Il primo novembre il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha inviato una lettera all’ONU, richiedendo l’embargo di armi verso Israele. Lo ha annunciato il politico di Ankara qualche giorno fa, a Gibuti, durante la terza conferenza ministeriale di revisione del partenariato Turchia-Africa.
Il testo si rivolge a “tutti i paesi per fermare la vendita di armi e munizioni a Israele“, perché farlo “significa partecipare al suo genocidio“. La lettera è stata firmata da ben 52 paesi, dalla Lega Araba e dall’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), che insieme rappresentano dunque una platea molto più ampia di stati.
La richiesta è stata rafforzata anche dalle parole di Ahmet Yildiz, rappresentante permanente della Turchia presso l’ONU. Egli ha criticato gli attacchi israeliani ai caschi blu in Libano e ha anche accennato al fatto che la legislazione contro l’UNRWA “è una chiara violazione degli obblighi di Israele sotto la legge internazionale“.
Questa lettera segue le dichiarazioni fatte da Erdogan a metà ottobre, nelle quali si era già rivolto alle Nazioni Unite chiedendo di imporre l’embargo sui prodotti bellici diretti in Israele. Molto pragmaticamente, aveva sottolineato come questa fosse una soluzione concreta per porre fine alla guerra a Gaza.
La preoccupazione espressa dal presidente turco riguardava l’escalation promossa dai sionisti, che va coinvolgendo tutto il Medio Oriente. Erdogan aveva affermato che Israele sta diffondendo “le fiamme del conflitto” in tutta la regione, aggiungendo in maniera molto minacciosa che “pagherà il prezzo per questo genocidio“.
Ovviamente non mancano le vergognose contraddizioni nell’operato turco. Il petrolio azero usato dai sionisti nel loro sforzo bellico continua a essere imbarcato nella provincia anatolica di Adana, e il divieto di commerciare con Israele annunciato a maggio è aggirato attraverso il controllo (israeliano) della dogana dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha rivelato Middle East Eye a settembre.
Anche se non ci si può di certo aspettare che questa iniziativa passi dall’inchiostro alla realtà, vi sono alcuni elementi da porre in risalto, perché segnalano il fatto di come siamo ormai ben oltre l’unipolarismo euroatlantico. E c’è innanzitutto proprio il protagonismo di alcuni attori regionali come la Turchia.
All’incontro a Gibuti erano presenti i rappresentanti di 14 stati africani, e Fidan ha chiesto loro di rafforzare il sostegno diplomatico alla causa palestinese: ha insomma invitato a rendere la questione un affare politico globale, come successe con l’apartheid sudafricana. Inoltre, la lettera inviata all’ONU, stando alle dichiarazioni, è stata un’iniziativa di Ankara.
Sempre affidandosi alla lista di paesi firmatari fornita da Anadolu, agenzia di stampa di proprietà del governo turco, tra di essi ci sono ovviamente Cina, Russia, Iran, Cuba, Venezuela. Ma sono presenti anche tradizionali alleati mediorientali degli Stati Uniti, come l’Arabia Saudita e la Giordania, e persino la Norvegia.
Infine, e soprattutto, il luogo in cui Erdogan ha raccolto il primo appoggio alla stesura del documento inviato alle Nazioni Unite è stato quello del summit BRICS di Kazan, chiusosi un paio di settimane fa. Un consesso che manca di collante ideologico e direzione politica unitaria, ma che palesa come può essere terreno di una diplomazia alternativa a quella occidentale.
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