La progressista Claudia Sheinbaum è la nuova, e per la prima volta donna, “presidenta” del Messico. Lo scorso 2 di giugno la sua coalizione “Sigamos haciendo historia” (“Continuiamo a fare la Storia”) ha conquistato uno schiacciante 59%, con la forte preminenza del partito “Movimiento regeneracion nacional” (MORENA – movimento di rigenerazione nazionale) di cui è stata una delle fondatrici nel 2011, che da sola supera il 45%. Uno stacco nettissimo dalle coalizioni avversarie, ferme al 28% della oppositrice di centro-destra e filo-USA Galvez Ruiz, e al 10% del centrista Alvarez Maynez.
Se il risultato positivo era atteso, la vittoria della Sheinbaum e della sua coalizione hanno superato ogni aspettativa. Oltre alla presidenza della Repubblica infatti si sono svolte elezioni per la carica di 9 governatori e per i congressi di 31 stati, e per il rinnovo del Senato e della Camera dei Deputati.
La coalizione della presidenta, oltre alla maggioranza alle camere si aggiudica 7 dei 9 governatori con maggioranze che vanno dal 49% dello stato di Morelos fino al bulgaro 81% dello stato di Tabasco e 79% del Chiapas, nonché l’importante governatore di Città del Messico (incarico ricoperto precedentemente proprio da Sheinbaum). Per finire va sottolineato che dai primi dati, con l’affluenza sopra il 60%, il “blocco duro” di supporto alla presidenta è composto dai redditi più bassi, dalla popolazione giovane, dai lavori più umili, ma è generale e trasversale in tutti i settori della società.
Da questi dati “duri e crudi” è necessario ricavare alcune considerazioni. Innanzitutto il risultato delle elezioni premiano non solo la figura della candidata Presidente ma un processo politico progressista che si è andato strutturando a partire dal 2011 fino a conquistare la presidenza della Repubblica nel 2018 per mano di Andrés Manuel López Obrador, il quale conta una lunga e pluridecennale esperienza politica spesa (seppure con varie contraddizioni) ad affermare la sinistra progressista del paese.
Esperienze queste in cui la stessa Sheinbaum, scienziata riconosciuta di Fisica e Ingegneria energetica, si è formata e ha avuto un ruolo di assoluto rilievo, in particolare come governatrice di Città del Messico dal 2018 al 2023. Una credibilità politica quindi costruita negli anni e anche sul campo con la prova della gestione concreta delle istituzioni.
Il risultato rappresenta quindi l’apprezzamento del popolo messicano per quanto fatto e il desiderio di approfondire un processo politico, il cosiddetto “umanesimo messicano”, che ha messo al centro la lotta alla corruzione e al narcotraffico, in un paese in cui le statistiche parlano di circa dai 10000 (diecimila!) ai 30000 (trentamila!) omicidi l’anno legati al controllo del mercato della droga; altro punto importante è il controllo statale di alcuni settori e imprese strategiche specialmente in ambito petrolifero e energetico, così come la creazione ex novo e l’espansione di uno stato sociale minimo e del reddito, che ha prodotto risultati parziali ma di assoluto rilievo: uno fra tutti l’uscita di 5 milioni di persone dalla povertà assoluta durante il mandato di Obrador.
Le politiche della stessa Sheinbaum come governatrice della Capitale hanno avuto effetti tangibili: una riduzione drastica del rischio per le donne di subire violenza e dei femminicidi e in generale degli omicidi legati al controllo e al traffico di droga, un ampiamento notevole dell’accesso alle borse di studio e il rifinanziamento della rete educativa, l’inaugurazione di nuove scuole e di tre università pubbliche; il rilancio delle infrastrutture dei trasporti e la diminuzione dell’inquinamento in un area densamente popolata e con gravi problemi ambientali.
“Per il bene di tutti, prima i poveri” è uno degli slogan di Obrador e Sheinbaum che riassume la concezione dell’”umanesimo messicano”, in cui si coniuga la volontà di spingere lo sviluppo economico su binari capaci di incontrare lo sviluppo sociale e ambientale con un consenso il più ampio possibile e che parta dai bisogni delle fasce più deboli della popolazione.
Un programma che aveva incontrato più di un ostacolo durante il mandato di Obrador soprattutto per la mancanza di una maggioranza sufficientemente ampia e ora conquistata al Senato e alla Camera, dove diverse necessarie riforme costituzionali erano state bloccate dall’opposizione conservatrice e reazionaria, e che ora potrebbero venire portate a termine dalla presidenta.
Certo è un processo non privo di contraddizioni e di ostacoli, un nuovo banco di prova per l’ondata progressista latinoamericana, che in Messico ora viene nuovamente premiata ma dovrà dimostrare concretamente di essere all’altezza di quanto promesso e di portare a termine quelle riforme iniziate e non concluse durante il mandato precedente.
Per il suo peso specifico il Messico ha un ruolo di primo piano nel continente, sia in termini di popolazione con quasi 130 milioni di abitanti che economico (terzo in entrambe le classifiche dopo Brasile e USA).
Non solo, ma la geografia assegna al paese il ruolo di confine con “l’impero” USA, con il quale ci sono diversi dossier aperti che vanno dall’emigrazione degli stessi messicani, al controllo delle frontiere e delle rotte migratorie attraversate da decine di migliaia di latinoamericani verso il Nord America che si snodano nei deserti al nord del Messico, con i casi di cronaca che sono stati riportati sulla stampa anche in Europa e che costituiscono un elemento di campagna elettorale fra Trump e Biden; non da ultimo il traffico e i cartelli della droga e l’ingerenza delle agenzie di intelligence nordamericane, così come i rapporti economici fra i due paesi.
Per inquadrare il risultato occorre fare una ultima considerazione. L’ondata progressista che investe il Messico non è un “fulmine a ciel sereno”. Come abbiamo documentato da sempre sul nostro giornale, in America Latina, nel (ex) “giardino di casa” degli Stati Uniti, si svolge da decenni una lotta senza quartiere fra “socialismo e barbarie”. Seppure con un percorso accidentato, la prospettiva inaugurata da Chavez in Venezuela e da Evo Morales in Bolivia e con l’esempio di Cuba socialista ha dato i suoi frutti, e a tutt’oggi la partita sembra lontana dall’essere chiusa e anzi vede una nuova avanzata delle forze del cambiamento.
Un processo che ha al centro prima di tutto la lotta all’imperialismo e alle regole economiche e sociali del neoliberalismo; in secondo luogo la difesa e l’emancipazione delle fasce più svantaggiate della popolazione (donne, indigeni, contadini); il recupero della sovranità sulle proprie risorse in materie prime e la difesa del patrimonio naturale; la costruzione di nuove alleanze politiche, economiche e diplomatiche internazionali (vedi BRICS) e di rapporti paritari con i diversi blocchi economici.
Il Messico si conferma così come il Brasile di Lula, la Colombia di Petro e il Venezuela di Maduro, uno degli attori più importanti del fronte progressista. Le difficoltà da affrontare sono parecchie: Petro è alle prese con una maggioranza risicata che rallenta i processi riformatori, mentre il Venezuela è sottoposto a una violentissima guerra economica. Nel tempo si sono susseguiti con esiti diversi tentativi di colpi di stato (Guaido appunto in Venezuela), di “golpe bianco” come nel caso di Morales in Bolivia e Castillo in Perù, ribaltoni elettorali come quello di Bolsonaro in Brasile e oggi di Milei in Argentina, accompagnati da una violenta repressione e dalle tentazioni militariste che riecheggiano le dittature militari del ‘900.
Eppure pare che nel nuovo mondo multipolare l’ipotesi progressista latinoamericana, seppur sottoposta a sempre maggiore pressione da parte degli USA, trovi uno spazio e nuove alleanze internazionali che la rafforzano, con una spinta popolare indispensabile e che non accenna a diminuire. Una boccata d’aria per le forze di classe e un esempio per i popoli e che può avere un ruolo importante nella nuova architettura internazionale.
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