Quasi dal nulla, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto di voler riprendere il controllo della base aerea di Bagram, mentre si trovava in visita nel Regno Unito. Poi, sul social Truth, ha rincarato la dose, affermando che se i talebani non la daranno indietro, “cose brutte accadranno” al paese da cui gli USA sono scappati appena quattro anni fa.
Ovviamente, la risposta dei talebani tornati ormai saldamente al potere è stata netta e chiara: Fasihuddin Fitrat, capo di Stato Maggiore del Ministero della Difesa di Kabul, ha respinto categoricamente l’ipotesi. Se si dovesse dar retta a tutte le dichiarazioni che sentiamo, ci si dovrebbe aspettare presto un nuovo attacco stelle-e-strisce all’Afghanistan.
È chiaro che è un’opzione almeno improbabile. Non perché al Pentagono non farebbe piacere rimettere piede a poche decine di chilometri da Kabul, dove si trova Bagram, ma perché la fuga rovinosa dall’Afghanistan è stato proprio il segnale evidente dell’impossibilità per gli Stati Uniti di mantenere una presenza – o meglio, occupazione – militare globale come aveva fatto nel ventennio precedente.
Anzi, Trump è stato il primo sostenitore della riduzione del raggio di proiezione delle armi statunitensi, e dei costi che questa comporta. Inoltre, le nuove linee guida della National Defense Strategy del Dipartimento della Guerra hanno già stabilito che, almeno per il mandato di questa amministrazione, il focus si sposterà sul ‘cortile di casa’ latinoamericano.
Allora è bene capire come interpretare questa ennesima dichiarazione di The Donald foriera di caos, innanzitutto per le motivazioni che lui stesso ha dato: la base si trova a poca distanza da siti nucleari cinesi. Ci sono vari aspetti da tener di conto per cercare di comprendere perché Bagram torna nell’equazione della ‘terza guerra mondiale a pezzi’. Cerchiamo qui di elencarne brevemente i principali.
Trump ha qualcosa da offrire a Kabul, Kabul qualcosa da offrire a Trump
Il governo afghano guidato dai talebani non vuole di certo permettere al nemico contro cui ha combattuto una guerra ventennale di poter riportare i propri militari a due passi dalla propria capitale. Allo stesso tempo, Trump potrebbe aver usato la sua solita tecnica di sparare alto, per poi intavolare un dialogo concreto su condizioni da imporre per evitare ritorsioni pesanti.
Ricordiamo che, ad oggi, gli Stati Uniti non hanno ancora riconosciuto ufficialmente il governo di Kabul. Un passo del genere porterebbe anche il resto dell’Occidente a riconoscere formalmente alla classe dirigente talebana la guida dell’Afghanistan. Ciò si tradurrebbe anche in possibili nuovi aiuti e investimenti internazionali.
Un dossier che fa enormemente gola a Kabul sono i circa 9 miliardi di assets della Banca Centrale dell’Afghanistan, congelati dagli USA. Spiccioli per la prima potenza mondiale, una boccata d’aria indispensabile per i talebani. Che potrebbero allora essere davvero interessati a trattare una qualche collaborazione militare, riguardante Bagram o meno, e non necessariamente indirizzata contro il Dragone.
La dimensione militare e strategica nel Grande Gioco del Medio Oriente
Le infrastrutture di Bagram permettono effettivamente un enorme dispiegamento di soldati e di mezzi in una zona che si trova a ridosso della Cina. Probabilmente, i siti nucleari a cui ha fatto riferimento Trump sono alcune strutture di ricerca e di produzione di plutonio, oltre che, soprattutto, una base in cui sono presenti i missili ICBM (intercontinentali) DF-31, che possono trasportare testate nucleari.
Tuttavia, è difficile credere che il tycoon voglia alzare così velocemente la tensione con il Dragone, soprattutto mentre sta trattando sia la questione TikTok sia quella dei dazi. Non a caso, il portavoce del ministero degli Esteri Lin Jian si è limitato a ribadire che la Cina rispetta la sovranità dell’Afghanistan, ma non si è lanciato in stoccate profonde contro Washington.
Le parole del diplomatico cinese fanno riferimento alle accuse della presenza di soldati di Pechino nella base, mentre è più o meno certo che mezzi militari e funzionari d’intelligence statunitensi siano arrivati a Bagram lo scorso aprile. È chiaro che, oggi, anche la Cina vuole mantenere aperto il dialogo, mentre ha ben presente che quello di Trump è un messaggio più ‘complesso’.
L’importanza strategica della base di Bagram non è tanto, o non è solo, nella vicinanza alla Cina, ma nella vicinanza all’Iran e al Pakistan. Per quanto riguarda l’Iran c’è poco da spiegare, mentre è il recente accordo di difesa stretto tra Islamabad e Riyad a rappresentare un vero e proprio elemento di rottura rispetto allo scenario di sicurezza del Medio Oriente.
Il vertice dei paesi islamici a Doha non ha raggiunto risultati concreti significativi, visto che la proposta di una ‘NATO araba’ è stata affondata dagli Emirati Arabi Uniti, come riporta Middle East Eye. Allo stesso tempo, è stato un evento che ha posto al centro del dibattito dei paesi della regione il fatto che le garanzie di sicurezza statunitensi non valgano niente di fronte al ‘cane pazzo’ sionista.
L’attacco israeliano al Qatar ha spianato la strada all’incontro tra il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, a margine del summit di Doha, e poi all’annuncio dell’accordo di difesa tra Arabia Saudita e Pakistan, potenza nucleare, con una chiara funzione di deterrenza e protezione dall’espansionismo sionista.
La realtà che emerge è quella di nuovi patti di sicurezza centrati sull’area, accordi bilaterali, che si pongono in alternativa se non persino in contrasto con l’ordine regionale che ha in mente la Casa Bianca. La quale, dando via libera a ogni atto di Tel Aviv, ha in sostanza detto anche ai suoi alleati mediorientali che è pronta a voltargli le spalle in qualsiasi momento.
Una frammentazione delle linee belliche regionali, che risponde in un certo senso alla frammentazione del mercato mondiale. Perché se è vero che la Cina rimane, sul lungo termine, il nemico principale degli USA, la preoccupazione che ha sempre dimostrato di avere a cuore Trump è stata quella di minare, con dazi e sanzioni, la crescita del mondo multipolare.
Una piccola parentesi per Taiwan
Il contenimento militare della Cina rimane un obiettivo imprescindibile ma, come per le potenze europee, Washington vuole che siano i paesi intorno ai luoghi di tensione ad assumersi maggiori responsabilità. Al di là di alcune nuove installazioni nelle Filippine, sia l’AUKUS sia Taiwan stanno sperimentando sulla propria pelle questo atteggiamento.
Il blocco di 400 milioni di aiuti militari per l’arcipelago reclamato dalla Cina mostra come anche questi fondi rientrino tra gli strumenti di contrattazione usati da Trump su un campo di politica estera più largo, che unisce fini commerciali, industriali e bellici. Non si tratta più di soldi che diventano intoccabili in virtù di ragioni di sicurezza indicate come imprescindibili.
L’equilibrio tra necessità militari e commerciali è trovato in azioni dure e a volte contraddittorie, che fanno pagare profumatamente agli ‘alleati’ il sostegno stelle-e-strisce. E allora, se gli aiuti militari a Taiwan vengono bloccati, allo stesso tempo Anduril comincia a produrre direttamente in loco missili e droni sottomarini.
Allo stesso tempo, Nvidia decide di investire miliardi in Intel, così come ha fatto l’amministrazione Trump, per rilanciare la competitività della filiera dei semiconduttori statunitense, e recuperare il terreno perso rispetto al colosso di Taiwan TSMC. È chiaro che le scelte di The Donald rappresentano un’altalena nella politica estera che, a lungo andare, può far perdere la fiducia dei partners.
L’Afghanistan come crocevia del nuovo panorama economico mondiale
Torniamo dunque all’Afghanistan, e alla guerra al mondo multipolare pubblicamente dichiarata da Trump. La parentesi su Taiwan è stata utile a capire come i cambi di rotta netti impressi dalla Casa Bianca ai suoi indirizzi internazionali, apparentemente irrazionali, hanno una loro logica.
Puntano a mantenere l’egemonia statunitense riducendone l’esposizione globale, ma possono produrre l’effetto collaterale di far crollare intese che sembravano consolidate, come è successo con l’accordo tra Riyad e Islamabad. Ma si tratta di una strategia complessiva che tiene conto di tutti gli aspetti, forse di quelli economici ancor più di quelli militari, almeno quando non si tratta delle Americhe.
L’Afghanistan non ha solamente una posizione fondamentale negli equilibri tra grandi potenze nell’area che va dal Mediterraneo all’Indo, oggi così come negli ultimi due secoli. Ha anche importanti risorse, e negli ultimi mesi ha visto crescere la portata dei propri interessi con Cina, Russia e altri paesi per quanto riguarda il suo ruolo nei corridoi economici dell’Asia centrale.
Mosca è stata la prima capitale al mondo a riconoscere il governo instauratosi nel 2021, lo scorso luglio. Già prima i rapporti non erano mancati, così come con l’India. A gennaio il ministro degli Esteri di Nuova Delhi, Vikram Misri, aveva incontrato il suo omologo afghano, Amir Khan Muttaqi.
Sul tavolo c’erano dossier riguardanti sicurezza, progetti infrastrutturali e l’accesso al porto iraniano di Chabahar per il commercio. I suoi terminal sono stati al centro di un accordo che ha visto collaborare Iran e India, quest’ultima alla ricerca di una via per raggiungere l’Asia centrale oltrepassando l’ostacolo costituito dal Pakistan.
Il fatto che, praticamente in contemporanea all’annuncio sulla base di Bagram, gli Stati Uniti abbiano anche deciso di ritirare la deroga alle sanzioni per il porto di Chabahar non può essere casuale. Un ulteriore elemento di pressione su Kabul, ma che può anche inimicare in via definitiva il governo indiano, mentre continua il suo braccio di ferro col Pakistan.
Nel frattempo, i ministri degli Esteri di Cina, Pakistan e Afghanistan si sono incontrati a Pechino, lo scorso maggio, per discutere delle opportunità offerte dal dialogo trilaterale. In particolare, il confronto si è incentrato sull’estensione attraverso il paese dei talebani del CPEC, il Corridoio Economico Cina-Pakistan, progetto parte della Belt and Road Initiative.
Ciò palesa l’importanza strategica che l’Afghanistan ha per il Dragone, e i benefici che Kabul può ricevere da questa relazione. Sempre a maggio, è stato festeggiato il passaggio di 10 mila container merci lungo la linea ferroviaria inaugurata nel 2022 che collega la Cina con l’Uzbekistan e il Kirghizistan, passando proprio per l’Afghanistan.
Insomma, chi manca nel nuovo “Grande Gioco” è proprio Washington. Il controllo di Bagram ha evidenti finalità militari, anche se probabilmente lo sguardo è rivolto più al Pakistan che alla Cina, avendo fatto innervosire l’India e dovendo controllare più da vicino il nuovo alleato dell’Arabia Saudita, ora che la fiducia negli USA in Medio Oriente è ai minimi per aver coperto ogni atto terroristico di Israele.
Ma piazzare una presenza nel nord dell’Afghanistan significherebbe anche poter contrastare l’influenza del mondo multipolare su uno dei crocevia fondamentali dell’Asia centrale, e minacciare da vicino la logistica di Pechino. Vera arma con cui gli Stati Uniti si stanno oggi confrontando, più delle sue testate nucleari.
In conclusione, è bene tenere gli occhi aperti sulla vicenda. Perché anche se si dovesse risolvere nella solita sparata di Trump, non è stata fatta casualmente, ma palesa un altro terreno di frizione alimentato dalla Casa Bianca contro il mondo multipolare, e si inserisce in uno scenario di sicurezza mediorientale in rapida trasformazione.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
