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La farsa dell’ordine basato su regole, quelle di una sola parte del mondo

Sentiamo in continuazione, da parte dei vertici di quei paesi che si autodefiniscono ‘democrazie’ – la filiera euroatlantica e i suoi alleati, in poche parole -, affermare che il loro operato sullo scenario internazionale serve a garantire il mantenimento di un “ordine basato su regole“.

Tramite questa frase, così semplice e così chiara, vengono motivate le posizioni espresse nelle relazioni internazionali dai vertici Nato e alleati. Del resto, chi non vorrebbe regole come fondamenta del proprio mondo? Chi avversa questo ordine ne diviene nemico, e in maniera conseguente nemico di chi lo mantiene.

Ma nel discorso appena fatto, che sembra di una logica inattaccabile, vi sono una serie di ombre, di sottintesi, di opinioni non dette, che se esplicitati mostrano una realtà ben diversa. Non dobbiamo mai pensare che le politiche estere dei paesi possano essere riassunte in semplici frasette buone per gli studi televisivi.

Innanzitutto, non bisogna scambiare “l’ordine basato su regole” con le Nazioni Unite. L’Onu è un’organizzazione nata alla fine della Seconda guerra mondiale e frutto di quel contesto: nonostante l’iniziale ed evidente primazia della filiera Nato, era l’ambito in cui si pensava di poter risolvere le controversie internazionali in forme mediate tra le grandi potenze dell’epoca.

Non ripercorreremo le vicende successive e l’evidente superamento nella realtà, anche se non nel suo statuto, del funzionamento originario (per l’effetto dirompente di fenomeni quali la decolonizzazione, ad esempio). Dobbiamo però dire che “l’ordine basato su regole” non deriva dall’organizzazione che riunisce, in pratica, tutti i paesi del mondo.

Esso è invece espressione di un punto di vista particolare, di parte, e si è anzi costruito fuori e contro il sistema di diritto internazionale che fa riferimento all’Onu. Anche se identificare una data di nascita di un fenomeno storico è sempre una semplificazione, quella di questo “ordine” possiamo indicarla nel 20 marzo 2003.

Quel giorno è partita l’invasione dell’Iraq da parte di una forza internazionale guidata dagli Stati Uniti. Le risoluzioni Onu per Washington non erano ‘sufficienti‘, nonostante l’impressione suscitata a febbraio dall’allora segretario di Stato Colin Powell, che aveva presentato una serie di informazioni e ricostruzioni – false – sulla presenza di armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein.

Solo dopo l’instaurazione dell’occupazione militare l’Onu tornò a parlare di Iraq, ma il suo oltrepassamento da parte degli Usa aveva ormai segnato una ferita insanabile sul suo ordine. E l’affermazione definitiva di quello “basato su regole” che aveva visto i suoi prodromi con le ‘guerre umanitarie‘ degli anni Novanta.

Dunque, questo nuovo ordine è il frutto di scelte di politica estera statunitense, nel trentennio che ha segnato l’essere primus inter pares nella fase dell’unipolarismo. È l’espressione del ruolo che Washington si è dato di “gendarme del mondo“, e in cui quindi le “regole” sono flessibili, sulla base degli interessi strategici degli Stati Uniti.

Questa dottrina ha degli ideatori, e dei politici che dalla riflessione di quei pensatori l’hanno poi tradotta in politiche concrete. In questo brano di John Bellamy Foster, riportato da Le Monde Diplomatique e da noi tradotto, si ripercorre questa storia, cercando di scardinare l’ipocrisia e il doppio standard occidentale.


All’inizio degli anni 2000, negli Stati Uniti è emersa l’idea che le grandi potenze avessero il diritto, anzi l’obbligo morale, di intervenire nei Paesi in crisi. L’uguaglianza di sovranità su cui è stato fondato il sistema delle Nazioni Unite sta diventando una nozione obsoleta, mentre Washington si proclama “sceriffo” del pianeta.

Il “mondo libero” non dice: “Obbeditemi!” Dice: “Rispettate le regole dell’ordine internazionale“. La domanda è: da dove vengono e chi le ha fatte?

Il principale teorico dell'”ordine internazionale basato su regole” è John Ikenberry, professore di scienze politiche e relazioni internazionali all’Università di Princeton e membro del Council on Foreign Relations, il cui lavoro ha avuto una forte influenza sull’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Joseph Biden.

In un famoso articolo del 2004 intitolato “Liberalism and Empire“, Ikenberry – senza negare che il passato e il presente degli Stati Uniti sono stati spesso segnati dalla dominazione imperiale (arrivando a citare grandi storici di sinistra come William Appleman Williams, Gabriel Kolko e Joyce Kolko) – si scaglia contro coloro che negli ambienti della politica estera americana ritengono che gli Stati Uniti debbano comportarsi apertamente come un impero (1).

Ikenberry spiega che una strategia egemonica più efficace consiste nell’utilizzare il momento unipolare per stabilire un ordine internazionale basato su regole che assicuri il dominio globale degli Stati Uniti e dell’Occidente come “fatto compiuto” per il futuro. Anche nel contesto di un declino della potenza statunitense.

Per Hillary Clinton, è essenziale ostacolare l’emergere di un “mondo multipolare” e favorire un “mondo multipartitico“.

Quando l’ascesa storica della Cina è diventata più evidente, Ikenberry ha scritto un altro articolo nel 2008 per la rivista Foreign Affairs: “L’ascesa della Cina e il futuro dell’Occidente“.

In esso insisteva sul fatto che il “sistema capitalistico globalizzato” e l’ordine liberale internazionale occidentale potevano essere preservati solo se l’egemonia diretta degli Stati Uniti avesse lasciato il posto a un ordine basato su regole governato dagli Stati Uniti e dai suoi principali alleati (2). In questo modo, un “ordine egemonico liberale guidato dagli Stati Uniti” sarà garantito a tempo indeterminato, spiega.

Come ha spiegato Hillary Clinton, Segretario di Stato americano tra il 2009 e il 2013, è essenziale ostacolare l’emergere di un “mondo multipolare” istituendo invece un “mondo multipartitico” basato su un insieme di alleanze e partenariati guidati dagli Stati Uniti che garantiranno il continuo dominio di Washington nel XXI secolo (3).

Il dono più grande di tutti

Questa concezione di un ordine basato su regole come mezzo per organizzare una controrivoluzione globale trova un significativo sostegno bipartisan negli Stati Uniti e, in modo più significativo, all’interno del Pentagono.

Il 20 luglio 2017, James N. Mattis (noto come “Mad Dog Mattis“), segretario alla Difesa del presidente americano Donald Trump (2017-2021), ha esposto questo pensiero, rivolgendosi ai segretari di gabinetto e ai capi di stato maggiore:

L’ordine internazionale basato su regole del dopoguerra è il più grande dono lasciatoci dalla più illustre delle generazioni“, ordine che ha presentato evidenziando “l’influenza dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, dei mercati finanziari e dei vari accordi commerciali di cui gli Stati Uniti sono firmatari“, non come incarnazioni del diritto internazionale – e certamente non del sistema delle Nazioni Unite – ma dell’ordine internazionale liberale e strategico dominato dagli Stati Uniti mano nella mano con la NATO (4).

Il concetto di ordine internazionale egemonico basato su regole, secondo Ikenberry, si basa quindi sull’idea di superare il sistema delle Nazioni Unite, fondato sull’uguaglianza della sovranità degli Stati e sul desiderio di vedere l’emergere di un mondo policentrico, che includa Cina e Russia come membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Al contrario, l’ordine internazionale basato su regole mira a codificare i cambiamenti introdotti negli anni ’90, stabilendo la “natura contingente della sovranità“, in modo che le grandi potenze abbiano “il diritto – e persino l’obbligo morale – di intervenire negli Stati in difficoltà per prevenire genocidi e massacri“.

Gli interventi della NATO nei Balcani e la guerra contro la Serbia“, scrive Ikenberry, “sono state azioni decisive in questo senso” (5). La dottrina dell’imperialismo umanitario derivata dal “diritto di proteggere” è diventata così la pietra angolare dell’ordine internazionale basato su regole.

Un concetto limitato di sovranità

Questa nozione di contingenza della sovranità è stata chiarita da Richard Haass, ex assistente del Segretario di Stato per la pianificazione politica sotto il presidente George W. Bush e presidente del Council on Foreign Relations dal 2003.

Egli spiega che l’adozione di una concezione più limitata della sovranità riflette la nuova visione egemonica secondo la quale “la sovranità non è un assegno in bianco.  Al contrario, dovrebbe essere considerata come subordinata all’adempimento da parte di ciascuno Stato di alcuni obblighi fondamentali, sia nei confronti dei propri cittadini che della comunità internazionale. Quando un regime non adempie alle sue responsabilità o abusa delle sue prerogative, rischia di perdere i suoi privilegi sovrani, compreso, in casi estremi, il diritto di non essere soggetto a interventi armati” (6).

Quando si tratta di interventi armati, come Haass ha notoriamente sostenuto altrove, gli Stati Uniti sono lo “sceriffo” autoproclamato dell’ordine internazionale, mentre il resto della triade [Europa e Giappone] è la “pattuglia” (7).

Sebbene gli Stati Uniti si siano recentemente lamentati dell’atteggiamento aggressivo della Cina e del suo emergere come minaccia globale, a causa della sua unica base militare offshore a Gibuti, il numero di basi militari a disposizione di Washington, in qualità di sceriffo del mondo, ammonta a mille, coprendo tutto il mondo. Molte di esse circondano la Cina (8).

Interventi ripetuti

La dottrina dell’ordine internazionale basato su regole è stata utilizzata per giustificare i ripetuti interventi degli Stati Uniti e della NATO e i colpi di Stato sponsorizzati da Washington contro le popolazioni a partire dagli anni ’90 in cinque dei sei continenti abitati – il tutto in nome della difesa della democrazia e dei diritti umani.

Nel suo ultimo libro, Ikenberry sottolinea che “l’internazionalismo liberale“, di cui è il più grande difensore intellettuale, “è coinvolto in interventi militari quasi costanti nell’era del dominio globale americano“, mentre sotto il neoliberismo la sua controparte economica è diventata una mera “piattaforma di regole e istituzioni dedicate alle transazioni capitalistiche“, favorendo invariabilmente i poteri forti (9).

 

(1) John Ikenberry, « Liberalism and empire : Logics of order in the American unipolar age », Review of International Studies, vol. 30, n° 4, Cambridge, 2004.

(2) John Ikenberry, « The rise of China and the future of the West », Foreign Affairs, vol. 87, n° 1, New York, 2008.

(3) Discorso al Council on Foreign Relations, Washington, DC, 15 juillet 2009.

(4) Robert F. Worth, « Can Jim Mattis hold the line in Trump’s war cabinet ? », The New York Times Magazine, 26 mars 2018.

(5) John Ikenberry, Liberal Leviathan, Princeton University Press, 2012.

(6) Citato da John Ikenberry in Liberal Leviathan, op. cit.

(7) Richard Haass, The Reluctant Sheriff : The United States After the Cold War, Council on Foreign Relations Press, New York, 1997.

(8) Kurt M. Campbell et Ely Ratner, « The China reckoning : How Beijing defied American expectations », Foreign Affairs, vol. 97, n° 2, mars-avril 2018.

(9) John Ikenberry, A World Safe for Democracy, Yale University Press, New Haven, 2020.

 

*Sociologo e redattore della Monthly Review. Questo testo è un estratto di “The new cold war on China“, pubblicato su Monthly Review, vol. 73, n. 3, New York, luglio-agosto 2021. Apparso su Le Monde Diplomatique il 7 maggio 2024, e qui riportato con traduzione nostra.

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