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E von der Leyen prepara un piccolo golpe nella UE

L’Unione Europea, così come è stata costruita, non regge la competizione internazionale, né con la Cina né con gli Usa. Dopo l’inizio delle guerra in Ucraina, la distruzione del gasdotto North Stream e le sanzioni alla Russia (che hanno azzoppato soltanto le aziende europee che avevano sviluppato i rapporti con Mosca) la situazione è precipitata senza che nessuno dei poteri e dei “piloti automatici” riuscisse ad arrestare una frana che diventa ogni giorno più grande.

Il “rapporto Draghi” ha fotografato questa situazione suggerendo correzioni così drastiche (centralizzazione del debito, investimenti pubblici comuni, selezione dei settori industriali da privilegiare, meccanismi istituzionali da riscrivere, ecc) che servirebbe una straordinaria stagione di dibattito pubblico per costruire intorno a quel progetto (o altro con le stesse dimensioni strategiche) un consenso sufficiente a garantire che non ci siano terremoti sociali incontrollabili. Compito difficile, per chi predica neoliberismo e austerità di bilancio, ma comunque necessario se non si vuol rischiare il fallimento.

La strada scelta dalla Commissione Europea sotto la guida di Ursula von der Leyen è invece quella – solita – dell’imposizione senza discussione.

Un documento programmatico interno, di cui è entrato in possesso la testata Politico (statunitense, non “putiniana”), è abbastanza dettagliato – circa le linee evolutive – da non lasciare molto spazio alle interpretazioni minimizzanti.

L’idea principale è che Bruxelles imporrà condizioni molto più severe rispetto ai bilanci precedenti. Secondo il testo, circa 530 programmi attualmente in vigore per ogni Paese dell’UE saranno riuniti in un’unica cassa nazionale, che determinerà la spesa in settori che vanno dai sussidi agricoli all’edilizia sociale.

In pratica Ursula von der Leyen sta definendo il modo in cui intende fare pressione sui Paesi affinché attuino “riforme economiche fondamentali” se vogliono accedere alla cassa settennale da 1.200 miliardi di euro dell’UE. Sequestrando appunto le fonti di bilancio che fin qui avevano garantito una distribuzione dei fondi al tempo stesso “austera” ma “attenta alle esigenze” dei diversi paesi.

Per capirci. “Il cambiamento più importante rispetto alle regole attuali è che i Paesi riceveranno i fondi solo se attueranno le riforme preferite da Bruxelles.

Il meccanismo decisionale per riuscire nel sequestro è piuttosto semplice e ruvido: il documento prevede un “gruppo direttivo ad hoc che gestirà il processo di bilancio. Questo sarà composto dalla von der Leyen, dal Dipartimento del Bilancio e dalla Segreteria Generale, che opera sotto la diretta autorità del Presidente”.

I vicepresidenti (tra cui Raffaele Fitto, la cui nomina era stata venduta da Giorgia Meloni come un riconoscimento della “centralità italiana in Europa”) e gli altri Commissari potranno essere coinvolti di volta in volta, ma come semplici “ospiti”.

La materia concreta del contendere è composta dai circa 530 programmi attualmente in vigore per ogni Paese dell’UE, che saranno riuniti in un’unica cassa nazionale, che determinerà la spesa in settori che vanno dai sussidi agricoli all’edilizia sociale. Un bottino che vale 1.200 miliardi e da cui non uscirà un centesimo se non in cambio di “riforme” ad hoc, unitarie nello spirito neoliberale ma ovviamente graduate sulle caratteristiche – o la distanza del modello ideale – dei singoli paesi.

Il rapporto tra voci di finanziamento e “riforme” sembra però decisamente aleatorio. Uno dei pochi esempi fatti nel documento riguarda per esempio il fatto che “i Paesi dovranno affrontare il divario di genere per ricevere fondi per l’edilizia sociale o promuovere l’agricoltura biologica per accedere ai finanziamenti agricoli”. Un collegamento così improbabile – specie in questi due settori il divario di genere è tra i più consistenti, per ragioni storiche e produttive piuttosto evidenti – da garantire una opposizione feroce, purtroppo declinata in senso profondamente reazionario e passatista.

Abbiamo dunque davanti la prospettiva di un duro scontro sociale che allargherà a dismisura lo spazio per le destre nazifasciste e nazionaliste, oltretutto impazzite sul piano strategico dal fatto di dover sostenere la logica di impresa ultraliberista, i sogni di impossibile ripristino della “sovranità nazionale” all’interno di quella logica e l’ostilità per qualsiasi cambiamento dipinto – solo dipinto, naturalmente – come un “fattore di progresso”.

Ma c’è da sottolineare anche il dato propriamente istituzionale. L’accentramento del potere politico – e il controllo del bilancio è il più politico dei poteri – in pochissime mani avviene a dispetto di ogni pretesa di “democraticità” e persino di “trasparenza”.

Per di più questa centralizzazione – se passerà in questa forma, cosa di cui si può dubitare – arriva al termine di processi decisionali sempre più distanti da qualsiasi legittimazione popolare. Il voto per il cosiddetto “parlamento europeo” è servito solo a definire un arco di maggioranza che però non ha definito la selezione dei Commissari (indicati dai singoli governi ma utilizzati e posizionati da von der Leyen senza ulteriori confronti). Le biografie politiche dei singoli “ministri” presentano perciò molte eccezioni rispetto all’impianto che si vorrebbe “liberale”.

Ma anche questa composita pattuglia di personaggi non eletti – “nominati” – è a sua volta bypassata da un potere “misterioso” che muove le scelte politiche anche in contrasto con i paesi “forti” dell’Unione (vedi il voto contrario della Germania ai dazi sulle auto cinesi, ma che verranno comunque imposti dalla Commissione motu proprio). Per comodità, è il potere dei “mercati”, ovvero dei grandi gruppi industriali e soprattutto del capitale finanziario.

La narrazione che dipinge il “giardino occidentale” come il tempio della “democrazia” contrapposto alle “dittature” sta giungendo al capolinea finale. “Avevamo scherzato”, ci diranno un giorno o l’altro. “Non diteci che ci avevate creduto…

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