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“Dal fiume al mare, i palestinesi saranno liberi”. Norman Finkelstein alla Columbia

Il 21 aprile 2024, lo studioso dell’Olocausto e importante attivista pro-Palestina, Norman Finkelstein, ha visitato l’accampamento di solidarietà per Gaza alla Columbia University, il primo campus a vedere un’azione organizzata di quel tipo negli Stati Uniti e il primo a subire uno sgombero.

Ma la repressione che si è abbattuta su chi protestava, alla Columbia e altrove, ha ampliato anziché limitare l’iniziativa degli studenti, raccogliendo la solidarietà di lavoratori universitari e docenti, e diffondendosi “a macchia d’olio” anche nelle università europee.

La protesta negli Stati Uniti ha toccato oltre cento, tra campus ed università, e ha portato all’arresto di circa 2.900 studenti (ma anche lavoratori e professori), secondo quanto riporta l’Associated Press, con le “cerimonie di laurea” ormai interessate da differenti forme di contestazione anche nel corso dell’ultimo weekend, dal Nord Carolina alla California.

Nonostante la maggior parte delle università negli Stati Uniti abbiano scelto di reprimere, in alcuni casi hanno ingaggiato un dialogo fruttuoso, accettando le istanze degli studenti in quattro stati differenti – come riporta Democracy Now! che intervista quattro studenti protagonisti di queste mobilitazioni vittoriose.

Un segnale in controtendenza – su cui torneremo nei prossimi giorni – ma che dà il segno di come si può vincere anche contro il “combinato disposto” di criminalizzazione mediatica, repressione poliziesca, il nuovo maccartismo politico dell’establishment democratico e la “macchina dell’odio” repubblicana.

Solo una sparuta “truppa” di progressisti eletti nelle file dei democratici sostiene le proteste, oltre al candidato indipendente alle presidenziali Cornell West.

La lobby sionista – AIPAC -, in previsione delle elezioni Presidenziali che investiranno anche la composizione di Camera e Senato, sta facendo “il diavolo a quattro”. Ha già investito un fiume di quattrini – miliardi di dollari – per garantirsi il supporto ferreo dei destinatari delle donazioni. Possono del resto cambiare le sorti dei candidati, non tanto per influenzare il loro orientamento sul conflitto arabo-israeliano – già graniticamente filo-sionista – ma assicurarsi delle vere e proprie “pedine” nelle istituzioni rappresentative in mano a Tel Aviv.

Tornando all’intervento.

Finkelstein ha espresso il suo sostegno e la sua ammirazione per gli studenti che manifestavano, esortandoli a concentrarsi sul coinvolgimento di un gruppo di persone più ampio possibile nel movimento di solidarietà con la Palestina e insistendo sull’importanza vitale della libertà di parola contro l’imperante censura di guerra e della libertà accademica per la causa palestinese.

Riportiamo qui di seguito le sue osservazioni; la trascrizione è stata modificata per ragioni di lunghezza e chiarezza dalla rivista Jacobin Magazine, da cui abbiamo tradotto la seguente versione.

*****

Non voglio rivendicare alcun tipo di competenza, e devo sempre stare attento a non apparire accondiscendente o condiscendente, o a [pretendere di essere] onnipotente in queste materie. Direi semplicemente che, in base alla mia esperienza, le cose più importanti sono l’organizzazione, la leadership e la chiarezza degli obiettivi.

Obiettivi chiari significa fondamentalmente due cose. Uno è uno slogan che unisca e non divida. In gioventù, quando avevo la vostra età, ero un cosiddetto maoista, un seguace del presidente Mao in Cina. Uno degli slogan a cui era notoriamente associato era “Unire i molti per sconfiggere i pochi“.

Ciò significa che, in qualsiasi momento della lotta politica, bisogna capire come unire i molti e isolare i pochi con un obiettivo chiaro in mente. Ovviamente, non volete unire i molti con uno scopo o un obiettivo che non è il vostro. Dovete capire, avendo in mente il vostro obiettivo, qual è lo slogan che funzionerà meglio per unire i molti e sconfiggere i pochi?

Sono stato gratificato dal fatto che il movimento nel suo complesso, poco dopo il 7 ottobre, abbia colto spontaneamente e intuitivamente, a mio parere, lo slogan giusto: “Cessate il fuoco ora!“. Alcuni di voi potrebbero pensare, a posteriori, che cosa c’era di così brillante in quello slogan? Non era ovvio?

Ma in realtà gli slogan politici non sono mai ovvi. Ci sono tutti i tipi di strade e percorsi che le persone possono seguire e che sono distruttivi per il movimento. Non credo sia stata una decisione della leadership; è stata una sensazione spontanea e intuitiva dei manifestanti che lo slogan giusto in questo momento è “Cessate il fuoco ora“.

A mio avviso, inoltre, gli slogan devono essere il più chiari possibile, senza lasciare spazio ad ambiguità o interpretazioni errate, che possono essere sfruttate per screditare un movimento. Se prendiamo la storia delle lotte, c’è stato il famoso slogan che risale alla fine del 1800: “La giornata lavorativa di otto ore“. Era uno slogan chiaro.

Più di recente, a vostra memoria – per tutte le delusioni, a mio avviso, della candidatura presidenziale di Bernie Sanders – uno dei geni della sua candidatura, perché aveva quaranta o cinquant’anni di esperienza a sinistra, [era lo slogan] “Medicare per tutti“. Si potrebbe pensare: cosa c’è di così intelligente in questo slogan? Sapeva di poter raggiungere l’80% degli americani con questo slogan. Sapeva che “Abolire il debito studentesco” e “Tasse universitarie gratuite” avrebbero avuto una risonanza su gran parte del suo potenziale elettorato.

Non è andato oltre ciò che era possibile in quel particolare momento. Credo che abbia raggiunto quello che potremmo definire “il limite politico“. Il limite a quel punto della sua candidatura era probabilmente “posti di lavoro per tutti”, programmi di lavori pubblici, un New Deal verde, Medicare per tutti, abolire il debito studentesco e le tasse universitarie gratuite.

Erano gli slogan giusti. Può sembrare banale, ma non lo è affatto. Per trovare gli slogan giusti è necessario un duro lavoro e una grande sensibilità nei confronti del gruppo di elettori che si sta cercando di raggiungere.

Gaza libera, libertà di parola”

Il mio punto di vista è che alcuni degli slogan dell’attuale movimento non funzionano. Il futuro appartiene a voi ragazzi e non a me, e io credo fermamente nella democrazia. Dovete decidere da soli. Ma secondo me, dovete scegliere gli slogan che non sono ambigui, che non lasciano spazio a interpretazioni sbagliate e che hanno la maggiore probabilità, in un determinato momento politico, di raggiungere il maggior numero di persone. Questa è la mia esperienza politica.

Credo che lo slogan “Cessate il fuoco ora” sia il più importante. In un campus universitario, questo slogan dovrebbe essere abbinato allo slogan “Libertà di parola“. Se fossi nella vostra situazione, direi “Gaza libera, libertà di parola” – questo dovrebbe essere lo slogan. Perché credo che in un campus universitario le persone abbiano un vero problema a difendere la repressione della libera espressione delle idee.

Negli ultimi anni, a causa dell’emergere dell’ambiente della politica dell’identità e della cancel culture nei campus universitari, l’intera questione della libertà di parola e della libertà accademica si è gravemente offuscata. Mi sono opposto a qualsiasi restrizione della libertà di parola e mi oppongo alla cultura della cancellazione identitaria per preservare la libertà di parola.

Nell’ultimo libro che ho scritto – non per orgoglio o per egoismo o per dire “te l’avevo detto”, ma solo per una questione di fatto – ho detto esplicitamente che se si usa lo standard dei sentimenti feriti come motivo per soffocare o reprimere la parola, quando i palestinesi protestano per questo, per quello o per quell’altro, gli studenti israeliani useranno la rivendicazione dei sentimenti feriti, delle emozioni dolorose, e tutto quel linguaggio e quel vocabolario, che è così facilmente rivoltato contro coloro che lo hanno usato in nome della loro causa.

Era un disastro che aspettava di accadere. Ne ho scritto perché sapevo cosa sarebbe successo, anche se ovviamente non avrei potuto prevederne la portata dopo il 7 ottobre. Ma era perfettamente ovvio quello che sarebbe successo.

A mio parere, l’arma più potente che avete è quella della verità e della giustizia. Non bisogna mai creare una situazione in cui si possa essere messi a tacere sulla base di sentimenti ed emozioni. Se si ascoltano le dichiarazioni di Minouche Shafik, preside della Columbia, si tratta di sentimenti feriti, di paura. L’intero linguaggio ha completamente corrotto il concetto di libertà di parola e di libertà accademica.

Ora avete fatto questa esperienza e speriamo che in futuro quel linguaggio e quei concetti vengano eliminati da un movimento che si descrive come appartenente a una tradizione di sinistra. È una catastrofe completa quando quel linguaggio si infiltra nel discorso di sinistra, come state vedendo ora.

Sarò sincero con voi, e non ho alcuna pretesa di infallibilità – sto semplicemente affermando sulla base della mia esperienza politica: Non sono d’accordo con lo slogan “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera“. È molto facile modificarlo e dire semplicemente “Dal fiume al mare, i palestinesi saranno liberi“. Questa semplice e piccola modifica riduce drasticamente la possibilità di essere fraintesi in modo manipolatorio.

Ma quando ho sentito dire che questo slogan provoca dolore, angoscia, paura, mi sono posto una semplice domanda. Che cosa trasmette lo slogan “Sosteniamo l’IDF“? Le Forze di Difesa Israeliane, in questo momento, sono un esercito genocida. Perché in questo momento è consentito il sostegno pubblico a uno Stato e a un esercito genocidi?

Il linguaggio non sembra così provocatorio: “Sosteniamo l’IDF“. Ma il contenuto è diecimila volte più offensivo e più oltraggioso per qualsiasi mente e cuore, per così dire, civilizzato rispetto allo slogan “Dal fiume al mare“.

L’unico motivo per cui si discute di questo slogan – anche se, come ho detto, non sono d’accordo con esso, ma questo è un discorso a parte se sono d’accordo o meno – è perché abbiamo legittimato l’idea che i sentimenti feriti siano un motivo per soffocare la parola. Per me questo è assolutamente inaccettabile; è del tutto estraneo al concetto di libertà accademica.

Alcuni di voi potrebbero dire che si tratta di una nozione borghese, che è costruita socialmente e tutte le altre stronzate. Non ci credo affatto. Si leggono le più eloquenti difese della libertà di parola, senza ostacoli e senza vincoli, da parte di persone come Rosa Luxemburg, che era, a detta di tutti, una persona straordinaria e una straordinaria rivoluzionaria. Ma essere entrambe le cose non significava che avrebbe accettato qualsiasi limitazione al principio della libertà di parola, per due motivi.

Primo: nessun movimento radicale può fare alcun tipo di progresso se non ha chiari i suoi obiettivi e se non ha chiaro cosa sta facendo di sbagliato. Si è sempre impegnati in correzioni di rotta. Tutti commettono errori. Se non si ha libertà di parola, non si può sapere cosa si sta facendo di sbagliato.

Numero due: la verità non è un nemico per i popoli oppressi, e certamente non lo è per il popolo di Gaza. Quindi dovremmo massimizzare il nostro impegno per la libertà di parola in modo da massimizzare la diffusione di ciò che è vero su ciò che sta accadendo a Gaza – e non permettere alcuna scusa per reprimere questa verità.

Cosa stiamo cercando di ottenere?

State facendo diecimila cose giuste, ed è profondamente commovente ciò che avete ottenuto e realizzato, e il fatto che molti di voi stiano mettendo in gioco il proprio futuro è davvero impressionante.

Ricordo che durante il movimento contro la guerra in Vietnam, c’erano giovani che volevano frequentare la facoltà di medicina – e se venivi arrestato, non andavi alla facoltà di medicina. Molte persone si trovavano a dover scegliere tra l’arresto e la causa. Non era una causa astratta: alla fine della guerra, si stimava che fossero stati uccisi tra i due e i tre milioni di vietnamiti. Era uno spettacolo dell’orrore che si svolgeva ogni giorno.

Le persone erano in difficoltà nel decidere se rischiare il proprio futuro. Molti di voi provengono da contesti in cui è stata una vera e propria lotta arrivare dove siete oggi, alla Columbia University. Perciò rispetto profondamente il vostro coraggio, la vostra convinzione, e ogni volta che ne ho l’occasione riconosco l’incredibile convinzione e tenacia della vostra generazione, che per molti versi è più impressionante della mia, perché nella mia generazione non si può negare che un aspetto del movimento contro la guerra era il fatto che la leva gravava su molte persone.

Si poteva ottenere il rinvio per gli studenti per i quattro anni di università, ma una volta scaduto il rinvio, c’era una buona probabilità di andare laggiù e di tornare in un body bag (letteralmente “sacco per cadaveri” N.d.T).

Quindi c’era un elemento di preoccupazione. Invece voi giovani lo fate per un piccolo popolo apolide dall’altra parte del mondo. Questo è profondamente commovente, impressionante e stimolante.

Con questa premessa, per tornare alle mie osservazioni iniziali: ho detto che ogni movimento deve chiedersi: Qual è il suo obiettivo? Cosa sta cercando di ottenere? Qualche anno fa, “Dal fiume al mare” era uno slogan del movimento. Ricordo che negli anni ’70 uno degli slogan era: “Tutti devono sapere che noi sosteniamo l’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina]” – che non era uno slogan facile da gridare sulla Fifth Avenue negli anni ’70. Ricordo vividamente di aver guardato i tetti e di aver aspettato che un cecchino mi spedisse all’eternità in tenera età.

Tuttavia, c’è una grande differenza quando predichi ai convertiti e puoi gridare qualsiasi slogan che ti piace, perché non ha ripercussioni o riverberi pubblici. Si parla essenzialmente a se stessi. Si allestisce un tavolo nel campus e si distribuisce letteratura sulla Palestina; si possono trovare cinque persone interessate. C’è una grande differenza tra quella situazione e la situazione odierna, in cui si ha un gruppo di sostenitori molto ampio che si può potenzialmente e realisticamente raggiungere.

Dovete adattarvi alla nuova realtà politica: c’è un gran numero di persone, probabilmente la maggioranza, che sono potenzialmente ricettive al vostro messaggio. Capisco che a volte uno slogan è quello che dà spirito a chi è coinvolto nel movimento. Allora bisogna trovare il giusto equilibrio tra lo spirito che si vuole ispirare nel movimento e il pubblico o la circoscrizione là fuori che non fa parte del movimento che si vuole raggiungere.

Credo che si debba esercitare – non in senso conservatore, ma radicale – in un momento come questo, la massima responsabilità di uscire dal proprio ombelico, di strisciare fuori dal proprio ego e di tenere sempre presente la domanda: Cosa stiamo cercando di ottenere in questo particolare momento?

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1 Commento


  • Mirella lo Iacono

    la posizione di Finkelstein riguardo a quanto sta accadendo nei Campus americani, e in particolare sulla equivocità di alcuni slogan, controversi, che prestano facilmente il fianco alle strumentalizzazioni di chi ha ben altri interessi e obiettivi, mi sembra di una saggezza piuttosto rara, ma non.sorprendente per chi è dotato di un minimo di senso critico e cerca di vedere ‘oltre’. La sua sollecitazione ad attivare una strategia comunicativa meno equivoca e più lungimirante, senza farsi sopraffare dalle ferite e dalle paure sia per quanto accade a Gaza che per cultura bellicista che sembra volere prendere il sopravvento su una cultura della pace, se attuata con intelligenza dai movimenti, potrebbe sparigliare il gioco dell’ avversario e trasformarsi in una forza persuasiva e convincente più di quanto non lo sia già adesso.

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