“Dichiariamo un cessate il fuoco in vigore da oggi per aprire la strada all’attuazione dell’appello del leader Apo per la pace e una società democratica. Nessuna delle nostre forze intraprenderà azioni armate a meno che non venga attaccata”.
L’attesa risposta del Pkk all’appello di Ocalan dal carcere è arrivata ieri. Il comunicato rende noto che il Pkk cessa unilateralmente il fuoco contro le forze turche fino al “Congresso” che dovrà decidere se e come sciogliere le formazioni armate (da tempo arroccate nelle montagne di Qandil) e avviarsi su un complicato percorso politico che dipenderà, com’è naturale, dall’atteggiamento del governo turco, che fin qui ha gestito la parte di Kurdistan sotto il suo controllo come un’occupazione militare.
Per un’organizzazione che da oltre 40 anni conduce uno scontro durissimo con i diversi – ma non troppo – governi di Ankara si tratta di una decisione strategica di importanza storica, necessariamente molto sofferta.
Da parte nostra non possiamo che rispettare, come per ogni altro movimento di resistenza popolare, le decisioni che verranno prese. Uno dei princìpi cardine dell’internazionalismo solidale è che nessun partito o organizzazione può pretendere di dire ad un altro popolo come deve condurre la propria lotta di liberazione. Specie, aggiungiamo noi, se i “consigli” provengono da paesi – e partiti, organizzazioni, movimenti, ecc – piuttosto indietro come capacità di cambiamento sociale (è il caso dell’Italia e di molti altri paesi europei).
La risposta positiva del Pkk, peraltro, non ha affatto i toni di una “resa” – come pure è stata raccontata sui media occidentali – perché contiene una condizione precisa: «Siamo pronti a convocare il congresso come desidera il leader Apo. Tuttavia, affinché ciò accada, è necessario creare un ambiente di sicurezza adeguato e il leader Apo deve guidare e gestire personalmente il congresso affinché abbia successo».
Fin qui, com’è noto, Ocalan è stato rinchiuso dal 1999 all’interno del carcere sull’isola di Imrali, in condizioni di isolamento decisamente dure, e solo negli ultimi tempi c’è stato un allentamento delle restrizioni tale da consentire colloqui con alcuni parlamentari dell’opposizione considerati vicini ai curdi.
Ma è chiaro che un vero “processo di pace” non può essere sviluppato con il capo-negoziatore rinchiuso in una prigione. Non sarà facile neanche una liberazione a tutti gli effetti, viste le caratteristiche del regime di Erdogan, e quindi quella formula certamente vaga – è necessario creare un ambiente di sicurezza adeguato” – sta ad indicare che il primo passo del negoziato riguarderà proprio le condizioni in cui la trattativa dovrà svolgersi.
In pratica il cessate il fuoco unilaterale da parte del Pkk sta ad indicare una disponibilità a discutere dello scioglimento, non avvia l’abbandono immediato delle armi.
Non si tratta di un modo per prendere tempo. Il Pkk indica, o propone, due date simbolicamente importanti per avviare il processo di trattativa. L’8 marzo, giornata internazionale delle donne, in coerenza piena con il ruolo che hanno all’interno del popolo curdo e dell’organizzazione anche militare del Pkk. Oppure il 21 marzo, il Newroz, il capodanno per molti popoli della regione, da sempre centrale nella cultura curda e nella stessa lotta di liberazione.
Di fatto si vuole andare a verificare subito se, da parte turca, si sta facendo sul serio nel percorso di “pacificazione” oppure no.
Se infatti dentro i confini turchi sembra esistere una larga disponibilità politica al “dialogo” – la proposta era stata lanciata addirittura da Bahceli, leader del partito di estrema destra Mhp – nella Siria ora guidata dall’ex qaedista Al Jolani, le milizie islamiste guidate da Ankara appaiono decise a proseguire la guerra contro i curdi nel Rojava e nelle altre aree sotto il loro storico controllo.
Mazloum Abdi, leader delle Fds, ha dichiarato esplicitamente che – “pur accogliendo positivamente l’appello di Apo” – lo scioglimento dell’ala armata del Pkk non significa lo smantellamento delle difese curde lungo l’Eufrate, che avrebbe per conseguenza la resa agli ascari arabo-siriani alleati della Turchia riuniti sotto le insegne dell’Esercito nazionale siriano”.
Le Fds curdo-siriane si dicono favorevoli a un paese unito, ma chiedono di mantenere gli ampi margini di autonomia politica, energetica e culturale conquistati dal 2012 e difesi aspramente durante la guerra contro l’Isis dal 2014 al 2019 anche con il sostegno degli Stati Uniti.
In Siria appare insomma determinante capire se il prospettato ritiro delle truppe statunitensi aprirà oppure no un margine di operatività maggiore per le milizie islamiste anti-curde. Ed è chiaro che non si può chiedere il disarmo unilaterale a chi si trova davanti a un nemico determinato ad attaccare.
Vedremo rapidamente, comunque, gli sviluppi della situazione, anche se il processo di pacificazione – inevitabilmente – sarà abbastanza lungo e complesso. Non si esce da 40 anni di guerra con una firma su un pezzo di carta…
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