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Congo. Le bombe di Kinshasa esplodono a Bukavu

La strage (13 morti e 72 feriti), perpetrata il 27 febbraio alla fine del meeting del Movimento del 23 Marzo (M23) nella capitale provinciale del Sud-Kivu, segna un passo in avanti del governo della Repubblica democratica del Congo (RDC) nel tentativo estremo d’isolare la rebellione dalle popolazioni che la sostengono.
Nei giorni precedenti l’attentato, dei volantini non firmati e un messaggio-video veicolato nei social da un attivista considerato vicino al potere di Kinshasa, la capitale, invitavano gli abitanti di Bukavu, pena il rischio di spargimento di sangue, a non recarsi agli appuntamenti indetti dall’opposizione politico-militare.

La “Guerra Rivoluzionaria”

Dopo la sua entrata senza incontrare resistenza, à metà febbraio, nella città affacciata sulle rive del lago Kivu, le nuove autorità dell’M23 avevano consolidato il rapporto del movimento con gli abitanti, che ritrovavano tra i loro concittadini alcuni membri della ribellione. Una settimana prima del meeting, tutta Bukavu aveva partecipato al salongo, i lavori collettivi per la ripulitura della città.
A questo punto, impotente sul piano militare convenzionale e fortemente indebolito su quello della comunicazione, il potere adotta l’opzione della strategia controinsurrezionale classica: mettere la pressione sui civili per sottrarre alla ribellione il suo retroterra sociale e politico.

E se non è possibile « conquistare il cuore e le menti » della gente con le buone maniere e l’azione psicologica soft, il ricorso al terrore resta la soluzione finale per prosciugare l’acqua (le masse) in cui vive il pesce (il movimento insurrezionale).
n gruppo di ufficiali d’elite delle Forze armate della RDC (FARDC) sono infatti stati formati alle teorie anti sovversive, riunite nella Dottrina della scuola militare francese chiamata paradossalmente « Guerra Rivoluzionaria » (DGR).

La Dottrina fa riferimento, nella sua applicazione parvertita in senso contrario, al corpus teorico maoista e soprattutto a quanto scrisse Mao-Tse-Tung durante la seconda guerra sino-giapponese: se il popolo puo’ essere paragonato all’acqua, i guerriglieri sono il pesce che vi abita. Come per dire che, di fatto, la posta in gioco della guerra asimmetrica è il controllo delle popolazioni, di cui bisogna ottenere il consenso a qualsiasi prezzo. Anche a quello del terrore, secondo tutti quelli che hanno riadattato il pensiero dell’ex presidente cinese per farne uno strumento di repressione dei movimenti di liberazione durante la colonizzazione.
L’applicazione della DGR nella crisi congolese non data da oggi e la sua scena inaugurale non è certo quella di Bukavu.

I massacri di Beni, nel Grand Nord del Nord-Kivu, quelli degli insorti di Kwamina Nsapu nel Kasaï, degli Hema nell’Ituri, con gli atti di genocidio dei Tutsi del Nord-Kivu e dei Banyamulenge del Sud-Kivu, fanno parte di questa metodologia feroce della violenza anti-popolare che resta uino dei tratti distintivi di un regime che la comunità internazionale si ostina a proteggere.

Pertanto, questi crimini di Stato, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e atti di genocidio, sono da tempo ben conosciuti e talora anche documentati a livello ufficiale.

In numerosi documenti pubblicati dalle Nazioni unite (NU), sono stati citati i nomi dei comandanti delle FARDC implicati nelle stragi di civili. Tutti rimasti al loro posto e la cosa non ha avuto seguito. Basti pensare che una delle menti di questi eccidi, in attività dal 2013, è l’attuale patron della Casa Militare del presidente Tshisekedi, il generale Frank Bwamenda Ntumba.

Le ambasciate occidentali, l’Unione africana (UA) e diverse ONG dei diritti umani sono anche al corrente delle modalità d’esecuzione e delle motivazioni che presiedono a tali attività criminali: una strategia del terrore messa in atto dal potere e senza soluzione di contunuità tra le magistrature supreme di Joseph Kabila et Félix Tshisekedi, al fine di mantenere il comando sulle popolazioni delle provincie orientali, culla di tutte le rivolte nella storia del paese.

Come si poteva leggere nel testo di un comunicato del 16 febbraio 2021 dell’Alto commissariato per i rifugiati (HCR) delle Nazioni Unite, queste atrocità «s’iscrivono nel quadro di un approccio sistematico volto a perturbare la vita dei civili, a seminare la paura e a provocare il caos».

Per ritornare all’attualità, le due esplosioni che hanno seminato il panico e mietuto delle vittime innocenti a Bukavu sono percio’ da contestualizzare in un’escalation della tensione da tempo programmata dalle autorità. Da diversi giorni, l’esercito aveva agito utilizzando droni e granate per attaccare i villaggi densamente popolati del Sud-Kivu, il tutto durante un cessate-il-fuoco stabilito in precedenza e lontano dalle linee del fronte.

Gli attacchi contro i Banyamulenge

E In quest’ultimo periodo, sempre nel Sud-Kivu, si era intensificata l’offensiva delle forze regolari, supportate da milizie etniche e da reparti dell’esercito burundese, contro i borghi e i campi di sfollati, situati negli altipiani di Uvira, Fizi e Mwenga e abitati dai Banyamulenge.

Queste comunità di allevatori d’origine tutsi sono installate nel loro habitat attuale da diversi secoli. Da decenni, sono oggetto di persecuzioni ad opera di notabili locali che agiscono in complicità con le autorità di Kinshasa e si servono di milizie formate da combattenti di altri gruppi etnici della provincia (Bafulero, Banyindu, Babembe).
Il 25 febbraio, tre giorni prima dei fatti di Bukavu, i villaggi irundu e Nyarujika nel territorio di Minembwe erano stati cannoneggiati, mentre nella città d’Uvira i membri della comunità munyamulenge (singulier de Banyamulenge, ndr) subivano arresti arbitrari, sequestri ed altri atti criminali.

Per questi pastori delle montagne vale – secondo i discorsi d’odio istruiti ad arte – la stessa accusa di non appartenenza alla nazione congolese, formulata in una vulgata d’origine coloniale che li individua come « invasori venuti dal Ruanda » e non aventi diritto alla cittadinanza della RDC.

Sempre nell’Est, nella provincia dell’Ituri confinante coi territori settentrionali del Nord-Kivu, un’ondata di violenze contro i civili ha fatto registrere una sessantina di vittime. Responsabili di questi massacri, avvenuti alla vigilia dell’esplosione delle bombe a Bukavu, sono ancora una volta dei gruppi armati tribali manipolati e teleguidati da ufficiali delle FARDC.

Il crescendo di questa strategia – di cui si possono trovare le teorizzazioni nei manuali della DGR – è anche la conferma della scelta della soluzione militare della crisi da parte del regime. Con gli effetti che ci si possono aspettare in termini di costi umani e del rischio di una conflagrazione regionale, dato che il cerchio stretto del potere congolese, unito intorno al presidente Tshisekedi, continua ad accusare il Ruanda di essere dietro la ribellione dell’M23.
Di fronte a questa prospettiva, che rende sempre più aleatoria l’uscita a breve o a medio termine da un conflitto senza fine, l’opzione, sostenuta, sia pure con sfumature differenti, dall’insieme della comunità internazionale, che spinge per un dialogo tra i belligeranti, fatica a trovare uno sbocco conseguente e fattuale.

Il Processo di Nairobi (Kenya) e quello di Luanda (Angola), fissati dai leaders dei blocchi regionali africani della Comunità dell’Africa dell’Est (EAC, secondo l’acronimo inglese) e della Comunità di sviluppo dell’Africa del Sud (SADC, secondo l’acronimo inglese) soffrono dell’ambiguità di non aver voluto o potuto far chiarezza sulle cause rea​li della crisi, la cui lettura è offuscata e complicata da una narrazione prefabbricata e semplicistica, secondo la quale le origini del conflitto si situerebbero nella volontà di un preteso espansionismo di Kigali, la capitale del Ruanda, e non nel mal-governo congolese.

Lo storytelling è tanto più nefasto, quanto più serve da alibi alla stessa classe politica di Kinshasa, ostinata nel suo rifiuto di sedersi al tavolo delle trattative con l’M23.
Ora, questa strategia è votata al fallimento, basta considerarne gli antecedenti e gli attuali sviluppi. La guerra ha finora messo in evidenza la capacità dell’opposizione armata di ristabilire la sicurezza nelle zone conquistate e di fare opera di pacificazione tra le diverse comunità, messe l’una contro l’altra dall’ancien régime.

D’altro canto, la deliquescenza progressiva dell’esercito « lealista » -che abbandona regolarmente le sue posizioni e il suo materiale senza colpo ferire, testimonia che la volontà e le motivazioni per battersi fanno difetto a una truppa che eccelle solo quando si tratta di bombardare le aree densamente popolate du civili disarmati.

La presenza delle FDLR, eredi del genocidio

Occorre altresì sottolineare che le FARDC sono appoggiate non soltanto dai Caschi blu delle Nazioni Unite (MONUSCO), dall’esercito del Burundi, dai militari sudafricani, tanzaniani e malawiti della SAMIDRC, la Missione dell’Africa del Sud nella RDC, ma anche da una serie di milizie locali, i Wazalendo, mobilitate e indottrinate a una forma particolarmente esasperata di odio tribale contro i loro compatrioti ruandofoni.

In tale coalizione eteroclita, facevano parte, fino alla presa di Goma da parte dell’M23, i mercenari di due società private di matrice francese, e fanno sempre parte, come alleate indefettibili delle FARDC, le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (FDLR), fondate dai responsabili del genocidio dei Tutsi nel 1994 in Ruanda.
Forza negativa per eccellenza, le FDLR si trovano cosi’ a essere i commilitoni dei soldati dell’ONU, le cui autorità non si pongono alcun problema a ritrovarsi in una alleanza assieme ai combattenti di un gruppo fondato dai transfughi ruandesi del 1994, esecutori dello sterminio di un milione di Tutsi.

Un’alleanza certo indegna, ma non contro natura se consideriamo che le milizie Interahamwe e le Forze armate ruandesi (FAR), che hanno eseguito l’olocausto dei Tutsi, sono state sostenute dalla Francia durante i massacri e dopo, quando i militari dell’operazione francese Turquoise ne hanno coperto la ritirata con armi e bagagli nel Kivu, dove questa soldatesca si è riarmata ed ha cominciato a dare la caccia ai Tutsi congolesi prima di attaccare massicciamente le regioni occidentali del Ruanda nel 1997-98.

La stessa Francia, che dirige da sempre il Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace (DPKO, secondo l’acronimo inglese) delle NU, di cui la MONUSCO dipende, non ha mai smesso di sostenere l’alleanza delle FDLR coi governi congolesi che, dall’epoca di Laurent-Désiré Kabila- si sono succeduti fino ad oggi.
Nello stesso tempo, la presenza di questo gruppo armato nei pressi della frontiera ruandese non puo’ che impensierire le autorità di Kigali, che da 30 anni domandano, senza ottenere alcun risultato, il suo smantellamento sia ai dirigenti della RDC che alle NU. Pertanto, numerose incursioni ed altri attacchi in territorio ruandese sono stati registrati in tutto questo periodo da parte delle FDLR.

Per restare ai fatti più recenti, nel 2019, un commando FDLR della frazione RUD / Urunana ha ucciso 15 persone nella cittadina di Musanze ; tra il 2022 e il 2023 sono state bombardate le località de Kinigi, Burera e Rubavu. Quest’anno, sempre a Rubavu, un attacco delle FDLR ha fatto 16 vittime civili e 160 feriti.

Comunque sia, le FDLR hanno messo a profitto 30 anni di presenza nell’Est della RDC per forgiarsi come una forza economica e militare, agire con una formidabile capacità di dissimulazione, discrezione ed influenza, assoggettare comunità intere, terre, miniere e creare decine di gruppi armati ispirati alla loro ideologia del genocidio e dell’odio tribale contro i Tutsi. Sul piano politico, i loro dirigenti riescono ad intervenire nella definizione delle linee di politica interna ed esterna della RDC, a mobilitare il governo di Kinshasa contro i loro nemici, ad orientare l’opinione pubblica congolese e della diaspora e ad essere presenti in seno alle ONG, ai diversi gruppi d’interesse e ai think-tank.

L’urgenza di un cambio di narrativa

L’insieme di questa situazione dovrebbe far riflettere gli attori interni e soprattutto internazionali della crisi congolese, e portarli a riconoscerne il carattere endogeno. Non è più giustificabile, ove mai lo fosse stato, il sostegno a un regime per il quale l’esercizio del potere si riassume nella discriminazione dei cittadini secondo l’appartenenza comunitaria e nei massacri ricorrenti delle popolazioni civili per tenerle sotto controllo es assoggettate.

Lo storytelling che indica nel Ruanda l’agente promotore delle ribellioni nell’Est della RDC è in vigore dai primi anni 2000, all’alba della ribellione del Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP) del generale Laurent Nkunda, di cui l’M23 è la filiazione.

Questo storytelling è un’affabulazione in cui gli eventi narrati sono distorti e numerosi fatti sono occultati. Col passare del tempo, ci si incomincia a rendere conto che la narrativa in questione va cambiata perché, in fin dei conti, il suo costruirsi sulla perversione della realtà fattuale diventa una della cause della non soluzione della crisi congolese.

A proposito della quale, scriveva recentemente un ex alto funzionario africano dell’ONU, il somalo Nasser Ega Musa: “La verità deve essere detta: le radici dell’attuale tragedia congolese non si trovano al di fuori dei confini del paese, e non si trovano sicuramente in Ruanda”.

Cambiare narrativa è urgente e ci sono segni tangibili che qualcosa comincia a muoversi in questa direzione.

All’inizio di febbraio, un gruppo di ricercatori, avvocati, artisti, professori d’Università e storici hanno redatto un appello rivolto al Segretario generale delle Nazioni Unite (SGNU), in cui si sostiene che la maniera migliore di far terminare la lunga guerra nell’Est della RDC: “Non è certo quella di fare una fissazione sul rischio di frammentazione della RDC e sull’accusa particolarmente semplicistica secondo la quale il Ruanda sosterrebbe l’M23 al solo fine di sfruttare le risorse naturali del Kivu. Questa interpretazione, ampiamente diffusa dai mass-media, sceglie d’ignorare le atrocità spaventose commesse alla luce del sole contro i Tutsi congolesi, uccisi, mutilati e talora divorati dai loro carnefici. Una lettura cosi’ riduttiva dei fatti conforta l’esclusione, esacerba le tensioni ed alimenta i discorsi d’odio. L’attuale escalation militare ne è del resto una conseguenza diretta”.

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