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La pre-invasione di Panama: non rinnoverà la “Via della seta”

Il nuovo Segretario di Stato USA, Marco Rubio, sta svolgendo un viaggio in America centrale, per stringere la presa su quello che Washington pensa come il proprio “cortile di casa”. Il primo nodo da sciogliere è quello del Canale di Panama.

Domenica il politico statunitense ha incontrato José Raúl Mulino, presidente del paese centro-americano. Un incontro nel quale non è stata fatta “alcuna minaccia reale di riprendere il canale o di usare la forza”, come aveva fatto Trump appena arrivato alla Casa Bianca.

Siamo abituati alle dichiarazioni forti di Trump, a cui dobbiamo abituarci al fatto che seguano anche alcune azioni. Ma la strategia del tycoon è in genere quella di imporre la massima pressione per poi ottenere delle mediazioni utili a disegnare la cornice delle relazioni internazionali in favore degli Stati Uniti.

Lo stanno imparando gli alleati, su entrambe le sponde dell’Atlantico; lo ha capito subito Panama, che ha deciso intanto di non rinnovare l’adesione alla Belt and Road Initiative cinese. L’accordo è stato firmato nel 2017, e scadrà nel 2026, si sostanzia al solito in investimenti infrastrutturali.

È questa influenza che Rubio vuole ridurre, per “proteggere questa risorsa vitale dal Partito comunista cinese”. Ricordiamo infatti che quasi i tre quarti del traffico del Canale proviene dagli States, mentre la Cina ne è il secondo utilizzatore, col 21% del transito.

È quindi difficile pensare che Panama voglia fare un torto al principale fruitore della via d’acqua, da cui derivano importanti guadagni e anche una lunga serie di colpi di stato. Ma per Washington è inaccettabile il ruolo che è andata assumendo Pechino con alcuni suoi progetti.

Parliamo della costruzione di un ponte sul Canale, di un terminal per navi da crociera, di un parco eolico, di una nuova metropolitana, e altre infrastrutture valutate come una violazione della neutralità stabilita nel patto USA-Panama del 1977.

Il segretario Rubio ha chiarito che questo status quo è inaccettabile – si legge in una sintesi del Dipartimento di Stato – e che, in assenza di cambiamenti immediati, gli Stati Uniti dovranno adottare le misure necessarie per proteggere i propri diritti ai sensi del trattato”.

È abbastanza chiaro che il principale punto di frizione sia però la gestione di due porti ai due ingressi del Canale, affidata alla Panama Ports Company, sussidiaria di CK Hutchison Holdings con sede a Hong Kong. Per quanto non controllino l’accesso delle navi, ciò viene considerata dai vertici USA un’influenza eccessiva.

Al colosso di Hong Kong (che non è comunque un’”azienda statale controllata dal Partito Comunista”) è stata data la proroga della concessione senza gara d’appalto per 25 anni. Ma Mulino ha parlato di verifiche da attendere “prima di poter giungere alle nostre conclusioni legali e agire di conseguenza”.

Controlli che sembrano rispondere ai desideri del nuovo inquilino della Casa Bianca e che, in caso portassero alla revoca della concessione, offrirebbero agli Stati Uniti anche l’opportunità di subentrare all’azienda di Hong Kong. E fare davvero e di nuovo quello di cui viene accusata Pechino: controllare il Canale.

Da parte sua, la Cina ha risposto con il proprio rappresentante permanente alle Nazioni Unite, Fu Cong: “la Cina non partecipa alla gestione e all’operatività del Canale di Panama e non si è mai intromessa nei suoi affari. La Cina rispetta la sovranità di Panama sul canale e lo riconosce come un passaggio internazionale permanente e neutrale”.

La pressione sul paese centro-americano continua con la presentazione alla Camera da parte dei repubblicani una proposta di legge per la riacquisizione “legale e proprietaria” del Canale da parte degli Stati Uniti. Il promotore Dusty Johnson ha detto esplicitamente che “l’America (gli USA, ndr) deve proiettare forza all’estero e possedere e gestire” questa via commerciale.

A fare eco è stata anche l’ennesima dichiarazione di Trump, che nel caso il Canale non tornasse in mano statunitense, anticipa che “accadrà qualcosa di molto potente”. Senza alcuna specifica riguardo possibili interventi militari, ma evocandone chiaramente la possibilità, come successo l’ultima volta nel 1989 (defenestrazione e arresto di Noriega, dittatore ex agente della Cia, che si era un po’ montato la testa…).

Un’altra minaccia che rimanda al tipico modo statunitense di gestire i nodi di tensione internazionale: invadendo e finanziando colpi di stato, finché tutti non si inchinino a Washington. Per ulteriori sviluppi bisognerà comunque attendere, con ogni probabilità, i controlli sulla Hutchison Holdings.

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