Le nomine annunciate da Trump per la sua amministrazione (soprattutto Mike Waltz come Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Marco Rubio come Segretario di Stato) avevano subito dato conferma che il tycoon avrebbe continuato a tenere una linea dura rispetto all’Iran. E dunque il massimo sostegno a Israele come avamposto imperiale in Medio Oriente.
Ora il Financial Times ha diffuso la notizia, grazie a una “fonte della Sicurezza Nazionale”, che alcuni ordini esecutivi sono già pronti per essere firmati, non appena avvenuto l’insediamento alla Casa Bianca. Le misure sono pensate per “ripristinare una strategia di massima pressione per mandare in default l’Iran il prima possibile“.
Un tema sul piatto rimane la necessità di trovare un’intesa sul nucleare, dopo che Trump ha stracciato unilateralmente l’accordo siglato nel 2015, con soddisfazione dei sionisti. Alcuni funzionari israeliani e statunitensi, tra l’altro, hanno dichiarato che nell’attacco di ottobre Tel Aviv ha distrutto un centro di ricerca nucleare.
Teheran ha deciso di non commentare la notizia, mentre nelle ultime settimane si siano rincorse le analisi sui media statunitensi riguardo al fatto che la Repubblica islamica sia a poche settimane o mesi dal cominciare i test per un’arma atomica.
Intanto, il suo ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, ha affermato in un’intervista alla televisione di stato che esiste una possibilità di riaprire dei negoziati, ma si tratta di “un’opportunità limitata“: ovviamente, in relazione alle azioni che intraprenderanno le potenze occidentali.
Su questo, la “massima pressione” che vorrebbe praticare Trump fa capire come la finestra accennata dagli iraniani sia da considerarsi forse impercorribile. A cominciare dall’implementazione di maggiori sanzioni sul petrolio, le cui esportazioni sono vitali per Teheran.
Il quadro economico e geopolitico non è però più quello del 2017, quando Trump arrivò per la prima volta nello Studio Ovale. All’epoca, oltre un terzo del greggio iraniano era diretto verso stretti alleati di Washington e solo il 26% in Cina, mentre oggi quest’ultima percentuale è salita al 91% (il resto è importato da Siria e Venezuela). Le eventuali sanzioni supplementari, insomma, avrebbero un effetto economico pari a zero.
Inoltre, le esportazioni sono più che triplicate negli ultimi quattro anni, passando da 400 mila barili al giorno nel 2020 a oltre 1,5 milioni nel 2024. Anche lasciando da parte i traffici clandestini, che sono di difficile tracciamento e quantificazione, la rivendita del prodotto iraniano attraverso mercati non sanzionati ha permesso di bypassare le sanzioni statunitensi.
Il quotidiano iraniano Hamihan, lo scorso 18 ottobre, ha inoltre riportato notizie che confermano la piena operatività del terminale per l’esportazione di Jask, attraverso il quale Teheran può evitare la strozzatura dello stretto di Hormuz. Il che conferma che la situazione è nettamente cambiata negli ultimi anni.
La minaccia di sanzioni non risulta più una leva potente come poteva esserlo una decina di anni fa. La situazione è “un po’ più complessa“, riprendendo le parole fatte pronunciare dall’interpretazione cinematografica di Andreotti, e sarebbe alquanto naive credere che basta rietichettare i barili per fregare gli Stati Uniti.
Mettiamo in fila un paio di questioni. A inizio ottobre la Energy Information Administration (EIA) ha pubblicato un report, seguito l’8 novembre da un altro documento redatto dal Congressional Research Service. Entrambi gli istituti statunitensi analizzano lo stato del quadro sanzionatorio nei confronti dell’Iran, e riportano le informazioni sopra accennate.
Ciò che si evince, però, è che c’è anche un altro tema che va sottolineato, tra l’altro più volte usato per attaccare Biden negli ultimi mesi anche da quel Ted Cruz che a breve avrà un ruolo nel governo Usa: è la stessa amministrazione stelle-e-strisce ad evitare una implementazione funzionale delle sanzioni a Teheran.
La motivazione sarebbe da ricercare nell’utilità indiretta delle esportazioni iraniane, grazie alle quali si è mantenuto basso il prezzo del petrolio sui mercati internazionali. Ma il dollaro forte e le stime della International Energy Agency (IEA), che a metà ottobre ha tagliato ancora le previsioni per la domanda del prossimo anno, potrebbero spingere a un atteggiamento più intransigente.
Ciò, però, significa anche colpire più duramente il Dragone, magari in forme indirette. In Cina, molti dei compratori del greggio iraniano sono raffinerie medio-piccole non possedute dallo stato, chiamate “teiere“. Date le dimensioni limitate delle operazioni che conducono, queste sfuggono più facilmente all’identificazione e ai radar del sistema finanziario statunitense.
Ciò non significa che non esistano modi per ridurre i traffici tra Teheran e Pechino. Un esperto del think tank Foundation for Defense of Democracies, con sede a Washington, ha evidenziato che il governo statunitense può impegnarsi di più nell’identificazione delle raffinerie cinesi, e può anche imporre nuove misure su altre navi, compagnie, azionisti.
Come ha detto Richard Nephew, professore alla Columbia University, esperto di sanzioni ed attualmente impiegato nell’amministrazione Biden, dipende però da “quanta pressione finanziaria si è disposti a esercitare sulle istituzioni finanziarie cinesi“. E anche in questo caso, c’è un sottile equilibrio che va tenuto presente, per non far precipitare situazioni ingestibili.
La relazione Iran-Cina si è sviluppata attraverso la costruzione di un sistema di commercio che utilizza largamente lo yuan del Dragone per i pagamenti. E in sostanza questo si inserisce nella più ampia cornice macroeconomica che è resa possibile, e sempre più forte, dalla cooperazione instaurata tramite il circuito dei BRICS.
Ciò rende evidente il carattere oggettivamente antimperialista di questa organizzazione che, seppur priva di un collante ideologico comune, è uno dei principali vettori del contrasto al dominio del dollaro come strumento imperiale. Ma l’emergere di un nuovo ordine economico multipolare non è un affare lineare e privo di contraddizioni.
Per la Cina l’uso del petrolio iraniano è utile anche perché la Repubblica islamica lo ha sempre offerto a prezzi scontati, diversi dollari in meno rispetto al termine di riferimento del Brent, ad esempio. Ma l’escalation mediorientale alimentata da Israele ha spinto Teheran a rivedere parzialmente la sua politica in merito.
La preoccupazione per possibili attacchi ai siti petroliferi da parte di Tel Aviv ha spinto le autorità dell’Iran a ridurre le esportazioni e dunque ad alzare un po’ i prezzi, seppur ancora vantaggiosi. Ma ciò potrebbe spingere Pechino a guardare ancora di più alla Russia, che già nel 2023 è stato il maggior fornitore di petrolio dei cinesi.
Blindare ulteriormente le sanzioni potrebbe portare gli operatori del Dragone a reagire con la stessa preoccupazione che hanno mostrato per le sanzioni secondarie imposte a Mosca, e quindi a raffreddare il legame con l’Iran. O al contrario, potrebbe spingere Pechino a fare uno strappo in avanti e rafforzare la cornice garantita dai BRICS, come detto anche da Richard Nephew.
Quello che, per concludere, deve essere messo in evidenza, è che se si riduce la lettura della realtà a uno sguardo economicistico si finisce per perdere di vista il carattere determinante di un qualcosa che comunque incrocia il traffico di petrolio: la guerra in Medio Oriente. E così si perde il peso del cambio di fase che i sionisti stanno imponendo.
L’allargamento del conflitto operato da Israele a tutta la regione porta con sé la volontà di ridefinire i rapporti nell’area manu militari, dato che la resistenza palestinese ha fatto fallire la normalizzazione tentata prima del 7 ottobre. La linea Trump non potrà che avallare questo impegno, vedendo nell’Iran un pericolo da abbattere in maniera prioritaria.
La catena che unisce le decisioni di Washington con quelle di Tel Aviv influenza tutto quel pezzo di mondo e lascia mano libera ai sionisti nel genocidio. Ma ha anche risvolti dirimenti per gli equilibri mondiali, di cui sanzioni e prezzi del petrolio sono un fenomeno che aiuta l’interpretazione.
L’attenzione, però, deve rimanere concentrata su quel che si muove sotto di essi, a partire dal multipolarismo e dal ritmo con cui si andranno sviluppando i BRICS. Ne va dell’opportunità di cogliere un’alternativa al dimenarsi senza orizzonti nella crisi del capitalismo occidentale.
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