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Le radici di un genocidio racchiuse in un sondaggio

Sentiamo troppo spesso dire che quello a cui stiamo assistendo in Palestina non è un genocidio. Perché “Israele è una democrazia”, perché abbiamo imparato l’orrore della pulizia etnica, perché ciò significherebbe che milioni di persone stanno legittimando questo crimine.

Almeno per ciò che riguarda l’ultimo punto, ci ha pensato un think tank affiliato all’università di Tel Aviv, l’Institute for National Security Studies, a mettere in chiaro che sta già avvenendo. Un suo sondaggio ha evidenziato dati preoccupanti rispetto alle opinioni degli israeliani.

Le domande dell’istituto, rivolte agli ebrei israeliani, sono state diverse. Innanzitutto, è stato chiesto come si dovrebbe procedere nei confronti dei militari arrestati a fine luglio per la violenza sessuale di un detenuto palestinese (di certo non l’unico caso segnalato).

Su vari media le proteste in difesa dei soldati sono state presentate come la risposta di frange estremiste (hanno rappresentanti al governo, ma tant’è). Il sondaggio ha registrato che il 65% degli intervistati crede che debbano subire solo delle misure disciplinari a livello del comando militare.

In sostanza, non devono affrontare la giustizia per aver commesso un crimine contro la persona, ma devono solo rispondere di non aver rispettato le regole dell’esercito. Non è difficile capire da dove arrivasse la legittimazione delle manifestazioni dell’estrema destra sionista.

La domanda successiva chiedeva se Israele dovesse rispettare le norme internazionali e valori morali in guerra. Da un paese della filiera di quei paesi che si richiamano continuamente a un non ben identificato “sistema basato su regole“, la risposta dovrebbe essere scontata.

Invece, il 47% degli ebrei israeliani afferma che i militari non hanno l’obbligo di rispettare questi vincoli, e più del 10% è indeciso. Stiamo dunque parlando di una realtà in cui la maggioranza della popolazione sta già sostenendo l’opportunità di commettere un genocidio.

Altre due domande riguardavano l’atteggiamento da tenere verso l’esterno. In entrambi i casi, oltre la metà degli intervistati ha sostenuto la necessità di iniziare operazioni militari sia contro Hezbollah sia contro l’Iran, a costo di iniziare un conflitto regionale.

Interessante notare che, comunque, l’ultima domanda ha mostrato come la maggiore preoccupazione tra i sionisti siano le tensioni socio-religiose interne. Quando crei una comunità fondata sul sopruso e la lanci in uno stato di guerra continuo, essa viene erosa dall’interno.

Quello che spesso si scorda, quando si parla della cultura dominante in un gruppo di persone, è che la società non è uno sfondo neutro su cui si scontrano visioni differenti di mondo. Una società è il frutto di questo scontro, dei processi storici messi in moto da soggetti collettivi.

Per questo non ci si può sorprendere che non basti rispettare qualche diritto civile e votare una volta ogni cinque anni, per cancellare le correnti più reazionarie. Si può essere democratici (secondo l’accezione occidentale) e intanto nutrire i sentimenti peggiori.

Se poi sei Israele, questa situazione arriva ai suoi estremi. L’intera società israeliana, la ragione stessa dell’esistenza dello stato di Israele, è il colonialismo d’insediamento, il suprematismo bianco mischiato a un progetto etnico-religioso, e dunque costitutivamente razzista.

Non significa che non esistano israeliani che hanno tagliato i legami con questa eredità, magari anche in gruppi relativamente numerosi. Ma il tema rimane che il sionismo è sostanzialmente questo, e la società israeliana nel suo complesso ne è lo specchio.

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