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Un’ondata di violenza scuote l’Ecuador, l’ingerenza “made in Usa”

“Stato di emergenza” dichiarato a seguito dell’esplosione di un “conflitto armato interno”, che ha portato a un’ondata di violenza senza precedenti legata al traffico di droga e all’inefficienza dello Stato.

Queste sono le motivazioni riportate degli analisti locali su sta accadendo in questi giorni in Ecuador, Sudamerica nordoccidentale.

Le violenze in diverse città del paese, come Guayaquil, Quito, Cuenca, Riobamba e Latacunga, hanno spinto il presidente della Repubblica Daniel Noboa a ordinare alle forze armate di intervenire nelle strade.

Il caso più eclatante è stato l’irruzione di un gruppo di criminali incappucciati, probabilmente i,  nell’emittente televisiva TC Televisión a Guayaquil, dove hanno preso in ostaggio il personale durante una diretta.

Il giovane presidente, salito al potere meno di due mesi, si trova ad affrontare la prima crisi interna. Proprio la campagna elettorale aveva avuto come punto cardine la promessa di reprimere i gruppi di narcotrafficanti, bollando una ventina queste organizzazioni come “terroristiche”.

Il capo dell’esecutivo ha descritto l’attacco come una ritorsione per le sue azioni volte a riprendere il controllo delle carceri e ha avvertito che non avrebbe negoziato con i terroristi”, riporta l’agenzia di stampa Prensa Latina.

L’Ecuador ha chiuso il 2023 come il Paese più violento dell’America Latina, con oltre 7.800 morti violente, una cifra senza precedenti che contrasta con la diminuzione del crimine fino al 2017.

In continuità con l’anno precedente, l’8 gennaio in Ecuador si sono sollevati i detenuti in alcuni centri penitenziari del Paese, intimando al presidente ecuadoriano di non intervenire militarmente nelle carceri perché, in caso contrario, ci sarebbe stata una carneficina.

E in effetti, le immagini giunte fino a noi tramite le reti social mostrano bande di uomini incappucciati che brandiscono coltelli e machete alle spalle delle guardie carcerarie, prese in ostaggio.

In questo quadro, durante la sollevazione è evaso Adolfo Macías, noto come “Fito”, leader del principale gruppo criminale del paese.

Tutto ciò è il risultato della marginalizzazione dia ampie fette del tessuto sociale, che nel tempo ha lasciato strada aperta ai gruppi criminali.

La violenza sistematica in questo Paese sudamericano è il prodotto di un processo di smantellamento deliberato dello Stato di diritto, frutto delle politiche attuate dagli ultimi tre governi del Paese”, afferma Jorge Paladines, professore dell’Università Centrale dell’Ecuador.

La militarizzazione delle strade per la risoluzione dei problemi sociali, in aumento anche dalle nostre parti (anche se per ora in funzione di deterrenza e non in maniera attiva), semplicemente non funziona.

La militarizzazione delle strade è insufficiente, è necessario ripulire le istituzioni perché all’interno dello Stato c’è un varco attraverso il quale le informazioni entrano ed escono per le bande criminali”, dichiara Luis Córdova, anch’egli accademico dell’Università Centrale.

È essenziale un approccio di politica pubblica, non un Piano Phoenix, come quello proposto da Noboa, i cui obiettivi, mezzi e portata non sono chiari”, ha aggiunto.

Ancora più pesanti sono le parole dell’ex viceministro degli Esteri ecuadoriano, Kintto Lucas: “il caos è preordinato, elaborato dall’intelligence per giustificare e vincere una consultazione che consolida un modello neoliberale nella sfera economica, fascista nella sfera politica, contrario all’integrazione e sottomesso nella sfera internazionale”.

Non è un caso, riporta Prensa Latina, che l’ambasciatore statunitense, Michel Fitzpatrick, è stato visto entrare nel Palazzo Carondelet, sede dell’esecutivo, poco prima dell’inizio della riunione del gabinetto di sicurezza di ieri, il giorno dopo l’inizio della sommossa.

Da Washington intanto l’assistente segretario del Dipartimento di Stato Usa per gli affari dell’emisfero occidentale, Brian Nichols, ha dichiarato di essere “pronto a fornire assistenza al governo ecuadoriano”.

Una mano tesa che è più di un campanello d’allarme per il futuro del popolo ecuadoriano e per la “stabilità” dell’intera regione.

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