Il governo cinese ha scelto di non condannare duramente gli attacchi terroristici di Hamas e della Jihad islamica palestinese all’interno di Israele che il 7 ottobre scorso hanno ucciso oltre 1.200 persone e ne hanno ferite più di 3.000, mentre circa 150 ostaggi sono stati portati a Gaza.
Mao Ning ha dichiarato: «Siamo profondamente addolorati per le vittime civili e ci opponiamo e condanniamo gli atti che colpiscono i civili».
La portavoce del ministero degli esteri ha aggiunto che «per porre fine al ciclo di conflitto tra Palestina e Israele, è essenziale riavviare i colloqui di pace, attuare la soluzione dei due stati e risolvere la questione palestinese in modo completo e adeguato attraverso mezzi politici in tempi brevi, in modo da prendersi cura dei legittimi diritti di ciascuna parte».
Rispondendo a una domanda sulla natura dell’attacco, Mao si è rifiutata di parlare di “terrorismo”. Israele non ha gradito affatto la posizione di Pechino.
La condanna della Cina è stata insomma molto diversa dal pieno e incondizionato sostegno a Israele espresso dai leader occidentali, a partire da Joe Biden, che con il suo discorso del 10 ottobre scorso ha di fatto autorizzato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a lanciare quella che si annuncia come una offensiva militare senza precedenti contro la striscia di Gaza, tra le aree a più alta densità abitativa del mondo, dove Hamas governa su una popolazione di 2 milioni di persone impoverita e ingabbiata dalla recinzione che – costruita nel 1994 (l’anno dopo la firma degli accordi di Oslo da parte di Yasser Arafat e Yitzhak Rabin) – li separa dal mondo esterno.
Pechino, al contrario, in questa drammatica fase in cui la rappresaglia è attesa come “inevitabile” e “giustificata”, si oppone – ha riferito Mao – «a iniziative che aumentano il conflitto e destabilizzano la regione e speriamo che i combattimenti finiscano e che la pace ritorni presto».
A spiegare il punto di vista della leadership cinese è utile quanto osservato da Alex Lo su South China Monrning Post:
Legittimando la violenza da una parte e delegittimando e demonizzando la violenza dall’altra – qualunque sia la parte che si sostiene – si rende impossibile per un conflitto già intrattabile trovare una soluzione o un compromesso. Con il loro sostegno incondizionato e acritico a Israele, l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare hanno sostanzialmente reso impossibile tale pace.
Si tratta di un punto di vista, in quanto tale, opinabile. Al contrario, si può ritenere che sia giusto demonizzare le atrocità compiute il 7 ottobre scorso dai miliziani palestinesi e legittimare la violenza attraverso la quale, dal 1967, l’occupazione militare israeliana nega al popolo palestinese il suo diritto all’autodeterminazione, ma la considerazione di Lo ci porta dritto al punto politico della questione: la Cina, con la sua “equidistanza” mira a ritagliarsi uno spazio importante in un possibile negoziato futuro.
Nell’area denominata “grande Medio Oriente” l’ha già fatto mediando tra le fazioni afghane senza condannare le atrocità dei talebani, e facendo stringere la mano a iraniani e sauditi senza prendere posizione sulla guerra per procura combattuta dai centri dell’islam sciita e sunnita nello Yemen. Cinismo? No, diplomazia.
Gli analisti cinesi concordano sull’ipotesi che tra gli obiettivi principali che hanno indotto Hamas e la Jihad islamica a lanciare l’attacco terroristico più sanguinoso della storia di Israele ci sia quello di far deragliare la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele – sostenuta da Washington -, che contribuirebbe alla rimozione della questione palestinese nel mondo arabo-islamico.
Il massacro palestinese e l’attesa vendetta israeliana avranno però probabilmente l’effetto di infiammare le piazze da Rabat a Islamabad, in tutta l’area denominata “grande Medio Oriente” nella quale gli investimenti e i commerci cinesi negli ultimi anni sono enormemente aumentati e che Pechino vuole per questo contribuire a “stabilizzare”, dopo la riammissione, nel maggio scorso, nella Lega araba della Siria (dalla quale miliziani palestinesi nelle ultime ore hanno lanciato razzi contro Israele), e la stretta di mano a Pechino tra sauditi e iraniani del marzo scorso.
Parallelamente al relativo disimpegno Usa dall’area, la Cina ha rafforzato le relazioni bilaterali con potenze regionali con strategie divergenti:
Israele (con cui il commercio bilaterale è in continuo aumento e che rappresenta una importante fonte d’importazione di elettronica, chimica e macchinari);
l’Arabia Saudita (65 miliardi di dollari di import di greggio nel 2022);
l’Egitto, dove le compagnie cinesi hanno investito nelle nuove città e nei progetti infrastrutturali voluti dal presidente Abdel Fattah al-Sisi;
l’Iran, appena entrata nella Shanghai Cooperation Organization, che esporta in Cina circa il 60 per cento del suo petrolio.
Arabia Saudita, Egitto e Iran il 24 agosto scorso sono stati ammessi nei Brics, uno dei forum sui quali la Cina scommette per il superamento dell’ordine liberale internazionale.
Stiamo parlando di un’area ancora, da un punto di vista militare, controllata dagli Stati Uniti (attraverso il CENTCOM), che mantengono anche una grande influenza politica su paesi che, semplicemente, puntano ad accrescere le loro prospettive di sviluppo facendo leva sulla Cina oltre che sugli Stati Uniti.
Nella sua audizione al congresso del 23 marzo scorso, il comandante del CENTCOM, generale Michael E. Kurilla, ha descritto la Cina come una «sfida strategica crescente per i partenariati, l’accesso, la presenza militare e la sicurezza» degli Stati Uniti nel Golfo.
E al vertice del G20 di New Delhi (9-10 settembre scorso) Washington ha svelato il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa che, passando per Israele, dovrebbe competere nella regione con la nuova via della Seta cinese.
È in questo palcoscenico globale che va inquadrato questo ennesimo atto, destinato a passare alla storia come uno dei più drammatici, della tragedia Israele-palestinese.
Contrariamente ai paesi (a cominciare da Israele) e alle potenze che hanno pensato di poterla rimuovere attraverso la cosiddetta “pax economica”, la Cina continua a ricordare – e l’ha fatto anche dopo il 7 ottobre, già passato alla storia come l’11 settembre d’Israele – che la questione palestinese rappresenta il fulcro della questione del Medio Oriente: senza risolvere la questione palestinese, non ci sarà pace in Medio Oriente, una regione che la Cina ha interesse a “stabilizzare”, perché negli ultimi anni è diventata sempre più importante per i suoi commerci.
Il sostegno di Pechino al diritto dei palestinesi ad avere uno stato indipendente è legato anche a vecchi rapporti tra la Cina maoista e i movimenti di liberazione nazionale, ma questa forse è un’altra storia.
Ricevendo a Pechino il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, il 14 giugno 2023 Xi Jinping ha avanzato una proposta in tre punti per la soluzione della questione palestinese ed espresso il sostegno della Cina affinché la Palestina (che la Cina ha riconosciuto come stato indipendente nel 1988) diventi un membro a pieno titolo delle Nazioni Unite.
Xi ha aggiunto che «la Cina è pronta a svolgere un ruolo positivo nell’aiutare la Palestina a raggiungere la riconciliazione interna e a promuovere colloqui di pace».
- In primo luogo, la soluzione fondamentale risiede nella creazione di uno Stato palestinese indipendente che goda di piena sovranità sulla base dei confini del 1967 e con Gerusalemme est come capitale.
- In secondo luogo, i bisogni economici e di sostentamento della Palestina devono essere soddisfatti, e la comunità internazionale deve aumentare l’assistenza allo sviluppo e gli aiuti umanitari alla Palestina.
- In terzo luogo, è importante mantenere la giusta direzione dei colloqui di pace. Lo status quo storico dei luoghi santi di Gerusalemme deve essere rispettato e si dovrebbero evitare dichiarazioni e azioni eccessive e provocatorie. Deve essere convocata una conferenza di pace internazionale su larga scala, più autorevole e più influente in modo da creare le condizioni per la ripresa dei colloqui di pace e contribuire con sforzi tangibili per aiutare la Palestina e Israele a vivere in pace.
La questione palestinese potrebbe rappresentare un test importante per la diplomazia cinese, dopo i successi della mediazione tra Tehran e Riyadh e il primo vertice tra la Cina e il Consiglio di cooperazione del Golfo del dicembre 2022.
L’influenza politica di Pechino in Medio Oriente è destinata ad aumentare di pari passo con la sua penetrazione economico-commerciale nell’area. Tuttavia l’esperienza sul campo dei cinesi relativamente a questa regione tradizionalmente turbolenta è limitata.
E ciò si riflette anche nella rigida riproposizione di formule – come quella “due stati per due popoli”, con il ritorno ai confini precedenti la Guerra dei sei giorni del 1967 – che sembravano ormai inapplicabili, soprattutto perché nel corso degli ultimi decenni in Cisgiordania e a Gerusalemme est si sono insediati oltre 700 mila coloni israeliani.
Ma la novità della proposta cinese sta nell’aver indicato la necessità di un negoziato più allargato che in passato e di aiuti per sviluppare la Palestina.
E il sangue versato dagli israeliani massacrati il 7 ottobre 2023 e le macerie di Gaza potrebbero riportare nell’agenda internazionale la volontà di separare i due popoli in maniera soddisfacente per una nuova leadership palestinese più accomodante, così come la ricerca di un nuovo mediatore dopo decenni di fallimenti di quello – gli Stati Uniti – che l’intellettuale palestinese Naseer Aruri ha definito Un broker disonesto.
* dal suo blog Rassegna Cina
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