Il Royal Institute of International Affaires, più diffusamente noto come Chatham House, è un think tank britannico, tra i più rinomati per le sue analisi geopolitiche ed economiche. Ed è assolutamente vicino ai centri di potere occidentali.
L’istituto opera sotto il patrocinio della corona del Regno Unito, e ai suoi vertici sono previsti tre presidenti, per rappresentare i principali orientamenti politici nel regno.
Oggi, ad esempio, vi sono un ex direttrice dell’MI5 (i servizi segreti interni), un ex governatore della Banca d’Inghilterra e l’ex primo ministro John Major ne è presidente emerito.
È difficile quindi immaginare simpatie per quello che l’imperialismo euroatlantico ha designato come l’avversario strategico per eccellenza, ovvero la Cina.
Eppure, in genere è proprio da questo tipo di gruppi che ci si può aspettare una riflessione ripulita da ogni propaganda, che invece devasta l’informazione occidentale.
Oltre un anno fa, il Chatham House metteva in guardia sul debito del Kenya, ma si prodigava anche nel ridimensionare il peso dei prestiti contratti con Pechino rispetto a quelli con creditori che rispondono alla filiera occidentale.
Il think tank evidenziava già allora come l’Eurobond che è stato poi indirettamente all’origine delle proteste abbia anche impedito di alleggerire i costi degli interessi sul debito. Portando infine alla sfiducia delle istituzioni finanziarie occidentali e ai programmi promossi dal FMI.
Certo, i finanziatori cinesi sono pur sempre finanziatori, e alla fine se prestano vogliono riavere indietro i soldi. Non mancano dunque le accuse al male incarnato, ovvero la pericolosa Cina comunista, ma è reso chiaro che il circolo vizioso del debito è stato alimentato dall’Occidente.
Ma del resto, è stato lo stesso FMI che, in un rapporto del novembre del 2023, metteva nero su bianco il fatto che il debito verso la Cina non sia stato il principale contributore all’aumento del debito pubblico nella regione subsahariana negli ultimi 15 anni, e che la Cina è stata invece un attore chiave nelle recenti ristrutturazioni del debito, fornendo il 63% delle sospensioni del debito nel 2020 e 2021.
Insomma, dal Chatham era arrivato largamente in anticipo l’annuncio di come le politiche imposte a Nairobi dalle nostre centrali imperialiste avrebbero scatenato la protesta di massa. Che il FMI aveva invitato a ignorare, a dimostrazione di quanto viene tenuto di conto il dissenso popolare alle nostre latitudini.
Riportiamo l’analisi di Fergus Kell, con traduzione nostra. Essa fornisce utili informazioni per comprendere come la trappola del debito sia uno strumento perfezionato negli anni dall’Occidente per strozzare il “Sud Globale“.
A dispetto delle recenti affermazioni (maggio 2023, ndr) secondo cui un team di hacker legato allo stato cinese avrebbe eseguito attacchi informatici sistematici alle istituzioni governative keniote, denunciati dal ministero dell’Interno come “propaganda sponsorizzata“, il debito del Kenya nei confronti della Cina è nuovamente sotto esame, poiché i presunti attacchi sarebbero stati motivati dal desiderio di valutare lo stato dei rimborsi.
È vero che i prestiti da parte della Cina sono aumentati nei primi anni dell’amministrazione Uhuru Kenyatta, dal 2013 al 2022 – mentre l’attuale presidente William Ruto ricopriva la carica di vice –, dominati da 5,3 miliardi di dollari in tre prestiti della China EXIM Bank per la costruzione di un ponte ferroviario a scartamento normale (SGR) che collegherà il porto di Mombasa con la capitale Nairobi.
Il timore tra i media e l’opinione pubblica keniota è stato che il porto strategico di Mombasa fosse posto a garanzia per questi prestiti, alimentando le accuse secondo cui la Cina indulgesse nella “diplomazia della trappola del debito” sia in Kenya sia in tutto il continente – e i rapporti sulle operazioni di hacking rischiano di riaccendere questa controversia sui prestiti cinesi.
I rapporti sono emersi proprio mentre il governo keniota tenta di imporre misure di austerità impopolari per gestire una crescente crisi di rimborso del debito. Anche se i prestiti cinesi sono consistenti, questa è solo una parte della storia.
I prestiti cinesi sono solo uno dei problemi
Con un ammontare di 6,3 miliardi di dollari a marzo 2023 secondo i dati del Tesoro, i prestiti cinesi rappresentano circa il 64% dell’attuale stock di debito estero bilaterale del Kenya e solo il 17% del debito pubblico estero totale. Il prestito da istituti multilaterali è quasi il doppio del totale di quello bilaterale, con la Banca Mondiale che è il più grande creditore esterno del Kenya.
La ricerca di Chatham House sulla crisi del debito in Africa e sui prestiti cinesi mette in luce il caso di studio del Kenya, che dimostra come i reclami per la trappola del debito si basano in gran parte su un’interpretazione errata della struttura e dei termini dei prestiti, che non comportano il diritto di sequestrare il porto di Mombasa in caso di inadempienza.
Non bisogna inoltre sottovalutare il contributo dei prestiti commerciali esteri nei riguardi del problema del debito del Kenya, soprattutto perché l’attuale corsa alla liquidità dell’amministrazione Ruto è in gran parte concentrata su un Eurobond da 2 miliardi di dollari, in scadenza a giugno 2024.
Questo imminente rimborso è stato un fattore decisivo nel far sì che dal 2020 le previsioni economiche del FMI e della Banca Mondiale per il Kenya indicassero un superamento della soglia per essere classificato ad alto rischio di dissesto del debito, nonostante l’onere complessivo del debito del Kenya fosse giudicato sostenibile.
Il Kenya ha anche concordato una serie di costosi prestiti sindacati durante la frenesia dei prestiti dell’ultimo decennio, consegnandogli pesanti costi di servizio da pagare. Dal luglio 2022 al marzo 2023, il servizio del debito sui prestiti commerciali e i prestiti della SGR alla Cina è stato simile, rispettivamente a circa 850 milioni di dollari e 800 milioni di dollari.
Il Kenya esposto a pressioni che vanno oltre il suo controllo
Kristalina Georgieva, direttrice del FMI, ha descritto il Kenya come uno “spettatore innocente” di fronte agli shock esterni, alle notevoli pressioni che deve affrontare da parte di finanziatori esteri come la Cina, e alla sua posizione all’interno di un ambiente finanziario globale instabile.
I prestiti SGR cinesi sono denominati in dollari e due hanno tassi di interesse variabili, fissati al 3,6 o al 3% in più rispetto alla media del LIBOR (London Interbank Offered Rate). La stretta monetaria globale e l’indebolimento dello scellino keniota hanno aumentato l’onere del loro servizio dopo la scadenza dei periodi di grazia iniziali sui rimborsi del capitale.
Sia i finanziatori cinesi che quelli commerciali hanno esercitato un’influenza limitante sulla strategia complessiva di gestione del debito del Kenya. I timori che una clausola sugli Eurobond del Kenya potesse far risultare qualsiasi riduzione del debito come default – innescando potenzialmente un richiamo completo del prestito – hanno inizialmente impedito al Kenya di accedere all’Iniziativa del G20 per la sospensione del servizio del debito (DSSI) nel 2020.
Quando il Kenya alla fine ha aderito alla DSSI, il suo pieno impatto è stato limitato alla prima metà del 2021 poiché la Cina ha rifiutato unilateralmente qualsiasi proroga oltre tale data.
Con i paesi africani di fatto esclusi dai mercati internazionali nelle attuali condizioni globali, il Kenya sta tornando con riluttanza a costosi prestiti sindacati per integrare gli afflussi dal FMI e dalla Banca Mondiale nel colmare il divario degli Eurobond del 2024, mentre si destreggia con altri programmi per affrontare le pressioni sui cambi a breve termine, così come per un credito petrolifero.
Aggravando la mancanza di flessibilità della Cina, il tanto ambito accesso al mercato del Kenya è riuscito a rappresentare insieme un ostacolo agli aiuti e a renderlo allo stesso tempo spesso inaccessibile, quando necessario.
L’emergenza debitoria è causata da decisioni nazionali inadeguate
Sebbene il rimborso dei prestiti della SGR sia stato oneroso, ci sarebbe dovuta essere una preoccupazione molto maggiore per i costi di costruzione gonfiati della ferrovia e la sua sostanziale incapacità di generare entrate, nonostante l’intervento del governo per imporre il traffico delle merci.
Questa è un’eredità del pessimo processo decisionale keniota e di un processo di pianificazione guidato più da esigenze elettorali a breve termine che da esigenze strategiche. I prestiti cinesi sono stati una componente dell’impennata dei prestiti sotto l’amministrazione Kenyatta che ha visto il rapporto debito/PIL del Kenya salire dal 42 al 69% tra il 2013 e il 2020.
Il consolidamento fiscale volto ad affrontare la conseguente pressione del debito e a mantenere il sostegno del FMI è stato una caratteristica distintiva dei primi nove mesi in carica dell’amministrazione Ruto, con la rimozione dei sussidi governativi su cibo e carburante ora (maggio 2023, ndr) affiancata dalla proposta di aumenti fiscali.
Tali misure si stanno rivelando profondamente impopolari tra i cittadini del Kenya, già provati dalla pressione dell’elevata inflazione e dalla svalutazione della moneta, e molti hanno cercato di evidenziare una disparità con la riluttanza del governo a ridurre le proprie spese e gli sprechi, in particolare un sistema di gonfiamento delle spese attraverso delle nomine.
Limitare la dissolutezza del governo darebbe ulteriore credibilità alla condanna di Ruto di un sistema finanziario globale che dice “non è riuscito a rispondere alle esigenze delle economie emergenti“.
Sebbene le segnalazioni di hackeraggio rafforzino l’immagine della Cina come un creditore spietato e autoritario nei confronti dell’Africa (e con qualche giustificazione), i problemi di debito del Kenya non iniziano e finiscono con i finanziamenti cinesi.
Le controversie sulla Cina non dovrebbero oscurare il modo in cui le strutture del sistema finanziario globale e le dinamiche della governance nazionale interagiscono per determinare l’emergenza debitoria, sia in Kenya che altrove.
Con un importante vertice in arrivo sulle questioni finanziarie nel prossimo giugno (2023, ndr) a Parigi, Ruto deve cogliere ora l’opportunità per convincere i paesi africani e le altre economie emergenti a lavorare insieme per trovare risposte più sistemiche alle loro lotte per il debito.
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