitarsi al solo periodo sovietico, la questione risale anche a molto tempo prima degli anni della guerra. Si può dire che sin dai primi giorni del potere sovietico e fino alla sua liquidazione, la RSS autonoma ceceno-inguscia (sciolta nel 1924) è sempre stata un focolaio di banditismo, che periodicamente sfociava in sommosse di massa, regolarmente messe a tacere da interventi dell’Esercito Rosso.

Nell’agosto 1920, ad esempio, il Commissario militare per la Cecenia constatava che «Nel popolo ceceno non si notano sintomi di autocoscienza di classe». Il nuovo potere si dette da fare per correggere le «conseguenze della politica coloniale zarista», sloggiando i cosacchi del Terek e trasferendo le loro terre a ceceni e ingusci, che ne furono contenti, soprattutto perché nel processo di trasferimento, ebbero l’opportunità di derubare bestiame dai villaggi vicini, soprattutto georgiani.

Già durante la guerra civile, le sortite banditesche dei ceceni avevano interessato anche le zone temporaneamente occupate dalle forze dei bianchi e se, terminata quella guerra, il fenomeno delle razzie e del banditismo era andato via via sfumando, la cosa non riguardava la Cecenia, in cui continuavano a scorrazzare bande più o meno numerose dedite alle rapine nei villaggi di Inguscetija, Kabardino-Balkarija, Ossetija.

Nel 1923 il commissario militare del 9° Corpo, denunciava la natura «puramente criminale, annidata nella massa della popolazione dei monti, che vive secondo condizioni di vita e tradizioni tutte particolari, educata nel fanatismo religioso e nell’ ex regime colonizzatore. Innata animosità, faide di sangue, odio nazionale, anguste condizioni territoriali, abbondanza di armi, condizioni geografiche: tutto questo influenza lo sviluppo del banditismo».

I limiti di un articolo non permettono di ricostruire tutte le vicende antecedenti all’invasione nazista dell’URSS, con le misure e gli interventi di reparti dell’esercito e delle forze di sicurezza, decisi dal potere sovietico per venire a capo del banditismo nelle zone montuose del Caucaso, attivo spesso in combutta con alti esponenti religiosi e politici nazionalisti della ex Repubblica autonoma.

Interventi ripetutisi nel 1925, quando nelle aree nord-caucasiche si tentò di dar vita a una “Repubblica montana indipendente” sotto protettorato turco, con Cecenia, Inguscetija, Dagestan inondate di armi e la parte reazionaria del clero musulmano che fomentava sentimenti anti-russi.

E soprattutto nel 1929 allorché, secondo il rapporto del comando del distretto militare caucasico, «in Cecenia, come anche in Karachaj, siamo di fronte non a scoppi separati di banditismo controrivoluzionario, ma a una vera e propria insurrezione in interi distretti, a cui prende parte quasi tutta la popolazione».

Rivolte ripetutesi nel 1930, 1932 e anche nel 1940. E, allo scoppio della guerra, i ribelli anti-sovietici, forti anche di gruppi di disertori da altre regioni caucasiche, intensificarono le loro attività con azioni terroristiche ai danni di agenti del NKVD, procuratori, direttori di aziende sovietiche, miliziani, giudici, deputati del Soviet repubblicano, di villaggio, razzie contro kolkhoz, che continuarono nel 1942 e 1943, fomentate dall’occupazione nazista.

A gennaio 1942 si tenne in segreto a Ordžonikidze (oggi: Vladikavkaz) l’assemblea fondativa del “Partito esclusivo dei fratelli caucasici” (OPKB) che aveva tra gli obiettivi l’unione in un’unica formazione di tutte le organizzazioni anti-sovietiche, lo scompiglio delle retrovie, la collaborazione con la Germania e la formazione di una Repubblica federativa del Caucaso sotto l’impero germanico, per colpire definitivamente lo spirito bolscevico nel Caucaso, espellendo dalla regione russi e ebrei.

Quali azioni dirette c’era l’organizzazione di diserzioni in massa e di atti terroristici, la distruzione di kolkhoz e sovkhoz, sabotaggi nelle fabbriche, azioni diversive generalizzate e altro, a favore della Germania, forti degli armamenti e dei plotoni di sabotatori tedeschi.

Sebbene l’obiettivo dichiarato del OPKB fosse l’unione delle forze antisovietiche di tutti i popoli caucasici, i ceceni costituivano la parte di gran lunga prevalente. Man mano che il fronte si avvicinava alle frontiere cecene, si intensificarono i lanci di reparti di guastatori tedeschi, infoltiti da disertori caucasici dell’Esercito Rosso, passati per i centri addestramento tedeschi in Crimea o Polonia, che presero ad agire contro le retrovie sovietiche e le formazioni partigiane.

In un memorandum compilato dal vice commissario alla sicurezza di stato Kobulov e indirizzato nel novembre 1943 a Lavrentij Berija, si diceva che la popolazione di Cecenia-Inguscetija contava oltre 705.000 persone, di cui 450.000 ceceni e ingusci (in base al censimento del 1939: 668.400 ceceni e circa 84.000 ingusci) e c’erano 38 sette, con ventimila adepti che nascondevano banditi e paracadutisti tedeschi.

All’avvicinamento del fronte, nel settembre 1942, un centinaio di esponenti a vari livelli del VKP(b) se l’erano svignata; «l’atteggiamento di ceceni e ingusci verso il potere sovietico si esprime apertamente in diserzione e renitenza alla chiamata nell’Esercito Rosso».

Il tutto, con l’inerzia dei vertici locali del NKVD (alcuni dei quali erano imparentati con vari capibanda e, insieme a essi, in contatto con la GeStaPo) nei confronti del crescente banditismo, denunciata più volte nel corso del 1941 dal Comitato regionale del VKP(b).

In definitiva, per venire a capo del banditismo e dell’aperto collaborazionismo, il “lavoro di massa condotto dal partito tra la popolazione” (auspicato nel 1943 dal futuro Procuratore generale sovietico a Norimberga, R. Rudenko), risultava inefficace e insufficiente, specialmente nei piccolissimi villaggi sperduti tra le montagne.

Ma, soprattutto, tale metodo era giudicato un segno di debolezza del potere sovietico, da parte di una popolazione che , ad esempio, vedeva nella punizione degli assassini di un esponente sovietico non estesa a tutto il villaggio che li aveva coperti, una manifestazione di “umanità”, inconcepibile per quelle genti, educate alla vendetta di sangue, la rinuncia alla quale disonorava l’intero clan.

Se un bandito si nascondeva, l’intera popolazione del suo “aul” conosceva perfettamente il suo rifugio, e l’unico sistema di scovarlo, era quello di chiamare a rispondere tutto il villaggio: secondo l’uso locale, responsabile del delitto non è infatti il singolo bandito, ma tutto il villaggio.

La decisione sulla deportazione scaturiva da queste considerazioni. Che, peraltro, erano chiarissime agli stessi deportati, come si evince da questa ammissione: «Il potere sovietico non ci perdonerà. Non prestiamo servizio militare, non lavoriamo nei kolkhoz, non aiutiamo il fronte, non paghiamo le tasse; tutt’intorno banditismo. I karachaj li hanno trasferiti per questo, trasferiranno anche noi».

Per non destare preoccupazioni nella popolazione e non insospettire i banditi, l’operazione “Lenticchia” venne presentata come un nuovo censimento.

Il 17 febbraio 1944 Lavrentij Berija informava il presidente del GKO (Comitato statale di difesa) Iosif Stalin che i preparativi per il trasferimento di 459.486 ceceni e ingusci erano in via di ultimazione e si prevedeva di radunare nei primi tre giorni tutta la popolazione pedemontana (circa 300.000 persone) e nei restanti cinque giorni i rimanenti 150.000 individui sparsi tra le montagne.

Oltre ai reparti della sicurezza, avrebbero partecipato all’operazione alcune migliaia di attivisti da Dagestan e Ossetija settentrionale, vittime delle scorribande cecene, e anche russi risiedenti in quelle aree, insieme a rappresentanti sovietici ceceni e ingusci.

Il 23 febbraio cominciava il trasferimento. A tutta la popolazione, casa per casa, veniva spiegato che «Nel periodo dell’attacco tedesco-fascista al Caucaso settentrionale, ceceni e ingusci si sono comportati da antisovietici, nelle retrovie dell’Esercito Rosso, avendo dato vita a bande, ucciso soldati e cittadini sovietici, dando rifugio a guastatori tedeschi».

Per il viaggio, veniva consentito di prendere con sé alimenti, piccoli oggetti domestici e attrezzi agricoli per un peso di 100 kg a persona, ma non più di mezza tonnellata a famiglia. Nè soldi, né altri valori venivano confiscati. Per attrezzature agricole, foraggio e bestiame veniva rilasciata una ricevuta che consentiva di ripristinare l’economia domestica nei nuovi luoghi di destinazione. Le persone sospette venivano arrestate.

Si segnalava che tra le bande ancora a piede libero circolava la convinzione che il ritiro tedesco fosse temporaneo, in attesa di una ‘controffensiva primaverile’ e dunque bisognava resistere e «preparare il popolo all’insurrezione già al primo giorno del trasferimento».

Ma l’azione risoluta del potere sovietico aveva avuto effetto su una popolazione educata a “rispettare la forza”. Il 1 marzo 1944 erano già stati completati 177 convogli ferroviari con 91.250 ingusci e 387.229 ceceni, e 154 di essi erano già partiti verso Asia centrale e Kazakhstan. Durante il tragitto, morirono 1.272 persone e altre 50 rimasero uccise in tentativi di fuga.

Parlando dunque di contributo ceceno alla Grande guerra patriottica, impossibile non ricordare che, accanto a indubbi esempi di lealtà al potere sovietico e dedizione nella guerra anti-nazista, a marzo 1942 la diserzione tra ceceni e ingusci era calcolata a oltre il 90%; nel 1943, su circa 3.000 volontari ceceni, 1870 disertarono.

Quei ceceni, ingusci e balkari che combatterono onestamente nelle file dell’Esercito Rosso (si calcola che nel 1941, dei difensori della fortezza di Brest, almeno 1/3 fossero ceceni), o servirono da civili l’amministrazione sovietica, non furono soggetti ad alcun trasferimento forzato.

Dunque, a pensarci bene, non è poi così semplice ristampare quasi 800.000 libri di testo.

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