Mentre a San Francisco i leader delle due maggiori economie mondiali, Usa e Cina, iniziano un riavvicinamento sui temi anche del commercio estero e dell’uso sconsiderato delle sanzioni da parte di Washington, a Cuba gli stessi argomenti hanno visto confrontarsi 1000 delegati in rappresentanza di 140 paesi, in occasione del Congresso internazionale dell’Anec, l’associazione degli economisti cubani.
Un appuntamento che si celebra per la prima volta dopo la morte di Fidel Castro, che fortemente aveva voluto questi incontri tra gli esperti di pianificazione e gestione di tutto il mondo per sostenere l’originalità del progetto cubano, che ha superato, anche se con sofferenza, la guerra economica che gli hanno mosso gli USA per 60 anni.
Dall’Italia hanno partecipato Luciano Vasapollo, decano di economia all’Università La Sapienza e membro della segreteria della Rete dei Comunisti, e Rita Martufi coordinatrice del Centro Studi CESTES.
Al Congresso, ci ha detto Vasapollo, “abbiamo incontrato, in riunioni bilaterali, molte delegazioni straniere, in particolare del Sud America: oltre che i rappresentanti di Cuba abbiamo visto le delegazioni del Venezuela dell’Uruguay, del Messico e della Colombia Abbiamo avuto incontri anche con i rappresentanti di alcuni paesi dell’Africa e dell’Asia”.
Un incontro estremamente importante, al Comitato Centrale del Partito Comunista Cubano, Vasapollo e Martufi lo hanno avuto con il responsabile delle relazioni internazionali del PCC, Emilio Lozada García.
Ai diversi livelli Vasapollo ha illustrato i problemi legati alla “globalizzazione” dei paesi del “Terzo Mondo”, del tasso di profitto decrescente dei paesi OCSE del “Primo Mondo”, allo sviluppo industriale di paesi del sud ed est dell’Asia, come la Cina, e alla guerra economica mossa da parte dei giganteschi monopoli imperialisti. Esaminando “la nuova architettura monetaria internazionale e quindi come ci si può opporre o come si possono gestire queste nuove fasi che se non interveniamo in maniera rivoluzionaria in maniera alternativa come economisti marxisti verrebbero utilizzate soltanto ai fini speculativi capitale internazionale”.
Un quadro complicato dai rischi di una nuova crisi del petrolio come quella degli anni ‘70, quando i paesi coloniali e semicoloniali soffrivano della “fame industriale”, così chiamata dagli anti-imperialisti di quel tempo, quando il lavoro a basso costo veniva sfruttato dalle imprese giganti imperialistiche agrarie e minerarie, sia nazionali che internazionali.
Poi il declino del tasso di profitto nel blocco OCSE degli Stati imperialistici li ha costretti a trasferire ed aprire grandi blocchi di super-sfruttamento industriale nei paesi semi-industriali coloniali ora indipendenti, come la Malaysia, l’India, l’Indocina, le Filippine, la Corea del Sud ed infine anche nella non-coloniale Cina. Tale riflusso internazionale del capitale imperialista è scoppiato dopo che le controrivoluzioni capitaliste hanno distrutto la natura e le strutture socialiste prima della Jugoslavia e poi, tragicamente e super-catastroficamente, del prodotto della prima rivoluzione socialista – l’URSS.
Secondo Vasapollo, il modello occidentale però ha ben presto mostrato una intrinseca fragilità basato come è sullo sfruttamento della natura e delle persone. Il decano della Sapienza ha criticato la diffusione delle filiere produttive a carattere internazionale, che ripropongono in forma diversa il modello fordista-taylorista, incentivando i settori più soggetti alla competizione globale e a maggiore contenuto di valore.
Le imprese tendono ad assumere una struttura integrata sia nel campo della produzione che in quello dei capitali: la cosiddetta “globalizzazione finanziaria” incide così sulla vecchia struttura organica dell’impresa, aprendo all’esternalizzazione di varie funzioni e fasi dell’intero processo lavorativo, delegate a soggetti giuridicamente autonomi, ma economicamente dipendenti e controllati dall’impresa.
A una stessa logica appartiene, ha osservato, l’organizzazione della produzione in distretti industriali a carattere internazionale, ossia raggruppamenti di zona nazionali o transnazionali di aziende integrate tra loro in filiere produttive.
“Le logiche imperialistiche proprie della situazione attuale – ha sottolineato Vasapollo – non riguardano tuttavia solamente i processi di delocalizzazione, esternalizzazione e riorganizzazione produttiva verso le colonie interne e le aree a minore sfruttamento capitalistico. Come ultimo tentativo di sopravvivere alla crisi sistemica, le imprese sfruttano l’enorme massa di forza lavoro immigrata proveniente da quelle una volta definibili come periferie dell’Impero”. La loro occupazione all’interno dei poli imperialistici, al centro delle filiere produttive consente di creare quella disuguaglianza fra classi e all’interno della stessa classe che è il presupposto dell’accumulazione capitalistica”.
La riorganizzazione delle forze produttive si espleta in ultima battuta nell’impiego di lavoratori immigrati a più basso salario, finalizzato all’abbassamento del salario dei lavoratori autoctoni, che consente un aumento del saggio di sfruttamento e del saggio di profitto. Al tempo stesso, i capitali transnazionali richiedono in misura via via crescente un numero sempre più elevato di forza lavoro immigrata e al tempo stesso specializzata.
Il caso della Germania, Paese egemone all’interno dell’attuale polo imperialista europeo, è esemplificativo di quanto fin qui sostenuto: in tempi recenti abbiamo assistito a come le frontiere del Paese si siano aperte per accogliere i rifugiati siriani, altamente specializzati e spesso in possesso di una laurea o di un titolo di istruzione superiore, chiudendosi quando si trattava di accogliere immigrati provenienti dal Nord Africa e dall’Africa Sub-Sahariana, poco istruiti e specializzati.
Oggi i capitali transnazionali non necessitano di forza lavoro a bassa specializzazione, in quanto i salari sono già spinti verso il basso, ma di forza lavoro specializzata e a basso salario, da cui estrarre valore, sfruttando la debolezza della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Queste politiche dell’immigrazione, utilizzate per rilanciare l’accumulazione, hanno inoltre il doppio vantaggio di acuire i conflitti all’interno della classe, generando una demonizzazione dell’immigrato che indebolisce la lotta di classe e le condizioni soggettive necessari alla rivoluzione sociale.
In questo contesto, nei diversi interventi al congresso dell’Anec, Vasapollo ha descritto la pericolosità della situazione internazionale con la guerra della NATO contro la Russia e il genocidio in atto da parte di Israele (supportato dall’Occidente) ai danni dei palestinesi. Ma ha anche sottolineato la grande capacità di tenuta della visione del socialismo a livello strategico, con la relazione relazioni tattiche e di appoggio pieno al multicentrismo e al pluripolarismo.
All’apertura del Congresso ha presenziato anche il presidente di Cuba Miguel Diaz-Canel. Dopo il tredicesimo Congresso tenuto a Panama nel 2015 e adesso l’appuntamento è ripreso con l’auspicio di tutti e la presenza di economisti anche di altre correnti e di altre posizioni compresa la scuola keynesiana.
Vasapollo ha parlato anche nel teatro del ministero del commercio estero alla presenza di oltre 350 delegati affrontando il tema delle relazioni internazionali e dell’unipolarismo contro il multipolarismo nella costruzione e nelle fasi della pianificazione. Il Congresso si svolge infatti sia nel Palazzo delle Convenzioni che a livello decentrato nei vari teatri dell’Avana proprio per permettere che tutti gli economisti e tutti gli i lavoratori addetti anche alle strutture economiche possano sentire i vari interventi.
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