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Saltata l’ipotesi di tregua, a Gaza il massacro continua

Mercoledì 7 febbraio Benyamin Netayahou ha rifiutato i termini del “cessate il fuoco” enunciati da Hamas, che aveva posto le sue condizioni ad una proposta d’accordo precedentemente avanzata da Israele.

Quest’ultima fase del conflitto israeliano-palestinese quindi entra nel suo quinto mese, senza che vi siano spiragli – nonostante le parti continuino a trattare – per una parziale risoluzione che porti ad uno scambio tra 136 “ostaggi” israeliani nella Striscia di Gaza ed un congruo numero di palestinesi nelle carceri israeliani, nonché alla fine dei combattimenti, con l’allontanamento dell’Esercito Israeliano dalla Striscia di Gaza.

Un nuovo ciclo di negoziazioni avrebbe dovuto iniziare giovedì 8 febbraio al Cairo sotto l’egida dell’Egitto e del Qatar, con la presenza di una delegazione di Hamas guidata dal capo aggiunto dell’Ufficio Politico del movimento islamico.

I mediatori vorrebbero giungere ad una tregua prima dell’inizio del Ramadan, consci della situazione esplosiva che potrebbe crearsi in Cisgiordania ed in particolare a Gerusalemme dal 10 marzo, tenendo conto degli scontri degli ultimi anni sulla spianata delle Moschee tra Esercito Israeliano e credenti mussulmani, ma anche delle costanti provocazioni dei “suprematisti bianchi ebraici” ora al governo.

Hamas ipotizzava un accordo in tre fasi, chiedendo la liberazione di 1.500 prigionieri palestinesi – tra cui 500 condannati all’ergastolo – contro i 136 “ostaggi” cioè una proporzione di circa 3 volte superiore di quella del primo, e finora unico, scambio tra 80 “ostaggi” e 240 detenuti nelle carceri sioniste.

Secondo la proposta di Hamas i soldati israeliani sarebbero rilasciati in una seconda fase, mentre gli ostaggi “civili” – in una primo tempo – sarebbero rilasciati contestualmente alla liberazione di donne, bambini e detenuti maggiori di 50 anni, prigionieri nelle carceri sioniste.

Non si è a conoscenza, perché Tel Aviv non fornisce i numeri, quale sia il totale dei detenuti palestinesi, che secondo le stime di alcune ONG ed associazioni umanitarie potrebbero essere tra i 9 ed i 10 mila, cifra che pensiamo sia stata stimata “per difetto”, visto che è senz’altro almeno raddoppiata dal 7 ottobre.

Secondo quanto riferisce Qaddoura Fares, l’incaricato dell’ANP riguardo ai detenuti,  Hamas, mette come priorità assoluta la liberazione di dirigenti di spicco incarcerati come Marwan Barghouti – leader popolare di Al Fatah, a capo della sua ala militare durante la Seconda Intifada – e di Ahamd Saadat, segretario generale del FPLP, oltre a “numerosi quadri militari di Hamas chiamati a giocare un ruolo politico di primo piano per il futuro”, com’è stato in passato per Yahya Sinora, liberato nel 2011 proprio in uno scambio di ostaggi.

L’articolata proposta di Hamas prevedeva un percorso che dal cessate il fuoco ipotizzava la possibilità di movimento degli abitanti della striscia, spinti sempre più a Sud dall’offensiva israeliana, l’entrata di aiuti alla popolazione che passano con il contagocce, e la fine del taglio dell’acqua e dell’energia, finendo questa sorta di “assedio mediovale” alla popolazione in barba alle varie norme che dovrebbero regolare un conflitto. Non ultimo l’inizio della ricostruzione per un territorio ridotto sempre più ad una distesa di macerie.

Particolare non irrilevante, Hamas chiedeva che nel pacchetto dei mediatori entrassero – oltre agli attuali Egitto, Qatar e Stati Uniti – anche Turchia e Russia.

Uno dei leader del movimento islamico, esiliato in Libano, Oussama Hamdane, metteva in luce – prima del netto rifiuto del Primo Ministro israeliano – le responsabilità della cosiddetta comunità internazionale nel mettere sotto pressione Israele: «la questione non è sapere chi farà dei compromessi su cosa, ma se la comunità internazionale – principalmente gli Stati Uniti – è pronta ad agire per mettere fine a questo genocidio o se vuole avere le mani sporche di sangue palestinese».

Ma gli USA, oltre ad opporsi nelle sedi dell’ONU al cessate il fuoco e a continuare nel rifornimento di armi Israele, sembra che facciano “cilecca” nel convincere il riluttante alleato locale a cessare questo immane spargimento di sangue.

L’attuale Primo Ministro israeliano ha voluto mostrare una chiusura totale, classificando le proposte del Movimento Islamico come “richieste deliranti” e ribadendo che “una pressione militare continua è una condizione necessaria alla liberazione degli ostaggi”. In pratica, che non c’è nulla trattare e che l’unica soluzione possibile è quella militare.

Che però non sembra funzionare davvero. Rimane un fatto che nessuno ostaggio è stato finora liberato manu militari dall’IDF, mentre diversi sono morti sotto i bombardamenti israeliani o uccisi dal “fuoco” amico.

Netanyahou continua a parlare di “vittoria totale”, che ritiene possibile in “qualche mese”, ma non sembra proprio che l’obiettivo dell’eliminazione di Hamas dalla Striscia dopo 5 mesi di rappresaglia israeliana stia dando i suoi frutti.

L’unico risultato certo è la punizione collettiva dei palestinesi, che ha assunto le forme di un vero e proprio genocidio e della quasi totale distruzione di abitazioni e infrastrutture dove vivevano circa 2 milioni e trecento mila palestinesi prima dell’aggressione israeliana, de quali più dell’1% è già stato ucciso.

Sordo agli appelli dei familiari degli ostaggi Netanyahu ha già iniziato ad estendere le operazioni terrestri a Rafah, nel Sud dell’enclave, dove si “ammassano” più di un milioni di palestinesi sulla frontiera con l’Egitto.

Si tratta di una piccola fetta di territorio che viene già bombardato ma che, in caso di azione di terra, senza un coordinamento con l’Esercito Egiziano potrebbe facilmente portare ad una estensione del conflitto. Comunque alzerebbe non di poco la tensione tra i due paesi.

Egitto, Giordania e Qatar hanno fin qui rifiutato l’ipotesi di accogliere i profughi di questa nuova e terza Nakba, ben sapendo che – come nel 1948 o nel 1967 – non si tratterebbe di un soggiorno “temporaneo”, ma di una espulsione permanente dei palestinesi dal proprio territorio, scaricando sul Cairo ed Amman tutte le conseguenze politico-sociali di questa deportazione.

Più che all’esito favorevole del conflitto, il Primo Ministro israeliano sembra interessato al mantenimento della sua posizione di potere come capo dell’esecutivo che, nel momento in cui sarà persa, avrà come conseguenza l’apertura di una serie di processi che quasi certamente porterebbero ad una sua condanna.

Per riuscirci deve continuamente risolvere una difficile equazione politica: non inimicarsi l’estrema destra assegnando incarichi ministeriali, cosa che gli ha permesso di essere rinominato Primo Ministro  più di un anno fa “sdoganando” il fascismo ebraico, incarnato da una serie di organizzazioni ed esponenti (Smotriche, Ben-Gvir, ecc), e dall’altro non allargare il fossato con quella una volta che era “l’opposizione”, entrata immediatamente nell’esecutivo di guerra dopo il 7 ottobre.

I primi vorrebbero “ri-colonizzare” la Striscia di Gaza ricostruendo sulle macerie del territorio nuovi insediamenti coloniali, e riportandola allo status quo precedente al 2005, quando le colonie vennero abbandonate, e concepiscono ogni “trattativa” come un cedimento di fronte al nemico ed un ostacolo della costruzione della “Grande Israele” dal Giordano al Mar Mediterraneo.

I secondi vorrebbero far fuori il prima possibile l’attuale primo ministro, forti della pressione che sta aumentando all’interno dello Stato d’Israele. Stando ai più recenti sondaggi, il 38% vorrebbe andare alle urne una volta finita la guerra, mentre il 33% vorrebbe comunque andare a votare da qui a tre mesi, ossia il limite minimo per potere organizzare le elezioni.

Una situazione all’apparenza senza sbocchi che, incancrenendosi, non può che portare ad un conflitto di carattere regionale dagli esiti incerti e comunque disastrosi.

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1 Commento


  • Matteo

    Ormai la paranoia fasciosionista non risparmia neppure quello spettacolone nazionalpopolare, trash, amarcord e semisèrio che è il Festival di Sanremo: la comunità ebraica milanese ha infatti attaccato il cantante Ghali per delle frasi contenute nella sua canzone, accusandolo di propaganda “anti-israeliana.” Che dire: sono proprio alla frutta le canaglie genocide della teocrazia sionista!

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