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Trump non è “il caos”, ma l’impero in stile western

Passato il primo momento di sconcerto, sulle più recenti sparate di Donald Trump – Groenlandia, Panama, Canada, ecc – hanno affondato il bisturi analisti piuttosto seri. Mentre i più rimbambiti cantori dell’establishment bipartisan (non facciamo nomi, ma ve li ritrovate su tutti i giornali e soprattutto talk show, con bretelle o senza) stanno ancora lì a recitare giaculatorie scandalizzate per il modo in cui si esprime il miliardario indebitato, campione della reazione parafascista dell’Impero in crisi.

Si può capirli… vorrebbero poter conservare l’immaginario dell’America liberal, faro dei “diritti umani” ma disposta persino a fare “guerre umanitarie” senza giustificazione, o genocidi che non si devono chiamare col loro nome, tra un volto hollywoodiano e una serata da Grammy Awards mentre si cosparge il mondo di cadaveri.

E invece si ritrovano questo buzzurro che squaderna i peggiori tratti del colonialismo ottocentesco, quasi una generale Custer fuori tempo, trattando gli stessi Alleati come potenziali nemici da mettere a posto a suon di sganassoni.

Sotto il velo dell’apparente “pazzia”, però, il tycoon newyorkese sta soltanto indicando alcuni degli obiettivi che risultano “indispensabili” a realizzare l’altrettanto passatista programma del “make America great again”.

E allora, grattando nella storia neanche troppo recente, per esempio a proposito di Groenlandia, si può scoprire che durante la seconda guerra mondiale gli Usa l’avevano già occupata con reparti della Guardia Costiera “liberati dal servizio“, formalmente solo “volontari” senza legami con il governo statunitense.

Il governo danese tacque perché era tutto in esilio, visto che a Copenhagen campeggiavano le SS. L’accordo con gli Usa che legalizzava la presenza di militari sull’isola arrivò un po’ dopo, senza troppe trattative.

Nel 1951 venne poi firmato un altro accordo che consentiva agli USA di costruire ed equipaggiare basi militari statunitensi, diventate alla fine una cinquantina (quasi tutte stazioni di osservazione radar, tranne la più grande, Thule). Era iniziata la “guerra fredda” contro l’Unione Sovietica e dalla Groenlandia era molto più facile controllare le possibili rotte di eventuali missili sovietici verso l’America.

Caduta l’Urss, anche le basi vennero quasi tutte smantellate, ma il trattato è rimasto valido. Volendo – e ora vogliono – possono riprendere a seminare presidi militari di qualsiasi dimensione.

Cambia però la loro funzione strategica. La rotta artica, che la Russia attuale usa abitualmente, vista la grande dimensione del suo confine su quell’oceano, serve ora anche alla Cina (grande risparmio di tempo sui traffici commerciali).

Ma soprattutto c’è il peso immenso delle risorse minerarie (oro e “terre rare”, in primo luogo) per cui i cinesi hanno firmato negli ultimi 20 anni alcuni contratti di ricerca e sfruttamento.

Investimenti che da un decennio trovano però molti ostacoli posti proprio dagli Usa, che hanno nel frattempo abbandonato l’idea di poter controllare comunque il mondo con la “globalizzazione” dell’economia capitalistica grazie al sistema finanziario, il controllo dei sistemi di pagamento, del dollaro, nonché alla potenza militare per i casi estremi.

Per la povera Groenlandia (e per la Danimarca) ne deriva quindi già da tempo un serio rallentamento dei progetti economici che prevedono, se non altro, l’uso o la costruzione di nuovi porti, l’apertura di miniere, ecc.

Da questo punto di vista, insomma, Trump non sta facendo nulla di realmente nuovo. Si limita a gridare ai quattro venti quel che le amministrazioni precedenti (compresa la sua) facevano sottotraccia.

Stesso discorso con il Canada, certo un boccone parecchio più grande, tanto da essere membro del G7, della Nato, nonché autorevole interlocutore di mezzo mondo. Alleato fedele e silente, ma comunque indipendente…

E altrettanto con Panama, dove il Canale era stato voluto, costruito e pagato dagli Usa per poi finire sotto la sovranità del paese centroamericano quando si provò a sostituire gli strumenti di controllo militare con i più presentabili contratti-capestro.

Il problema è che i contratti li possono proporre proprio tutti, e a quel punto i cinesi – come usano fare – ne presentarono di molto più vantaggiosi. Ottenendo così un diritto di controllo senza sbraitare tanto e senza organizzare golpe interni.

Dal punto di vista economico, insomma, i tre paesi al centro dell’offensiva verbale trumpiana sono obiettivi di vecchia data per Washington, ma chiaramente buttarla giù piatta come ha fatto “The Donald” significa mandare in pensione qualsiasi pretesa di rappresentare un “ordine mondiale fondato sulle regole”, nonché considerare ormai carta straccia la sovranità nazionale e l’autodeterminazione dei popoli. Con buona pace dell’Onu, del diritto internazionale e della “pace nel mondo”.

Con molta freddezza altri analisti di livello – per esempio Guido Salerno Aletta, su MilanoFinanza – sbugiardano ogni intenzione “pacifista” di Trump nei confronti della Russia. La disponibilità ad abbandonare l’Ucraina al suo destino – visto che è ormai dimostrato che quella guerra è persa e che la Russia otterrà la “zona cuscinetto smilitarizzata” ritenuta necessaria alla sua sicurezza – è controbilanciata proprio dal progetto di incrementare notevolmente il controllo Usa dell’Artide. Costruendo praticamente lì una analoga “zona cuscinetto” a protezione degli Stati Uniti.

Tutto molto razionale, senza dubbio. Ma tutto questo significa abbracciare di nuovo una visione “realistica” (kissingeriana, si potrebbe dire) dei rapporti internazionali e abbandonare quella “moralistica” invalsa a partire dagli anni ‘90, quando appunto l’imperialismo Usa (e occidentale in genere) si è trovato ad essere “l’unica superpotenza”, quasi obbligata a “governare il mondo” secondo i propri interessi, ma travestiti da “valori etici”, “umanitari” e via bombardando…

Del resto, vediamo ormai da tempo un intollerabile “doppio standard” nella regolazione di tutti i conflitti, e persino dei risultati elettorali in quasi tutti i paesi (Francia, Romania, Georgia, Moldavia, ecc, per non dire dell’atteggiamento nei confronti dei paesi “altri”). Diventa sempre più difficile difendere un assetto aggressivo e criminale sfoderando sorrisi e buoni sentimenti.

Ecco quindi “The Donald” sgombrare il campo dai giri di parole. Ci sono gli “interessi dell’America” davanti a tutto, si farà buon viso a cattivo gioco – finché possibile – solo con chi ha un arsenale nucleare paragonabile.

Gli altri, a cominciare dall’Unione Europea, si mettano la coda tra le gambe… A noi, e ai lavoratori di tutto il mondo, non spetta davvero di “schierarsi” con uno dùe due volti di questa macchina divoratutto…

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Donald Trump vuole la Nato dell’Artico per contrastare Russia e Cina

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Niente è come appare: anche quello che può sembrare un ripiegamento o un ritorno all’isolazionismo della dottrina Monroe, in realtà è una nuova mossa americana giocata sullo scacchiere globale nel confronto con Russia e Cina.

Trump ha giocato d’anticipo aprendo un nuovo fronte: il realismo ha fatto irruzione nella sua strategia geopolitica che, se pure ha abbandonato la retorica del globalismo economico e finanziario dominato dagli Usa, non per questo ha manifestato ambizioni meno grandiose, anche se altrettanto strumentali.

Il mondo si è dimostrato davvero troppo grande, e soprattutto complesso, anche per quella che è rimasta l’unica superpotenza globale dopo la dissoluzione dell’Urss: ormai ognuno deve fare la sua parte, perché lo Zio Sam non può pagare per la sicurezza di tutti.

Finisce così, con gli auspici pronunciati da Donald Trump in occasione delle festività natalizie e in vista di assumere per la seconda volta il ruolo di presidente, l’era dell’eccezionalismo e dell’unilateralismo americano che aveva trovato l’apogeo con Bill Clinton, il presidente che aveva fatto a pezzi la Jugoslavia, ultimo residuo del comunismo in Europa, e aveva spalancato le porte del Wto alla Cina di Deng Xiaoping, coronando così nel 2001 il cinquantennio della Lunga Marcia che era stata intrapresa da Henry Kissinger per concedere a Mao Zedong l’abbandono del Vietnam in cambio dell’allontanamento dall’Urss.

Il ruolo cruciale del Canale di Panama

Il discorso di Trump sembra tornare indietro di un secolo, alla dottrina del suo predecessore James Monroe: gli Stati Uniti devono avere come obiettivo primario la supremazia territoriale sull’intero continente nordamericano.

E non si tratta solo del «cortile di casa» da tenere sgombro da pericolose influenze esterne, come accadde ai tempi della crisi di Cuba che fu innescata dall’arrivo di missili sovietici che avrebbero minacciato da vicino la Florida: Trump concilia infatti una sorta di neo-isolazionismo statunitense con la realizzazione di una infrastruttura geopolitica completamente nuova, pur sempre coerente con l’ossessione mai sopita di circondare l’Heartland, il cuore del mondo rappresentato dalla Russia sterminata.

Gli Usa devono innanzitutto riprendere il controllo del transito navale tra il Pacifico e l’Atlantico che utilizza il Canale di Panama, un’infrastruttura di importanza strategica per i traffici commerciali che fu costruita con capitali e da lavoratori americani e che era stata sotto il pieno controllo statunitense dal 1903 al 2000, mentre ora viene addirittura controllata da soldati cinesi: questo è un rischio enorme, che va assolutamente eliminato.

D’altra parte fu la necessità di garantire la libertà dei mari in tempi sia di pace che di guerra, e così i commerci che arricchivano gli Stati Uniti, che indusse T. W. Wilson a intervenire nel primo conflitto mondiale dichiarando guerra alla Germania che insidiava le rotte atlantiche.

Questo ora vale anche per il Mar Glaciale Artico, che sarebbe altrimenti un monopolio della Russia a beneficio soprattutto della Cina, che sottrarrebbe così i suoi traffici commerciali allo storico controllo degli Stretti: da quello di Malacca a quello di Aden, dal Canale di Suez a Gibilterra, sarebbero completamente bypassati.

Dal Canada alla Groenlandia

C’è quindi da coinvolgere il Canada, un Paese già legatissimo dal punto di vista commerciale agli Stati Uniti e per questo assai prospero, che avrebbe tutto da guadagnare nel divenire il 51° Stato dell’Unione: non solo perché la taglia della sua economia raddoppierebbe in breve tempo mentre le tasse si dimezzerebbero, ma soprattutto perché beneficerebbe gratuitamente di una difesa imbattibile rispetto alle aggressioni esterne.

Impacchettato com’è tra l’Alaska e il resto degli Usa, finora il Canada ha beneficiato troppo comodamente e soprattutto gratuitamente della difesa strategica statunitense: come gli alleati europei della Nato, anche i canadesi non possono rimanere coperti, a scrocco, sotto l’ombrello di Washington.

E quindi c’è da considerare la sterminata e disabitata Groenlandia, il cui territorio è grande quattro volte quello della Francia e i cui cittadini, sempre secondo Trump, vorrebbero diventare americani se solo potessero.

C’è di mezzo la sovranità sul Mar Glaciale Artico: una continuità geopolitica che consolidasse le proiezioni di Alaska, Canada e Groenlandia consentirebbe agli Usa di fronteggiare da pari a pari, e senza soluzione di continuità, la Russia, che invece oggi domina incontrastata sul versante opposto dell’emisfero questa promettente e strategica nuova rotta commerciale

Il tempismo dell’annuncio di Trump

La strategia degli Usa nell’Artico andrebbe così a completare il circondamento dell’Heartland, che è proseguito anche di recente sul versante Atlantico con l’adesione della Svezia e della Finlandia alla Nato: ha determinato non solo la chiusura del Golfo di Finlandia ma soprattutto l’isolamento di San Pietroburgo, che finora aveva rappresentato l’unico sbocco libero e diretto della Russia in Europa.

Inutile dire che a fronte di questi auspici di Trump le reazioni politiche a Panama in Canada e in Groenlandia sono state quasi scandalizzate: è stata una vera e propria provocazione, che ha dimostrato come tutte le pretese di egemonia debbano tener conto del principio di autodeterminazione dei popoli.

C’è dunque da chiedersi il perché, e proprio ora, dell’annuncio da parte di Trump di una strategia così palesemente aggressiva nei confronti di Mosca, quando sono in vista i colloqui per la sistemazione dell’Ucraina, a proposito della quale la Russia ha la pretesa di mantenere sotto controllo le aree già conquistate militarmente, oltre alla Crimea già annessa, e vuole che Kiev venga smilitarizzata e rimanga fuori dalla Nato.

Se Mosca, a dispetto del diritto dei popoli all’autodeterminazione, continua a insistere per avere comunque una zona di sicurezza ai propri confini verso l’Europa, deve subire la prospettiva che gli Usa se ne costruiscano una sull’Artico che rappresenti una minaccia altrettanto simmetrica: equivalent retailation, tit for tat.

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1 Commento


  • Giovanni Scavazza

    …Non vi e’ piu’ alcuna speranza di una vita tollerabile, a causa dell’irreversibilita’ del collasso ambientale e geopolitico…
    …Le uniche due prospettive che intravedo, sono, una, quella della guerra nucleare, dell’estrazione perdurante di minerali fossili, del collasso climatico, della diffusione delle microplastiche. …L’altra prospettiva, sara’ quella del rifiuto delle donne di generare per l’appunto le vittime dell’inferno climatico irreversibile, della guerra nucleare, della depressione epidemica.
    …In sostanza, due prospettive di auto-eliminazione del genere umano…

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