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Dall’Irgun ai coloni israeliani di oggi, l’obiettivo è scacciare i palestinesi

Il 25 aprile 1948, alle prime luci del giorno, la milizia ebraica di destra Irgun lanciò un attacco su vasta scala contro Giaffa. Cannonate incessanti che gli inglesi, ormai vicini alla fine del Mandato sulla Palestina, fermarono solo tre giorni dopo.

Troppo tardi per impedire che i miliziani dell’Irgun – responsabili pochi giorni prima dell’attacco contro il villaggio palestinese di Deir Yassin (tra 200 e 250 morti) e due anni prima del sanguinoso attentato al King David di Gerusalemme (91 morti) -, agendo poi in coordinamento con l’Haganah (l’embrione delle future forze armate israeliane), riuscissero a catturare Giaffa e i villaggi circostanti.

A guidare l’attacco, passato alla storia come Operazione Hametz, c’era anche Amichai Paglin che diede ai suoi uomini ordini inequivocabili: combattere e causare caos tra la popolazione civile al fine di innescare una fuga di massa. E così andarono le cose.

La popolazione fu cacciata via o scappò in preda al panico. Giaffa, destinata a essere una enclave araba all’interno dello Stato ebraico, secondo il piano di partizione della Palestina del 1947, sarebbe poi diventata un sobborgo di Tel Aviv.

Non sono poche le similitudini tra gli attacchi dell’Irgun di più di 70 anni fa e quello compiuto nella notte tra giovedì e venerdì della scorsa settimana da coloni e militanti dell’estrema destra israeliana a Jit, nei pressi di Qalqiliya, in Cisgiordania.

Oltre cento uomini, molti armati di mitra M-16, con il volto coperto e con abiti scuri, hanno invaso il villaggio giungendo da sette direzioni diverse, seguendo un piano ben studiato: alcuni gruppi hanno dato fuoco a case e auto palestinesi, altri hanno lanciato pietre contro le finestre di varie abitazioni, altri ancora hanno sparato colpi d’arma da fuoco.

Rashid Al Seda, 23 anni, è stato raggiunto da due proiettili ed è morto in pochi minuti. Un altro abitante è stato ferito gravemente.

Un pogrom per terrorizzare i 3mila palestinesi di Jit, per spingerli ad andare via. «Ci urlavano di lasciare subito le nostre case e di andare nei paesi arabi», ricorda Muawiya al Seda, un parente della vittima. «Non capisco perché siano venuti ad aggredirci – aggiunge – qualcuno ha detto che i nostri giovani avevano lanciato pietre alle auto israeliane di passaggio ma noi non ne sappiano nulla».

L’attacco a Jit, che ha ricordato quello di un anno e mezzo fa ad Huwara (Nablus), è stato condannato da più parti in Israele. Dal premier Netanyahu al capo dello Stato Herzog, dai leader dei coloni al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno dei più accaniti sostenitori della colonizzazione ebraica della Cisgiordania, che vive in un insediamento coloniale a pochi chilometri dal villaggio palestinese.

Il giornale Haaretz ha denunciato l’atteggiamento delle truppe israeliane giunte sul posto che sono rimaste a guardare quanto accadeva davanti ai loro occhi, intervenendo con ritardo dopo l’uccisione di Rashid Al Seda.

«Non lasciamoci ingannare dalle condanne dei politici» avverte Dror Ektes, un ricercatore che svolge un costante monitoraggio delle colonie e della loro espansione in Cisgiordania. «Il motivo di quelle insolite condanne – spiega Ektes – da parte di coloro che sostengono apertamente i coloni in tutti i modi, come il ministro Smotrich, è il timore che gli Usa e l’Europa adottino altre sanzioni contro la colonizzazione e che i procedimenti in corso davanti alle Corti internazionali dell’Aja possano arricchirsi di altri argomenti a danno di Israele».

Dal 7 ottobre, gli attacchi dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania si sono moltiplicati: 1.250 negli ultimi dieci mesi secondo le Nazioni Unite, 25 solo nella scorsa settimana.

Si concentrano nel distretto di Hebron, specie nella parte meridionale, tra Ramallah e Nablus e nella valle del Giordano. Quello contro Jit ha però segnato un cambiamento, una svolta. Se altri sono stati spiegati come «punizioni collettive» dopo l’uccisione e il ferimento di coloni, questo, dicono i palestinesi, ha avuto lo scopo principale di «terrorizzare la popolazione», per spingerla a lasciare il villaggio.

Le terre di Jit fanno gola a chi, dentro e fuori dal governo Netanyahu, pianifica una ulteriore espansione delle colonie intorno a Qalqiliya.

Si teme che a Jit abbia visto la luce una nuova milizia, tenendo conto della pianificazione nei minimi dettagli dell’attacco e del comportamento degli aggressori che ha ricordato le azioni dell’Irgun per scacciare gli abitanti di villaggi palestinesi situati in aree ritenute strategiche.

«Non so se quanto visto la scorsa settimana sia il frutto dell’azione di una milizia che si ispira all’Irgun, però l’ideologia è quella e l’obiettivo dei coloni, ora come allora, è quello di rendere impossibile la vita dei palestinesi», dice Zvi Stahl, direttrice di Yesh Din, ong dei diritti umani che documenta le azioni violente dei coloni in Cisgiordania.

«L’intimidazione è il tratto distintivo della strategia dei coloni» aggiunge «e la subiscono anche gli attivisti israeliani e internazionali. E dagli avvertimenti si passa alla violenza».

Ad accentuare il comportamento da miliziani dei coloni è stata anche la decisione presa dall’esercito dopo il 7 ottobre di inquadrare 5mila riservisti che vivono nelle colonie in reparti militari incaricati di garantire la «sicurezza territoriale».

Aiutati anche dalla divisa, i coloni armati operano in piena libertà e in diverse capacità, come individui ​​che possiedono pistole a membri di squadre di sicurezza all’interno di battaglioni di difesa regionale.

* da il manifesto

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