Lo scorso ottobre la Hind Rajab Foundation ha denunciato alla Corte penale internazionale (Cpi) 1.000 soldati israeliani per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio a Gaza. Oltre 8.000 prove verificabili, tra cui video, registrazioni audio, relazioni forensi e documentazione sui social media dimostrano il coinvolgimento diretto dei soldati identificati in quelle atrocità.
Le violazioni del diritto internazionale sono sotto gli occhi di tutti da più di un anno, eppure nei media statunitensi (e di conserva nei nostri) il racconto su Gaza è costantemente sbilanciato in favore di Israele.
L’anomalia è bipartisan: giornali, settimanali e tv liberal (New York Times, Cnn, Nbc) non differiscono dalla reazionaria Fox News nel sostegno incondizionato ai crimini di guerra di Netanyahu.
Il pesce puzza dalla testa: in un promemoria sfuggito alle maglie della censura interna, la dirigenza del New York Times ordina esplicitamente ai suoi giornalisti di non usare parole come “genocidio”, “massacro” e “pulizia etnica” quando scrivono delle azioni di Israele. Devono anche evitare parole come “campo profughi”, “territorio occupato” o persino “Palestina” (t.ly/anukh).
Alla Cnn le cose non vanno meglio: un promemoria ordina a tutti i giornalisti di presentare Hamas (e non Israele) come responsabile della violenza; di specificare sempre “controllato da Hamas” quando scrivono del ministero della Salute di Gaza e delle cifre delle vittime civili; e di non riferire mai il punto di vista di Hamas.
Nyt e Cnn hanno licenziato giornalisti che criticavano le azioni israeliane: Jazmine Hughes fu costretta a dimettersi dal Nyt dopo aver firmato un appello contro il genocidio in Palestina. E il conduttore della Cnn Marc Lamont Hill fu licenziato dopo aver chiesto la liberazione della Palestina in un discorso alle Nazioni Unite.
Come mai, nei democratici Stati Uniti d’America, la libertà d’espressione viene conculcata, quando si tratta di Gaza?
Per lo stesso motivo per cui gli Usa danno 5 miliardi di dollari ogni anno a Israele, spiega il giornalista d’inchiesta Alan Macleod (Mintpress, Guardian, Jacobin, Grayzone): “Israele svolge una funzione molto importante per l’impero statunitense: in pratica è un 51° Stato, un avamposto degli Stati Uniti in Medio Oriente. Serve a controllare l’area più importante al mondo dal punto di vista strategico ed economico. In Medio Oriente c’è il petrolio, cardine dell’economia moderna: chiunque controlli quel petrolio ha un potere enorme sulla società globale”.
Una delle conseguenze, scoperta da Macleod, è che negli Usa i media mainstream, ma anche i giornali locali e i social media, non trovano nulla di strano ad assumere come giornalisti, anche in ruoli apicali, ex spie ed ex lobbisti israeliani (t.ly/z7bei, t.ly/fo1db).
La sua accusa è pesante: questo network di propagandisti israeliani (sono centinaia) scrive le notizie dei media statunitensi sull’offensiva israeliana in Palestina, Libano, Yemen, Iran e Siria. Manipolano l’opinione pubblica: cancellano i crimini di Israele e creano consenso al coinvolgimento Usa nel genocidio in corso.
Le ex spie arrivano dall’unità 8200, la divisione militare israeliana che si occupa di spionaggio, sorveglianza, guerra informatica e operazioni coperte.
All’unità 8200 viene attribuita per esempio l’esplosione dei 3.000 cercapersone in Libano (9 morti, fra cui una bambina, e migliaia di feriti fra i civili). Un atto definito terroristico dall’ex direttore Cia Leon Panetta; ma “un successo” secondo il giornalista Barak Ravid. Ad aprile Ravid ha ricevuto da Biden il White House Press Correspondents’ Award, uno dei premi giornalistici più prestigiosi negli Stati Uniti.
Piccolo particolare: Ravid è stato un analista dell’unità 8200 e fino all’anno scorso era un riservista Idf.
* da Il Fatto Quotidiano
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