Julian Assange ha ancora una carta da giocare per cercare di sfuggire alla contestatissima estradizione negli Usa, che gli danno la caccia da quasi 15 anni.
Assange è diventato una sorta di nemico pubblico numero uno a Washington per essersi permesso di divulgare, a partire dal 2010, circa 700.000 documenti riservati – autentici e ricchi di rivelazioni agghiaccianti, anche su crimini di guerra commessi fra Iraq e Afghanistan – sottratti al Pentagono o al Dipartimento di Stato.
L’Alta Corte di Londra ha infatti dato oggi, martedì 26 marzo, il via libera all’istanza della difesa del giornalista australiano e fondatore di WikiLeaks – respinta in primo grado – per un ulteriore estremo appello di fronte alla giustizia britannica contro la consegna alle autorità americane.
I giudici di secondo grado, Victoria Sharp e Adam Johnson, hanno fissato il nuovo appello per il 20 maggio giudicando non infondate le argomentazioni della difesa sui timori per la vita di Assange.
Se fosse stato confermato il ‘no’ di primo grado, invece, per Assange sarebbe scattato il termine massimo di 28 giorni per l’estradizione effettiva negli Usa, anche in presenza di un tentativo di ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
I giudici dell’Alta Corte si erano presi più di un mese, dopo i due giorni di udienza in febbraio, per considerare le argomentazioni dei legali dell’attivista australiano, incentrate sull’idea di “una persecuzione contro la legittima attività giornalistica” e il rischio di una serie di diritti negati davanti alla giustizia americana con l’incubo di una condanna ‘monstre’ di 175 anni di carcere, e quelle delle autorità statunitensi, decise a perseguire chi a loro avviso è andato “oltre i limiti del giornalismo” (quello ridotto a “stenografia” delle dichiarazioni del potere).
La Corte di Giustizia di Londra ha in pratica chiesto al governo degli Stati Uniti di fornire entro tre settimane fornire garanzie credibili sul fatto che Assange, in caso di estradizione, potrà fare affidamento sul Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (che protegge la libertà di parola), sul fatto che non sarà pregiudicato durante il processo (compresa la sentenza) in ragione della sua nazionalità e che gli saranno concesse le stesse protezioni del Primo Emendamento di un cittadino Usa.
Sembra folle anche nominarla, ma l’ultima richiesta della Corte riguarda l’esclusione della pena di morte. Come si vede, si tratta di una buona notizia soltanto per metà. L’estradizione per ora non avviene.
Nei giorni scorsi era circolata la voce di un possibile patteggiamento offerto da Washington ad Assange, incentrato su una dichiarazione di colpevolezza da parte del giornalista per un reato meno grave.
Si era detto che l’eventuale intesa gli poteva evitare l’estradizione negli Usa, spianandogli la strada verso la libertà, ma si trattava probabilmente solo di una “mossa propagandistica” per diminuire la pressione sugli Usa, diventati ormai agli occhi del mondo uno Stato antidemocratico che si permette di dare lezioni di “libertà”.
Ma è fin troppo prevedibile che il governo statunitense avrà gioco facile a fornire verbalmente (e documentalmente) “garanzie” che potranno essere riviste o dimenticate una volta che Assange sarà stato portato negli Usa. Chi mai potrà “imporre” a Washington qualcosa?
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