Gaza non ha un fuori. E nemmeno un dentro. Non vi è alcuna possibilità di decidere cosa può essere un obiettivo di distruzione e cosa di immunità, cosa può essere nemico e amico. Hamas opera come uno spettro presente nell’intera popolazione.
“Scudi umani” è stata la giustificazione sionista sin dai precedenti bombardamenti di Gaza. Perché qui non è in gioco solo lo sterminio del popolo palestinese e il consolidamento della nakba, ma soprattutto la naturalizzazione di una tecnica di governo che trasformi ogni luogo in un possibile bersaglio di sterminio: Gaza non ha un fuori poiché è diventata mondo: ovunque migriamo, non siamo al sicuro in alcun luogo.
La nuova tecnica, emersa e consolidata nel corso degli ultimi 30 anni, si differenzia dalla precedente dottrina del “nemico interno” applicata dalle dittature latinoamericane contro le popolazioni nel XX secolo, poiché, a differenza della precedente, che seguiva la classica rotta dell’inquisizione spagnola identificando un soggetto o un insieme di soggetti dal resto della popolazione isolandoli (il militante, il guerrigliero, il comunista, ecc.), la nuova tecnica è esattamente l’opposto: non mira a identificare il “nemico” ma a massificarlo nella popolazione, non cerca il nemico “interno” ma perseguita la popolazione come portatrice irrimediabile di esso.
Non bisogna cercare ciò che è speciale all’interno del comune, ma piuttosto perseguitare il comune e distruggerlo al suo interno. Questo è proprio quello che abbiamo sperimentato durante la rivolta di ottobre del 2019: chiunque andasse alle proteste o si trovasse nelle vicinanze poteva essere ferito a un occhio o ammazzato dalla polizia: le centinaia di mutilati ancora in attesa di giustizia o l’attuale senatore Campillai danno la misura di ciò. Non si trattava di perseguitare il nemico interno ma piuttosto di tormentare il collettivo ribelle.
In questo contesto, i “danni collaterali” risultano essere la regola e non l’eccezione: non si tratta, quindi, di un nemico “interno” ma piuttosto di un nemico “invisibile” che assume una presenza spettrale, quindi, nell’immaginario securitario, appare completamente radicato nella popolazione civile: così come chiunque può diventare un terrorista (la guerra al terrorismo), chiunque può essere portatore del mortale virus Covid-19 (la guerra al virus). Entrambi portano con sé un nemico invisibile che, però, chiunque può portare con sé.
Da qui il fatto che oggetto della macchina securitaria contemporanea sia sempre la popolazione civile, nella misura in cui la nuova produzione del nemico non è più ristretta al nemico interno ma allargata al nemico invisibile. Per questo motivo il nemico non è più quello a cui Carl Schmitt poteva ancora appellarsi (tutti i liberali che sottolineano che oggi ci troveremmo di fronte alla cristallizzazione della formula di Schmitt sull’inimicizia sono ingenui o in malafede) perché tale nemico era pubblico e politico, poiché godeva di uno status giuridico-morale, come detta la classica nomenclatura westfaliana sulla guerra moderna.
Il processo di nemicizzazione muta dalla classica nomenclatura giuridica al nuovo scenario aperto dalla guerra al terrorismo condotta dagli Stati Uniti a partire dal 2001[1]. Potremmo dire che, in questo senso, l’11 settembre 2001 segna l’inizio della fine del paradigma del diritto internazionale e l’inizio del dispiegamento del suo stesso rovesciamento: la guerra civile planetaria. In quanto planetaria o globale, non ha limiti di tempo né di spazio: può operare 24 ore su 24 senza fermarsi e in qualsiasi parte del pianeta. La guerra e le sue modalità diventano onnipresenti.
Dal 2001 ad oggi stiamo assistendo ad una grande mutazione. Schmitt direbbe che si tratta di una rivoluzione giuridica mondiale volta a invertire il riordino giuridico-politico della modernità verso il suo rovesciamento eccezionalista, al quale vengono fornite, e lo proteggono, forme giuridiche sempre più ipertrofiche: la dottrina del “diritto penale del nemico”, di Günther Jakobs, costituisce in questo senso un sintomo decisivo che si inserisce all’interno della rapida violazione dei diritti civili, politici e culturali di ampi settori della popolazione, in nome della “sicurezza”.
In questo senso, la grande mutazione è consistita nella progressiva normalizzazione della guerra civile planetaria come rovesciamento dell’ordine giuridico-politico costruito nel corso dei secoli. Normalizzazione che mette qualsiasi popolazione nel mirino dello sterminio e che oggi si chiama Gaza.
Area che è stata sistematicamente bombardata dal 2009 e ininterrottamente bloccata per aria, per mare e per terra dal 2005. Tuttavia, c’è differenza tra l’ordine politico-giuridico mondiale eretto per contrastare la guerra civile, basato su un contratto come sognava Thomas Hobbes: l’attuale guerra civile planetaria non stabilisce una differenza tra interno ed esterno, tra amico e nemico, nel senso classico e statale del termine. Al contrario: poiché è sempre la popolazione civile ad essere presa di mira e il nemico diventa “invisibile” perché chiunque può essere un terrorista, l’interno e l’esterno, l’amico e il nemico diventano indistinguibili tra loro, fino al punto di diventare totalmente irriconoscibili.
Così tutta una popolazione può essere oggetto di sterminio senza che la legge possa impedirlo. Premesso che la guerra civile non ha un fuori e oggi passa per Gaza come il suo luogo più intenso, possiamo dire che l’intero pianeta è diventato Gaza perché Gaza non è solo il nome di una piccola Striscia che, nonostante l’assedio, offre il suo volto al Mar Mediterraneo, ma il paradigma – divenuto “normale” – della guerra civile planetaria in cui viviamo: ogni territorio, ovunque nel mondo, diventa virtualmente Gaza.
Tutto è Gaza significa che nessuno può essere al sicuro, non esiste un posto sicuro perché nessuna protezione è più possibile. Né protezione giuridica (l’impunità è dilagante), né economica (la precarietà del lavoro si moltiplica) né politica (i conflitti si intensificano ogni giorno). Non c’è paese, area o regione al mondo che possa essere immune dalla guerra civile.
Non c’è posto, quindi, perché Gaza non ha un fuori, è la globalizzazione stessa, con aree più intense di altre, ma che sono sempre sull’orlo del collasso. Se Israele può bombardare il consolato iraniano in Siria o l’Ecuador fare un raid sull’ambasciata messicana, significa che le ambasciate, i luoghi abituali di protezione della diplomazia moderna, non lo sono più. Il messaggio offerto dall’imperialismo è chiaro e preciso: ovunque, anche nelle ambasciate, nessuno può essere al sicuro perché tutto è Gaza.
La guerra civile inghiotte tutto, sia nel microspazio delle relazioni quotidiane – “paranoia” di funzionare come unica soggettivazione possibile – sia nelle macro strutture delle grandi istituzioni politiche, dove corruzione e persecuzione sembrano essere quotidiane mentre nessun progetto storico si vede all’orizzonte (proprio perché non c’è più orizzonte). Così, nella sua differenziazione tra interno ed esterno, la guerra civile si esprime oggi nella configurazione di dittature “civili” (senza bisogno dell’esercito): forme politiche sempre più autoritarie dove il “bukelismo”, in realtà, non è altro che una delle molteplici espressioni del neofascismo contemporaneo che assoggetta gli Stati alla forza delle grandi multinazionali, saturando i codici politici con la macchina della sicurezza.
Se oggi il paradigma della guerra civile trionfa su quello dell’ordinamento giuridico-politico moderno, è proprio perché il dominio del capitale ha bisogno di liberarsi da quell’ordine per garantire la propria espansione. La “liberazione” da tale ordine – così ben espressa dal discorso anarcocapitalista quando parla di “casta” – si traduce nel neofascismo come forma politica capace di accelerare l’espropriazione del pianeta da parte dell’oligarchia contro i popoli del mondo.
Non c’è un fuori perché non c’è un fuori nel capitale che, dal 2001, la mette in moto. Non esiste infatti guerra civile planetaria senza movimento di capitali: il 2001 può essere la data che segna il progressivo dispiegamento dell’oligarchia militare e finanziaria sotto il trionfo del capitalismo di rendita, la cui intensità richiede le armi per favorire nuove fasi di accumulazione globale e la nuove forme di appropriazione del pianeta nella sua interezza: cos’è il “cambiamento climatico” se non l’effetto diretto delle diverse forme storiche di accumulazione capitalistica?
In questo frangente, il popolo ha potuto assumere due atteggiamenti: o sperimentare il panico aggrappandosi alle promesse del neofascismo o alle forme autoritarie del capitalismo, oppure scendere in piazza sfidando la guerra civile in corso. Una bandiera palestinese oggi può essere più decisiva delle bandiere e dei segni politici utilizzati in altri momenti della storia nelle mobilitazioni di massa che ogni giorno attirano l’attenzione in varie parti del mondo: così la gente esprime il desiderio di fermare la guerra civile in corso ( “cessate il fuoco”, è stato lo slogan) e impedire che il mondo diventi Gaza.
[1] Carlos del Valle La Construcción mediática del Enemigo. Cultura Indígena y guerra informativa en Chile. Ed. Comunicación Social, Salamanca, 2021.
* da https://lavozdelosquesobran.cl/opinion/todo-es-gaza/08042024
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