Rivoluzionaria afroamericana, attivista per i diritti sociali, militante delle Pantere Nere, Madrina del Rapper Tupac, perseguitata per oltre 40 anni dalla CIA e dal FBI aveva trovato un porto sicuro a Cuba.
La Casa Bianca aveva messo una taglia di un milione di dollari sulla sua testa ma l’Isola Ribelle le offrì asilo politico, accogliendola e proteggendola fino all’ultimo dei suoi giorni.
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Assata Shakur, le stagioni afroamericane
Assata Shakur, militante rivoluzionaria afroamericana, è morta il 25 settembre scorso a Cuba, dove risiedeva come rifugiata politica dal 1984. Era nata nel 1947, e il suo «nome da schiava» era JoAnne Chesimard.
Aveva attraversato tutta la vicenda delle lotte di liberazione afroamericane, contro il razzismo e la guerra, il nazionalismo nero, il Black Panther Party, la clandestinità con la Black Liberation Army. Era stata arrestata nel 1973 dopo uno scontro con la polizia, in cui due agenti erano rimasti feriti, il suo compagno era stato ucciso e lei stessa gravemente ferita (la forma delle ferite dimostrava, secondo la sua difesa, che non poteva avere sparato ed era stata colpita con le mani alzate).
Nella sua autobiografia (Assata, tradotta in Italia nel 1992), racconta le manipolazione dei processi, le violenze e le torture dopo l’arresto, in ospedale e da un carcere all’altro. Evade nel 1979, con l’aiuto di alcune compagne (per avere partecipato a questa azione Silvia Baraldini si vide aggiungere vent’anni di carcere alla sua condanna). Dopo alcuni anni di clandestinità, riuscì a raggiungere Cuba.
Nella sua vicenda convergono una molteplicità di fili della storia afroamericana, dai diritti civili a Black Lives Matter. Per esempio: viene fermata perché la sua macchina ha una luce posteriore che non funziona. È la stessa ragione per cui nel 2016 in Minnesota la polizia ferma Philando Castle e finisce per ucciderlo.
A quel tempo, J. Edgar Hoover, il famigerato direttore dell’Fbi, aveva ordinato di arrestare i «sovversivi» con la scusa di violazioni ai codici della strada (già Martin Luther King fu incarcerato per aver guidato in Alabama con una patente della Georgia).
Ma la prassi continua: afroamericani hanno continuato a morire per un cambio di corsia mal segnalato (Sandra Bland), un passaggio col rosso (Andrew McDuffie), o violazioni imprecisate (Dijon Kizzie, a Los Angeles).
In realtà, quando viene fermata, la polizia sa benissimo chi è: ricercata per un rapimento e due rapine in banca, accuse da cui verrà poi assolta, sta nella liste dei sovversivi pericolosi. L’altro filo dunque è la continuità fra le forme della resistenza afroamericana e della repressione.
Assata Shakur non è la prima militante afroamericana che ha trovato asilo a Cuba. Già nel 1961 vi si era rifugiato Robert F. Williams, reo di avere invocato nel 1959 una risposta armata al razzismo dopo che a Monroe, North Carolina, un bianco era stato assolto dopo aver violentato una donna nera.
Erano gli anni del movimento non violento di massa; sconfessato da Martin Luther King, perseguitato dalla polizia razzista del suo stato, Robert F. Williams si rifugia a Cuba, e poi in Cina.
A Cuba scrive un libro, Negroes with Gun, neri con le armi. Williams non ha mai sparato un colpo, ma – in un paese armato fino ai denti – la sola idea che anche i neri possano avere armi spaventa i suprematisti bianchi fin dai tempi della Guerra Civile («non finirò mai di stupirmi per quanta paura hanno i bianchi di neri con le armi», scrive Assata Shakur).
Erano gli anni del movimento non violento di massa, ma già Malcolm X aveva rivendicato il diritto di usare «ogni mezzo necessario», proclamando il diritto degli oppressi di scegliere loro stessi i mezzi della propria liberazione e resistenza «con ogni mezzo necessario».
Tuttavia, l’idea di mettere armi nelle mani degli afroamericani spaventava i suprematisti bianchi fin dai tempi della guerra civile. Erano gli anni del movimento non violento per i diritti civili, sì: «In nessun posto del mondo, in nessun momento della storia», scrive Assata Shakur, «nessuno ha ottenuto la libertà facendo appello al senso morale dei suoi oppressori».
Così, nel 1964, in Louisiana nascono i Deacons for Self Defence. Deacons, perché i fondatori, tra cui il reverendo Frederick Doughlss Kirkpatrick erano uomini di chiesa; e «self-defense», autodifesa, come nel nome completo e non sempre ricordato del partito nato due anni dopo il California – il Black Panther Party for Self-Defense.
Malcolm X e le Pantere Nere sono passati alla storia come apostoli della violenza, ma nei suoi anni di militanza Malcolm X non ha mai dato neanche uno schiaffo a nessuno, e quanto alle Pantere Nere sono molti di più i loro militanti uccisi dallo stato (Bobby Hutton nel 1968, ucciso mentre alzava le mani per arrendersi; Mark Clark e Fred Hampton, ucciso nel sonno accanto alla sua compagna incinta, nel 1969 – durante un’irruzione illegale della polizia, come più tardi Brenna Taylor, uccisa in casa sua a Louisville nel 2020) che le azioni violente attribuibili a loro.
La scintilla delle rivolte dei ghetti, da Watts a Harlem, era – come nel 2021 – la violenza della polizia nelle loro strade (nel caso di Watts, anche lì per motivi di traffico). La violenza era dappertutto, in un paese in guerra: come disse Martin Luther King, «ci applaudono quando siamo non violenti nei confronti dei razzisti in Alabama e Mississippi. Ma poi ci chiedono di essere violenti contro i bambini vietnamiti»).
Assata Shakur si forma in questo contesto, ma la sua vicenda appartiene a un momento successivo, dopo l’assassinio di Martin Luther King (che nella sua autobiografia indica come il vero momento di svolta), dopo la svolta autoritaria e leaderistica del Black Panther Party, dopo che le lotte degli anni ’70 sono sfociate nell’elezione e rielezione di Richard Nixon.
L’autodifesa non le basta più, si convince che i mezzi necessari sono altri. Esclusa dal partito, ricercata dalla polizia, entra in clandestinità e si avvicina al Black Liberation Army, più una costellazione di gruppi underground che una vera e propria organizzazione.
«La lotta armata da sola non può dar vita a una rivoluzione», scrive: «La guerra rivoluzionaria è una guerra di popolo, e nessuna guerra di popolo si può vincere senza il sostegno delle masse popolari».
* da il manifesto
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