Quindici giorni a cospetto del Dragone. Quindici giorni attraverso il pianeta Cina. Una lunga marcia tra tradizione e contemporaneitá, tecnologia high-tech e quartieri popolari, musei e luoghi della Storia.
Osservando, riflettendo, dialogando dove possibile con i cittadini di quella Cina Popolare sul cui sistema politico, economico e sociale tanti sono i cliché che l’Occidente liberista e la sua stampa sono capaci di assommare, tra propaganda e ideologia.
E allora sgomberiano subito il campo dai luoghi comuni. A partire dalla rete e da internet.
Non esiste nessuna regia occulta o dittatura repressiva che vieta ai cinesi di usare Google o qualsivoglia social. Semplicemente loro non li usano.
Esistono decine di offerte per l’utilizzo di smartphone con la VPN. Già in aeroporto, ad esempio, vendono le Sim con le impostazioni per poter postare su instagram “la tua vacanza“. Tutti i cinesi potrebbero averne accesso. Alcuni hotel hanno persino la Wi-Fi “sbloccata”. Ma niente.
Sarà che i cinesi di Facebook, Instagram, X e degli altri social non sanno che farsene; o forse sarà anche che i loro dati non vogliono regalarli a Google e Meta.
Oppure sarà che le loro app sono utili per fare qualsiasi cosa: dal chattare al fare pagamenti; dal prenotare un museo o vedere la programmazione dei cinema; fino a prendere metro e bus. Funzionando tutte in modo impeccabile, perfino per noi che non parliamo né leggiamo il cinese.
Sta di fatto che la rete non incontra lo stesso successo che riscuote nel nostro Occidente.
Il secondo mito da sfatare riguarda invece il cosiddetto controllo oppressivo, sia esso individuale o sociale – dalla circolazione e la mobilità interna al pericolo terrorismo, per intenderci – in merito al quale ci sono due elementi da considerare.
Il primo (afferente alla mobilità) è che in Cina stanno accelerando, nel modo più rapido possibile, sull’opzione green. Il che comporta, solo per fare un esempio, che per quanto riguarda i titoli di viaggio si cerca di non stampare biglietti cartacei.
Se il viaggiatore dunque compra il biglietto della metro e non usa l’app, qualunque sia il motivo, alla stazione di uscita la macchinetta/controllore ritirerà il biglietto, ricaricandolo e vendendolo al prossimo viaggiatore.
Per prendere treni o andare in visita ad un museo, basterebbe in effetti la semplice carta d’identità (nel nostro caso il passaporto) che consente di accedere ai servizi mediante prenotazione o con l’acquisto fatto sull’app il giorno prima.
È chiaro tuttavia che un simile sistema richieda un maggiore “controllo” – database e incrocio dei dati – da effettuarsi con l’utilizzo di sofisticati dispositivi elettronici.
D’altronde il popolo cinese avrà pure una ben strutturata coscienza civile, ma su un miliardo e quattrocento milioni di persone qualche furfante lo si può sempre trovare!
Il secondo motivo che impone un necessario e più elevato livello di controllo sociale è rappresentato dagli attentati organizzati e messi a segno di solito da quelle minoranze – etniche e religiose – di cui, con enfasi celebrativa, tanto ci raccontano la “lotta per la libertà” i massmedia italiani ed euroatlantici.
Ci riferiamo a quella parte degli Uiguri che vivono nello Xinjiang e che sono organizzati nell’ETIM (East Turkestan Islamic Movement): grupppo terroristico riconosciuto dal 2002 dalle Nazioni Unite, dall’ Europa, dall’Asia ma non dagli Stati Uniti d’America.
Quest‘organizzazione, legata principalmente ad Al Qaeda, opera in Siria, Pakistan e Afghanistan e costituisce un gruppo armato (in Siria armato anche da Israele e USA) che ha la sua base operativa nello Xinjinag e non ha mancato di seminare attentati e terrore in tutta la Cina. Esempi eclatanti sono le bombe di Piazza Tienamen o quelle nella metropolitana di Kunming.
È dunque questo uno dei principali motivi per cui la Cina presta particolare attenzione alla sicurezza, sopratutto nelle metro, nei luoghi di aggregazione o nelle istituzioni culturali come i musei.
Un’attenzione che ovviamente si fa più scrupolosa al centro di Pechino, tra Piazza Tienanmen, la grande Sala del Popolo e la Città Proibita.
Nulla che non si possa registrare però anche nelle democraticissime metropoli europee e soprattutto statunitensi, dove i dispositivi di controllo risultano spesso asfissianti.
Ma si sa, se ti controllano anche solo un biglietto in Cina, qui da noi si grida alla “violazione dei diritti umani”. Siamo a dir poco al grottesco.
Uno degli aspetti più affascinanti del Dragone resta comunque la sua dinamicità; la repentina capacità di cambiamento e di adattamento alle esigenze delle diverse fasi storiche e dei cicli economici e politici.
Aspetto che contribuisce non poco a sbugiardare i detrattori del paese asiatico, le cui fanfaronate ideologiche e i cui mistificatori cliché, rigidamente iscritti nello schema di una Cina autoritaria e immutabile, si scontrano con una realtà flessibile e positivamente dialettica.
In Cina tutto può cambiare da un giorno all’altro. Le stesse pianificazioni del governo, che sono di interesse strategico per il paese, vengono adeguate alle necessità di fase.
Una società veloce e aperta ai cambiamenti quindi capace, anche sul versante urbanistico, di innovazioni essenziali e sempre adeguate alle necessità della cittadinanza.
In cinque anni, tanto per dire, è stata ricostruita tutta la Datong antica. Un esempio dell’efficienza e della sensibilità di un popolo colmo di Storia.
L’esatto contrario, ci sia consentito, dell’inerzia e dell’inettitudine cui siamo abituati qui in Italia.
Tuttavia, se il lavoro è fondamentale per il popolo cinese altrettanto lo è il tempo libero.
Infatti, una delle caratteristiche che ci ha maggiormente colpiti è stato notare come, appena finito il loro turno, i cinesi si riversino in strada a socializzare, discutere, bere qualcosa e mangiare.
Un rito collettivo dettato da un reale bisogno di relazione e non da un’imposizione modaiola e consumistica. Una festa – intesa come momento di sospensione dal lavoro – che si ripete ogni pomeriggio. A Pechino come a Shanghai.
Sul piano più strettamente lavorativo, va sottolineato come la popolazione in generale consideri una “buona occupazione” quella che le consente di spostarsi nel fine settimana e di viaggiare per l’intero paese.
È Infatti piuttosto consueto trovare le stazioni dei treni super affollate nei weekend perché i cinesi amano spostarsi da una città all’altra nel tempo libero. Amano la loro storia e i musei che la rappresentano e la illustrano.
Ed è difatti praticamente impossibile trovarne qualcuno che non sia sold out per il numero di prenotazioni, nel weekend. Anche se situato nel più remoto buco cittadino del Paese.
Una condizione esistenziale molto favorevole, dettata da un’economia in salute che è tornata ad investire sulla domanda aggregata, ma dovuta soprattutto all’alto potere di acquisto dei salari.
Con stipendi medi quasi raddoppiati nell’ultimo decennio, i dati parlano di 114.029 Yuan (16.233 dollari) all’anno nei settori urbani non privati. Ovvero 9.502 Yuan (1.355 dollari) al mese.
Abbiamo scoperto tra l’altro che ogni provincia stabilisce uno stipendio minimo da corrispondere ai propri lavoratori. “Roba da comunisti” insomma, non certo per un paese da capitalismo straccione come l’Italia.
I fitti poi, rispetto ai nostri, sono decisamente bassi (abbiamo visto case le cui locazioni andavano dalle 50€ alle 300€ al mese), ma nonostante ciò si è aperto un contenzioso sulla questione abitativa, con il governo che sta acquistando interi compound dalle società immobiliari per fittarli a prezzi agevolati ai lavoratori.
Per quanto riguarda la viabilità e la mobilità, va evidenziato come le persone generalmente si spostino a piedi oppure utilizzando la metro o i mezzi pubblici, il cui costo è di circa 10-20 centesimi di euro a tratta. Mentre molto usati sono anche gli scooter elettrici.
Per mangiare si spende veramente poco. Si può cenare con 1-2 € seduti in un‘osteria, e per strada si spende ancor meno. Il che, come dicevamo prima, rende la vita relazionale più semplice e godibile.
Insomma, girando il Paese ci si rende conto di una civiltà diversa, calata in una dimensione più umana, che stride decisamente con la visione tetragona e autoritaria che ne offrono i media occidentali per evidenti ragioni politiche.
Durante il nostro viaggio, ci siamo fermati non di rado a fare due chiacchiere con qualcuno del luogo. E pur tra le tante difficoltà dovute alla lingua, siamo riusciti – con l’aiuto di Google Translate – a farci capire e a capire quanto diceva il nostro interlocutore.
Con un ragazzo di ventiquattro anni ad esempio, in un ristorante di Datong, abbiamo parlato di tante cose e della differenza di usanze e cultura che intercorre tra noi e loro.
Ci ha detto che voleva comprarsi una casa e sposarsi (una chimera, qui da noi). Aveva intrapreso da qualche anno la carriera militare ed è fermamente convinto che la Cina sia forte e che non dovrà più sottostare alle volontà statunitensi come in passato.
Con qualche perplessità, ci ha chiesto poi del problema della criminalità organizzata e del perché in Italia i cittadini e i militari non arrestino “la mafia“.
Non senza un certo imbarazzo, abbiamo provato a fargli capire che spesso tra il fenomeno mafioso e gli apparati dello stato corre una certa complicità; ma lui non riusciva proprio a comprendere come settori militari, partiti politici e pezzi di società civile possano essere collusi con le mafie.
Una difficoltà logica se si pensa che in Cina la criminalità, almeno quella di strada, è fenomeno molto marginale.
Basti pensare – solo per citare un caso emblematico – che i corrieri consegnano i pacchi ai clienti su enormi scaffali costruiti in strada, dove poi ognuno può andare a ritirarsi il proprio, senza che nessuno rubi nulla.
Pura utopia in molte città italiane, specie del sud.
La notte si può camminare tranquilli e senza timore che qualcuno ti si accosti per derubarti. E anche le donne non devono temere alcun fastidio. Una bella differenza se si mettono a confronto le nostre metropoli con il loro stile di vita, non c’è che dire.
Un’altra cosa che ha colpito molto la nostra curiosità, e ci ha aiutati ancora di più a comprendere il senso di comunità che attraversa l’intero Paese, è stata la China Welfare Lottery. Il loro lotto, per intenderci.
Tramite i ricavi della lotteria attuano politiche di Welfare, come il rafforzamento dei servizi, la costruzione di case popolari, l’incremento degli edifici scolastici e sanitari.
Una coscienza politica e civile che non può non interrogarci in quanto occidentali.
Abbiamo quindi scoperto – anche tramite un‘ amicizia italiana che vive a Pechino – che la visione politica in Cina, negli ultimi tre anni, è cambiata piuttosto velocemente, come lo stesso assetto sociale.
In effetti, prima del Covid tutto sembrava muoversi in direzione del “libero mercato”. Oggi invece c’è stata una drastica inversione di tendenza.
Addirittura le aziende straniere presenti nelle free trade zone denunciano l’intromissione dello Stato nei loro affari poiché, quando si verifica un’eccessiva speculazione finanziaria, gli organismi governativi intervengono con una certa solerzia e fermezza di polso, limitando o addirittura bloccando, momentaneamente o per periodi più lunghi, le attività borsistiche.
Un altro luogo comune da smentire è senz’altro quello che vorrebbe i lavoratori cinesi vittime delle angherie di uno Stato dirigista, poco sensibile alle istanze di tutela dei diritti e recalcitrante a riconoscere garanzie sindacali.
Sembra viceversa che nel 90% dei casi il lavoratore, grazie proprio alla mediazione dei sindacati, riesca ad avere la meglio nelle vertenze contro le aziende.
Una società e un modello dunque, come si diceva all’inizio, dinamici e sicuramente più equanimi rispetto a quello neoliberista e alquanto sclerotico che domina l’ovest capitalistico.
Ma anche una società giovane e in grande fermento, nel contesto della quale il governo, il partito e la società puntano molto sulle nuove generazioni e la loro formazione.
Un‘ immagine che ci ha colpito, ad esempio, è stato osservare, di fronte alla sede del primo congresso del CPC, uno stand con gadget (molti scolastici) per giovanissimi – addirittura bambini dai 2 ai 7-8 anni – dove tra le varie figure di cartoni animati che sponsorizzavano i prodotti, campeggiava un Marx stilizzato.
Il nome di questo brand era La Jeunesse, che si rifaceva a una rivista giovanile del periodo pre-rivoluzionario, in cui i giovani chiedevano una Cina democratica e rivoluzionaria che si ribellasse alle dinastie e alle invasioni straniere.
Una cultura e una coscienza politica che evidentemente i ragazzi maturano sin dall’infanzia, grazie a strutture e organizzazioni create a tale scopo.
Come la Lega dei Giovani Comunisti, che addirittura vanta rappresentanze nei consigli municipali dove si parla di scuola, mobilità, problemi che riguardano le nuove generazioni, cultura.
Non è un caso che, visitando il museo del Partito Comunista a Pechino, abbiamo intravisto molti ragazzi.
In questo Museo si ricostruisce tutta la storia dal Partito Comunista di Shangai, quello di Mao, la Lunga Marcia, fino alla Rivoluzione, per giungere in fine agli ultimi anni con Xi Jinping.
L’unica fase non prevista è quella che riguarda il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione Culturale.
Per la verità abbiamo sempre pensato che quest‘argomento, messo decisamente in ombra durante l’era Deng, fosse un tabù sottoposto ad una qualche censura ideologica.
In realtà, sembra non essere proprio così. Approfondendo la questione infatti, anche in termini teorici e politici, abbiamo scoperto un professore cinese che oggi insegna in Australia: Gao Mobo.
La storia di questo professore è molto particolare e importante, poiché è stato figlio di contadini nell’epoca del grande Balzo in Avanti e professore ai tempi della Rivoluzione Culturale.
Mobo racconta come, durante il Grande Balzo in Avanti, ci fosse già da parte di Mao la preoccupazione circa le conseguenze che quel passaggio avrebbe prodotto, evidenziando come molti errori fossero stati commessi dai “burocrati di partito”, tra cui citava Deng Xiaoping e Liu Shaogi.
Pur tuttavia, nel suo scritto sulla Rivoluzione Culturale – scrive ancora Gao Mobo – Mao avrebbe messo in risalto tutti gli effetti benefici che la Cina avrebbe ereditato da quella svolta.
Svolta considerata, da Deng e dal partito, per diversi decenni, un allontanamento di Mao dal suo pensiero originale.
In realtà, l’aspetto più interessante posto al centro della riflessione di Mobo, è che oggi il partito rimane ancora in fase di studio rispetto a questi due avvenimenti, sottolineando come la generazione di dirigenti di cui fa parte Xi Jinping sia la prima che appartiene a quella dei “giovani istruiti” durante la Rivoluzione Culturale.
E sebbene il padre di Xi abbia subito in prima persona l’esilio, proprio durante quel periodo, il presidente cinese non disdegna il suo appellativo di giovane istruito della Rivoluzione Culturale. Dichiarando più volte che c’è bisogno di tempo e di studio per capire se e quanto quella fase complicata abbia avuto qualche effetto benefico sulla storia contemporanea della Cina.
Possiamo pertanto concludere, sottolineando ancora una volta i veloci cambiamenti dialettici e storici che caratterizzano la Cina di oggi.
Una nazione sicuramente attraversata da tante contraddizioni e con tanti errori da riparare, ma alle quale non manca il metodo materialista e la volontà per affrontarli e ripartire.
Va però detto che il destino della Cina socialista dipende anche da noi. Da quanto il movimento rivoluzionario saprà spingere questo Paese verso il socialismo.
Affinché la barbarie occidentale e imperialista non conduca la Cina verso il baratro di un’ennesima restaurazione capitalistica.
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