Il 3 maggio l’ufficio del procuratore presso la Corte penale internazionale (CPI) ha pubblicato una dichiarazione nella quale chiede formalmente che terminino le intimidazioni e i tentativi di ostacolare o influenzare in maniera indebita i suoi funzionari. Anche non è diretto, il riferimento alle indagini sugli eventuali crimini di guerra commessi dai leader israeliani nella Striscia di Gaza, è evidente.
In seguito alla notizia diffusa dai media israeliani della possibile emissione di mandati di arresto internazionali nei confronti del premier Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il capo di stato maggiore delle forze di difesa Herzl Halevi, il governo e la stampa degli Stati Uniti e di Israele hanno emesso pesanti ammonimenti e minacciato apertamente “conseguenze”.
La nostra “indipendenza e imparzialità – dichiara l’ufficio del procuratore capo della CPI – vengono compromesse quando individui minacciano ritorsioni contro la Corte o contro il personale della Corte nel caso in cui l’Ufficio, nell’adempimento del suo mandato, prenda decisioni su indagini o casi che rientrano nella sua giurisdizione.
Tali minacce, anche se non messe in atto, possono costituire un reato contro l’amministrazione della giustizia ex art. 70 dello Statuto di Roma. Tale disposizione vieta esplicitamente sia ritorsioni contro un funzionario della Corte a causa delle funzioni svolte da questo o da un altro funzionario sia impedire, intimidire o influenzare in modo corrotto un funzionario della Corte allo scopo di costringerlo o persuaderlo a non svolgere, o svolgere in modo improprio, i propri compiti. L’Ufficio insiste affinché tutti i tentativi di ostacolare, intimidire o influenzare indebitamente i suoi funzionari cessino immediatamente”.
La CPI è l’unica corte indipendente al mondo istituita per indagare singoli individui su reati tra cui genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Né gli Stati Uniti né Israele sono membri della CPI (mentre ne fanno parte i Territori palestinesi Occupati). Washington ha unilateralmente stabilito che la Corte Penale non abbia giurisdizione sul caso mentre Tel Aviv ha minacciato ritorsioni contro l’Autorità Nazionale Palestinese.
Anche se, probabilmente, una così forte pressione rappresenta una novità storica, non mancano tentativi precedenti di intromissione. Nel 2020 l’allora presidente USA Donald Trump ha emesso sanzioni nei confronti dei funzionari della Corte che stavano indagando su eventuali crimini di guerra compiuti da Washington in Afghanistan e da Israele in Palestina.
La Casa Bianca impose sanzioni economiche e di viaggio nel giugno 2020 e Trump affermò che le indagini della CPI sugli abusi in Afghanistan rappresentassero “un attacco ai diritti del popolo americano” e una minaccia alla “sovranità nazionale”.
L’anno successivo il presidente Joe Biden ha revocato le sanzioni. Lo stesso Biden nel 2023 ha accolto con favore la notizia del mandato d’arresto per il presidente russo Vladimir Putin per “presunti crimini di guerra di deportazione di bambini dai territori ucraini occupati nella Federazione Russa”. Neanche la Russia fa parte dell’assemblea della Corte Penale Internazionale.
Una delle obiezioni che si alzano contro l’emissione dei mandati di arresto internazionali, che comunque raggiungerebbero anche i leader di Hamas, è che rappresenterebbero un freno se non un ostacolo ai negoziati di pace.
Anche questa non è una novità nella storia Israelo-palestinese. In diverse circostanze l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) ha rinunciato a ricorrere alle armi legali internazionali per poter proseguire i negoziati di pace.
Il caso più eclatante è quello del 2009, dopo l’operazione militare israeliana a Gaza denominata “Piombo fuso” (27 Dicembre 2008-18 Gennaio 2009). Nei 22 giorni di bombardamenti nella Striscia morirono circa 1.400 persone, tra le quali circa 300 bambini. I razzi di Hamas uccisero 13 israeliani.
In quell’occasione le Nazioni Unite nominarono una commissione d’inchiesta guidata dall’avvocato sudafricano di origini ebraiche Richard J. Goldsone. La relazione che ne derivò (nota come il “Rapporto Goldstone“) rivelò crimini di guerra compiuti dall’esercito israeliano e da Hamas. Il documento spiegava, tra le altre cose, che Israele aveva deliberatamente ucciso civili innocenti:
“[…] gravi violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario sono state commesse da Israele durante il conflitto di Gaza e che Israele ha commesso azioni che equivalgono a crimini di guerra e possibilmente crimini contro l’umanità. Il rapporto conclude anche che ci sono anche prove che gruppi armati palestinesi hanno commesso crimini di guerra, nonché possibilmente crimini contro l’umanità, nel loro ripetuto lancio di razzi e mortai nel sud di Israele”.
Le indagini di Goldstone e del suo team rivelavano che Israele aveva “imposto un blocco pari a una punizione collettiva”, attuando una politica sistematica di progressivo isolamento e privazione della Striscia di Gaza. Durante l’attacco israeliano case, fabbriche, pozzi, scuole, ospedali, stazioni di polizia e altri edifici pubblici sono stati distrutti:
“L’operazione militare israeliana era diretta contro il popolo di Gaza nel suo complesso, a sostegno di una politica globale e continua volta a punire la popolazione di Gaza e in una politica deliberata di forza sproporzionata rivolta alla popolazione civile. La maggior parte degli incidenti indagati e descritti nel rapporto, la perdita di vite umane e la distruzione causate dalle forze israeliane durante l’operazione militare sono state il risultato della mancanza di rispetto per il principio fondamentale di distinzione nel diritto internazionale umanitario che richiede alle forze militari di distinguere tra obiettivi militari e civili e oggetti civili in ogni momento”.
Nell’ottobre del 2009 il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite avrebbe dovuto trasformare tale rapporto in una risoluzione, primo passo verso la formulazione di un atto di accusa contro gli ufficiali israeliani presso un tribunale per i crimini di guerra. Il momento dell’approvazione della risoluzione, però, fu ritardato a causa delle perplessità mosse dagli Stati Uniti, da Israele e, fatto apparentemente inspiegabile, dalla stessa Autorità Palestinese.
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abū Māzen) motivò tale ritardo con la necessità di prendere tempo per accrescere l’interesse internazionale nei confronti della questione. A molti giornalisti e politici questa spiegazione apparve alquanto insolita.
Una fuga di notizie e di documenti segreti sui negoziati di pace israelo-palestinesi, noti come i Palestine Papers, rivelò due anni dopo cosa realmente spinse Abbas a prendere tale decisione.
Il giorno in cui il rapporto Goldstone doveva essere discusso per diventare risoluzione, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat si trovava a Washington, dove incontrò il senatore americano, inviato speciale per il Medio Oriente degli Usa, George Mitchell. Erekat chiese la sua intercessione per convincere gli israeliani a riprendere i negoziati di pace. Le indagini di Goldstone e del suo team rivelavano che Israele aveva “imposto un blocco pari a una punizione collettiva”, attuando una politica sistematica di progressivo isolamento e privazione della Striscia di Gaza.
Per tutta risposta Mitchell chiese ad Erekat di firmare un documento con il quale l’Autorità Palestinese avrebbe rinunciato a portare gli ufficiali israeliani colpevoli di crimini di guerra dinanzi alla Corte Penale Internazionale. Tale documento avrebbe cancellato gli effetti di un’eventuale adozione del rapporto Goldstone:
«L’Autorità Palestinese contribuirà a promuovere un’atmosfera positiva favorevole ai negoziati; in particolare durante i negoziati si asterrà dal perseguire o sostenere, direttamente o indirettamente, qualsiasi iniziativa nelle sedi giuridiche internazionali che possa minare tale atmosfera»
L’ANP sottoscrisse quel documento in cambio della semplice ripresa dei negoziati, senza alcun tipo di garanzia o concessione da parte di Israele e di conseguenza il rapporto Goldstone non fu votato. Le proteste contro l’ANP si alzarono numerose, soprattutto da Gaza.
Come sappiamo oggi, tale scelta non servì a creare uno stato palestinese né a migliorare le condizioni di vita a Gaza e in Cisgiordania.
* da Pagine Esteri
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