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Conflitto arabo-israeliano e quello ucraino: il “secondo fronte”

Dopo la breve “pausa umanitaria” la quarta guerra arabo-israeliana è continuata con maggiore intensità, con l’IDF che ha esteso le operazioni terresti a tutta la Striscia di Gaza.

Gli obiettivi dell’attuale compagine governativa che guida l’escalation militare sono chiari e costituiscono l’ennesima tappa del più che centenario progetto sionista: espellere i Palestinesi dal proprio territorio, annettendolo con presidi militari ed insediamenti coloniali a Gaza e nella West Bank, e costringere gli Stati vicini ad ospitare i profughi senza mai dargli la possibilità di tornare.

La politica israeliana, al di là dei ripiegamenti tattici dovuti alla capacità della Resistenza palestinese ed alle pressioni internazionali, ha storicamente agito affinché venissero distrutte sul nascere le possibilità di dare vita ad uno Stato Palestinese strictu senso, e non una entità funzionale solo all’occupazione sionista a beneficio di una piccolissima frazione di Palestinesi.

Allo stesso tempo ha sempre voluto annichilire al suo interno e all’esterno la possibilità che la dirigenza palestinese avesse un retroterra strategico in cui impiantarsi: l’Operazione Settembre in Giordania a fine Anni Sessanta, l’espulsione dell’OLP dal Libano ad inizio Anni Ottanta, il supporto all’invasione dell’Iraq nel 2003 e al tentativo destabilizzare la Siria contro cui conduce abitualmente raid aerei, ne sono alcuni esempi.

Senza citare le numerose “uccisioni mirate” avvenute in mezzo mondo – anche in Occidente ed in Italia – spesso in combutta con una parte dell’intelligence dei paesi che ospitavano militanti palestinesi.

Potremmo dire che l’attuale operazione condotta a Gaza e nella West Bank cerca di far coincidere sul piano delle conquiste tattiche la sua strategia complessiva, anche per “salvare la faccia” ad un establishment politico-militare tanto attaccato al concetto di “sicurezza” quanto incapace di realizzarla.

Le élite occidentali assecondano sostanzialmente questo piano, a differenza del mondo multipolare. Le opinioni pubbliche arabo-mussulmane gli sono ostili e la resistenza regionale sta impattando sempre più i sionisti ed i loro collaboratori – USA in primis – a cominciare dalla Resistenza Libanese e da quella Yemenita, senza trascurare i colpi inferti in Iraq ed in Siria alle truppe statunitensi.

Sul campo, Israele, non ha conosciuto alcuna vittoria significativa: nei combattimenti sta pagando un prezzo sempre più importante a livello di uomini e mezzi, ed è dovuta ricorrere allo scambio di prigionieri per liberare gli ostaggi.

Hamas non verrà distrutta, come la Resistenza, gli unici ostaggi che Israele vedrà vivi (specie i militari) saranno quelli ricevuti in cambio del rilascio dei prigionieri palestinesi, pagando un prezzo politico altissimo.

Certamente può fare – e non ha nessuna remora a farlo – ciò che gli antichi romani hanno fatto con Cartagine.

E Palestina delenda est sembra il mantra della sua leadership.

Può solo “radere al suolo” Gaza proseguendo ed intensificando la dottrina militare che ha messo a punto nel 2006 nella “Dottrina Dahiya” che ha reso “profughi nella striscia” più di 4/5 dei palestinesi, ucciso più di 15 mila persone – di cui il 70% donne e bambini – , distrutto la maggioranza delle strutture civili che permettono di continuare a vivere in un territorio densamente popolato (ospedali, scuole, infrastrutture in genere e mercati).

Lo ha già fatto nel ’48 e nel ’67, e quello che si sta consumando è la terza “catastrofe” dopo la Nakba e la Naksa…

Sebbene incontrino la puntuale censura dei media mainstream gli incontri, le mobilitazioni e le azioni concrete fianco della Palestina in tutto in mondo – anche in Occidente – continuano e si intensificano.

Israele sa che, a parte le élite politiche a livello trasversale, su questo “secondo fronte” ha perso terreno perché non ha agglutinato attorno a sé il consenso dell’opinione pubblica, dopo avere fallito nel tentativo di “normalizzazione” nel mondo arabo-mussulmano.

Tutto questo nonostante gli sforzi occidentali ed il contributo della leadership di alcuni Stati arabi che, dopo l’Egitto e la Giordania – con gli “Accordi di Abramo” -, avevano avviato le relazioni diplomatiche con l’Entità Sionista: EAU, Bahrein, Marocco e Sudan ed ultima (facendo marcia indietro al Novantesimo Minuto) l’Arabia Saudita.

Ed è riuscita ad inasprire i rapporti con il Cairo ed Amman, perché sanno che la presenza dei profughi palestinesi sarebbe un detonante delle contraddizioni presenti nei loro regimi, già “vacillanti” per diversi motivi.

Anche nel nostro “ridotto nazionale” non solo continuano ad esprimersi le piazze, ma si stanno sviluppando azioni per rompere le complicità con lo stato d’Israele in vari ambiti, promuovendo una campagna di boicottaggio, dis-investimento e disobbedienza civile di massa che può e  deve essere uno sbocco politico concreto all’indignazione e alla rabbia per il massacro in corso.

É evidente poi come il “doppio standard” occidentale sia ormai ingiustificabile: sanziona arbitrariamente con il pretesto della violazione dei “diritti umani” degli Stati che sono suoi competitor o antagonisti (ormai la differenza è labile),, non muove un dito quando si compie un massacro certificato dagli organismi internazionali, in primis l’Onu.

In più fornisce armi, cooperazione militare e “mercenari”, oltre ad una quantità industriale di mentecatti nei salotti televisivi e nelle redazioni dei giornali che, quando non chiamano al massacro dei palestinesi, vogliono assuefarci alla catastrofe, elevando ogni giorni il livello dell’orrore “democraticamente accettabile”.

I blocchi nei porti di Genova e Salerno, le occupazioni e le azioni in varie facoltà italiane ed in diversi istituti medi-superiori, le iniziative nelle stazioni e di fronte a Carrefour, sono un segnale di una tendenza che si “sincronizza” con ciò che sta avvenendo anche altrove, facendo emergere in fieri un movimento globale e di massa che di fatto – a parte rare eccezioni – non ha ancora una sponda politica adeguata, ma anzi si trova davanti numerosi “rinculi” da parte di una “sinistra” eurocentrica e, “gratta gratta”, filo-imperialista.

L’Occidente mostra il suo “cuore nero” di fronte all’aprirsi delle contraddizioni del modo di produzione capitalista con la tendenza alla guerra, la simbiosi mortale tra ulteriore involuzione autoritaria nei confronti dei diritti complessivi e politiche di austherity sul piano sociale.

Un blocco abbastanza monolitico, tranne rarissime eccezioni, che conferma come l’imperialismo euro-atlantico fagocita le volontà dei singoli governi: singoli esecutivi, apparati mediatici e “dispositivi” culturali, sono tutti pronti ad imbarcare la peggiore fascisteria purché disponibile a farsi paladina dei “valori occidentali”.

Di fronte a questo assistiamo alle prime, ancora “timide”, brecce nella pace sociale che, se non fanno girare pagina alla letargia ed al ristagno conosciuto finora, in parte invertono il processo di “passivizzazione sociale” che in Italia è stato particolarmente soffocante.

É chiaro che questa frattura deve ampliarsi ed esprimere il più possibile la propria autonomia di fronte ad un’opposizione che abbaia ma non morde, ma che soprattutto non non ha alcuna intenzione di disfarsi del collare a strozzo che la lega all’imperialismo euro-atlantico.

Se la posizione rispetto alla Palestina è stata uno spartiacque importante per le forze politiche, le organizzazioni sindacali e gli altri corpi sociali intermedi, allo stesso modo lo è il come ci si schiera – e si agisce di conseguenza – rispetto al possibile rinnovo del finanziamento bellico all’Ucraina, che si deciderà da qui a poco.

Dopo la fallimentare controffensiva ucraina e il sopraggiungere del “Generale Inverno”, le prime spaccature nella leadership di Kiev tese a avviare il processo di marginalizzazione di Zelensky, ed i primi segnali di perdita di ottimismo nella “certezza della vittoria” – anche in alcuni media mainstream occidentali – la questione di una soluzione diplomatica al conflitto deve messa al centro dell’agenda politica, a cominciare dallo stop all’invio di armi e dalla fine della collaborazione data dalla NATO al regime di Kiev, che riguarda direttamente il nostro Paese.

Questo è il “secondo fronte” che si può aprire rispetto ai due maggiori conflitti che si stanno consumando, con le notevoli responsabilità occidentali, del nostro esecutivo e di una buona parte delle forze politiche che siedono in Parlamento.

Foto di Patrizia Cortellessa

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2 Commenti


  • Mauro

    Lo Stendardo della Vittoria dell’esercito Russo è una bandiera rossa con falce e martello…issata a Marinka..un fantasma si aggira ancora in Europa…


  • Mara

    Più di una opposizione che abbaia io direi una opposizione che guaisce e poi si appiattisce alla volontà della maggioranza di governo Praticamente non esiste ed è per questo che c’è tanta astensione al voto visto che gran parte del popolo non è rappresentato nei propri bisogni ed aspirazjkni

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