Questo saggio esamina le esecuzioni del 14 ottobre 2025 a Gaza non come atti isolati di brutalità, ma come parte di una più ampia grammatica storica e politica della Resistenza sotto assedio.
Si sviluppa in sezioni stratificate, a partire da come i media occidentali interpretano erroneamente la violenza rivoluzionaria, per poi tracciare la linea di discendenza delle purghe simboliche nei movimenti di liberazione globali.
Colloca le esecuzioni all’interno delle dinamiche interne di Gaza, della strategia dei servizi segreti israeliani e del prezzo emotivo del tradimento e della sopravvivenza.
Il saggio rifiuta i binari di civiltà e invoca una restaurazione narrativa: non per romanticizzare la violenza, ma per comprenderne il contesto, la posta in gioco e il significato in un panorama in cui la sovranità giuridica è stata negata.
(Nota dell’autrice)
I. INTRODUZIONE
Per i disinformati, i lettori occasionali che consumano il conflitto in frammenti di piccole dimensioni, privati della storia, privati dell’assedio, e per i promotori delle pubbliche relazioni israeliane, gli esperti occidentali e i portavoce esperti di indignazione asettica, le esecuzioni a Gaza del 14 ottobre 2025 ne sono state la conferma.
Le immagini di uomini bendati, con le mani legate, fucilati nella piazza di Gaza, poche ore dopo la dichiarazione del cessate il fuoco, sono diventate la prova. La prova che Hamas è violenta. Senza legge. Irredimibile. Un altro dettaglio che si aggiunge al quadro distorto che dipinge la Resistenza Palestinese come qualcosa di malato o pericoloso.
Ma per coloro che comprendono la decennale Lotta Palestinese per la Liberazione, per coloro che comprendono l’atrocità del Dominio israeliano, la macchina della sorveglianza e la bruttezza del tradimento sotto assedio, la tempistica e lo spettacolo delle esecuzioni evocano qualcosa di completamente diverso. Riecheggiano un modello storico più profondo: l’epurazione rivoluzionaria di informatori, collaboratori e minacce interne.
A Gaza, dove alla Resistenza vengono negati gli strumenti dello Stato, la piazza diventa un palcoscenico. Queste esecuzioni non servivano solo a punire il tradimento. Erano una dichiarazione, una rottura netta e visibile che diceva: non saremo controllati dall’interno.
Ma anche tra i fedeli, persiste un fremito: chi decide la colpevolezza quando i muri si chiudono? Quale confine separa la giustizia dalla disperazione quando la piazza diventa sia tribunale che teatro?
II. GIUSTIZIA RIVOLUZIONARIA E LO SPETTACOLO DEL TRADIMENTO
Nel corso della storia, i movimenti rivoluzionari hanno usato la violenza simbolica per inviare un messaggio chiaro: stanno rompendo con il passato e rivendicando il controllo sul loro futuro. Questi atti, concepiti per rivendicare il controllo narrativo e imporre la disciplina rivoluzionaria, spesso avvengono in pubblico e mirano a dimostrare forza, unità e la gravità del tradimento.
In questi momenti, il collaborazionista non è più visto come un semplice individuo. Diventa un simbolo di frattura interna, un tramite per un’influenza esterna e un monito per chi potrebbe prendere in considerazione l’idea di rivoltarsi contro il proprio popolo.
Nelle strade di Parigi durante la Rivoluzione Francese, la ghigliottina non era solo uno strumento di morte, ma un palcoscenico. Il Comitato di Salute Pubblica, guidato da Robespierre, giustiziò migliaia di presunti simpatizzanti realisti, molti dei quali senza processo. Ogni esecuzione era una messa in scena: una dichiarazione che la Repubblica non avrebbe tollerato alcuna ambiguità, alcuna indulgenza, alcun compromesso.
Nella Francia del dopoguerra, le donne accusate di “collaborazionismo orizzontale“, ovvero di avere relazioni con i soldati tedeschi, venivano trascinate nelle piazze, con la testa rasata in rituali di umiliazione pubblica. Questi atti non riguardavano una minaccia militare; riguardavano la purificazione morale, il recupero della purezza della Resistenza dopo anni di Occupazione.
Nell’Italia settentrionale, i partigiani diedero la caccia agli informatori fascisti dopo la caduta di Mussolini. I corpi venivano appesi ai lampioni con cartelli con la scritta “traditore“, lasciati ondeggiare al vento come avvertimenti. Queste esecuzioni erano rapide, spesso senza processo, e profondamente personali.
In Vietnam, i Viet Cong assassinarono civili sudvietnamiti che aiutavano le forze statunitensi, appuntando ai loro cadaveri biglietti con la scritta: “Ha tradito il popolo“. Queste uccisioni erano strategiche, progettate per instillare paura e rafforzare la lealtà nei villaggi contesi.
In Algeria, dopo l’indipendenza dalla Francia, il Fronte di Liberazione Nazionale rivolse la sua furia contro gli Harki, algerini che avevano combattuto al fianco delle forze coloniali francesi. Molti furono giustiziati in ondate punitive, i loro corpi gettati nei burroni o abbandonati nelle piazze pubbliche. Per il Fronte di Liberazione Nazionale, gli Harki rappresentavano il tradimento più profondo: non solo della rivoluzione, ma della stessa dignità algerina.
In Irlanda, durante la Guerra d’Indipendenza (1919-1921), l’Esercito Repubblicano Irlandese giustiziò decine di civili accusati di informare gli inglesi. Alcuni furono fucilati in fienili o campi, altri lasciati con biglietti con la scritta “Attenzione Spie“. Queste uccisioni non furono casuali: erano tattiche, volte a proteggere il movimento dalle infiltrazioni. Ma fratturarono anche le comunità, seminando paura e sospetto in villaggi già lacerati dalla violenza coloniale.
Le esecuzioni di Gaza appartengono a questa linea di pensiero. Non sono aberrazioni: fanno parte di una grammatica storica di Resistenza, forgiata sotto assedio. Che ci ritraiamo o ci ispiriamo dipende da come li leggiamo: non come atti isolati di crudeltà, ma come risposte a una lunga e amara condanna scritta dall’Occupazione, dall’infiltrazione e dal rifiuto di dimenticare.
Comprenderli significa confrontarsi con le condizioni che li producono e chiedersi che aspetto abbia la sovranità quando l’aula di tribunale viene negata e il collaborazionista cammina tra le rovine.
III. IL CONTESTO PALESTINESE: COLLABORAZIONISMO SOTTO ASSEDIO
In Palestina, le agenzie di sicurezza israeliane, in particolare lo Shin Bet, non aspettano che emergano i collaborazionisti. Li costruiscono. Al Valico di Erez, gli agenti fermano regolarmente i palestinesi che cercano permessi medici e offrono loro una scelta: collaborare o vedersi negare le cure.
In un caso documentato, a un padre di Khan Younis è stato detto che le cure oncologiche per suo figlio a Tel Aviv sarebbero state approvate solo se avesse fornito i nomi di combattenti della Resistenza.
In un altro caso, un adolescente sorpreso con un reato minore di droga è stato minacciato di carcere se non avesse accettato di denunciare i suoi vicini. Gli agenti dello Shin Bet usano foto private, messaggi intercettati e vulnerabilità familiari per fare pressione sugli obiettivi affinché si conformino.
Ricattano le donne con minacce di esposizione pubblica, promettono lavoro ai giovani disoccupati e sfruttano la disperazione di chi vive sotto assedio, blocco e Occupazione.
Queste tattiche non si limitano a estorcere informazioni, ma distruggono le comunità. Trasformano la gente comune in informatori. I collaborazionisti alimentano la rete di sorveglianza israeliana con coordinate, nomi e consuetudini, guidando droni, arresti e omicidi. Ad esempio, nel 2023, un collaborazionista avrebbe rivelato la posizione del comandante Ali Ghali, consentendone l’assassinio tramite un attacco aereo israeliano. Rappresentano una ferita che deve essere cauterizzata prima che si estenda.
Durante la Prima Intifada (1987-1993), le strade di Gaza e della Cisgiordania furono testimoni di una triste resa dei conti. Con l’aumentare della Resistenza popolare, aumentò anche la paranoia dell’infiltrazione. Militanti e membri della comunità hanno giustiziato decine di presunti informatori: alcuni trascinati fuori dalle loro case, altri trovati morti nei vicoli con cartelli con la scritta “ʿamīl” (collaboratore) appuntati sul petto.
Queste uccisioni non sono state casuali. Sono state risposte a veri e propri tradimenti: l’arresto da parte di Israele di un comandante di cellula, il bombardamento di una casa sicura, la scomparsa di un bambino. Ma sono state anche performative: atti di giustizia rivoluzionaria volti a ripristinare la dignità e rafforzare la lealtà in una società sotto assedio.
Dopo la Seconda Intifada e l’ascesa di Hamas a Gaza, lo schema si è irrigidito. Ad esempio, nel 2012, durante la cosiddetta operazione israeliana “Pilastro di Difesa”, sei uomini palestinesi accusati di aver aiutato Israele a colpire i combattenti palestinesi sono stati uccisi in pieno giorno, uno dei quali è stato trascinato dietro una motocicletta per le strade di Gaza. Il messaggio era chiaro: il tradimento non sarà tollerato e la Resistenza sarà protetta, anche a costo di sangue.
Le tattiche di reclutamento dello Shin Bet sono chirurgiche, progettate per frammentare le comunità e trasformare la sopravvivenza in complicità. Ma all’interno della società palestinese, le conseguenze sono devastanti e collettive. Le famiglie dei presunti collaborazionisti vengono ostracizzate, le case vengono bruciate, i nomi cancellati. Il collaborazionista diventa un fantasma: temuto, odiato e pianto.
IV. GAZA 2025: STRATEGIA TRIBALE E PURGA PREVENTIVA
A Gaza, il tentativo di Israele di alimentare la divisione interna durante i primi mesi della guerra del 2025 ha preso una piega tribale. A differenza del modello consolidato della Cisgiordania di collaborazione individualizzata o dell’Autorità Nazionale Palestinese, gestito attraverso reclutamenti segreti e coordinamento della sicurezza, Israele ha perseguito una strategia più pubblica e tribalizzata.
Netanyahu ha confermato nel giugno 2025 che il suo governo aveva armato e attivato clan a Gaza che si opponevano ad Hamas, affermando in un videomessaggio: “Cosa c’è di sbagliato in questo? È solo positivo. Salva la vita dei soldati dell’IDF“.
La mossa, a lungo vociferata e poi fatta trapelare dall’oppositore Avigdor Lieberman, è stata presentata come una necessità tattica: un tentativo di indebolire Hamas dall’interno senza dispiegare ulteriori truppe israeliane in aree densamente popolate.
Questi clan, spesso reti familiari con rivalità o rancori di lunga data contro Hamas, sarebbero stati riforniti di armi e supporto logistico. I critici, tra cui ex funzionari della difesa, hanno avvertito che alcuni di questi gruppi avevano legami criminali o inclinazioni ideologiche che potevano sfuggire al controllo. Lieberman ha paragonato una fazione armata all’ISIS, definendo la strategia “una follia totale“.
Questa politica riecheggia modelli di controinsurrezione del passato, in particolare l’armamento delle milizie tribali in Iraq da parte degli Stati Uniti durante l’ondata di truppe del 2007, ma a Gaza rischiava di aggravare la frammentazione interna.
Esternalizzando la violenza ad attori locali, Israele non solo infiamma le tensioni intra-palestinesi, ma complica anche i futuri sforzi di riconciliazione e governo. Il risultato è un campo di battaglia offuscato dalla guerra per procura, dove il confine tra collaborazionista, criminale e combattente della Resistenza diventa sempre più instabile.
Ma la strategia è in gran parte fallita. La lealtà tribale a Gaza, plasmata dalla sopravvivenza comunitaria, dall’identità di Resistenza e dalla memoria generazionale, si è dimostrata resistente alle manipolazioni esterne. Nonostante gli sforzi israeliani di armare le fazioni rivali, tra cui il Clan Doghmush e la milizia di Yasser Abu Shabab a Rafah, il risultato non è stato una frammentazione decisiva dell’autorità di Hamas, ma un’ondata di violenza intra-palestinese e di reazioni negative da parte dell’opinione pubblica.
Il Clan Doghmush, noto da tempo per le sue operazioni armate e le sue reti di contrabbando, si è scontrato con le forze di Hamas il 12 ottobre nei quartieri di Sabra e Tel al-Hawa a Gaza, causando 27 morti, tra cui otto membri di Hamas.
Nel frattempo, Abu Shabab, ex prigioniero di Hamas e leader della milizia “Forze Popolari”, avrebbe ricevuto armi e supporto logistico da Israele, tra cui protezione e promesse di influenza politica. Il suo gruppo ha sequestrato convogli di aiuti e accusato Hamas di saccheggio di rifornimenti, ma non è riuscito a ottenere una legittimazione diffusa.
Questi interventi sostenuti da Israele hanno messo in luce non solo la fragilità del panorama postbellico di Gaza, ma anche la disperazione di Israele nel progettare il collasso interno, una tattica che, anziché frammentare la Resistenza, ha rafforzato la percezione di un’orchestrazione esterna e ha approfondito il sospetto comunitario.
Questa tensione, tra disciplina rivoluzionaria e deriva autoritaria, non è nuova, ma a Gaza è acuita dall’assedio. In assenza di istituzioni legali e con la minaccia costante di infiltrazioni, i movimenti spesso ricorrono ad atti di controllo visibili e irreversibili.
Le esecuzioni del 14 ottobre non servivano solo a punire il tradimento; servivano anche a ristabilire l’ordine in un momento di percepita vulnerabilità. Poche ore prima, Hamas aveva concordato un cessate il fuoco con Israele, mediato dagli Stati Uniti, segnando la fine di una guerra durata due anni e costata decine di migliaia di morti.
La tempistica delle esecuzioni, subito dopo il cessate il fuoco, suggerisce uno sforzo calcolato per riaffermare il predominio prima che fazioni rivali, mediatori stranieri o dissenso interno potessero prendere piede.
Secondo filmati verificati e molteplici resoconti, sette uomini bendati sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco nel quartiere Sabra di Gaza, accusati di collaborare con i servizi segreti israeliani. Hamas li ha descritti come “criminali e collaboratori“, sebbene non siano state divulgate prove formali o procedimenti processuali.
Le esecuzioni sono state eseguite di fronte a una folla radunata, con i militanti che filmavano l’atto e gli astanti che applaudivano: uno spettacolo che ha funzionato sia come punizione che come deterrente.
Questa messa in scena pubblica riflette un modello più ampio nei movimenti di Resistenza sotto assedio: quando l’aula di tribunale viene negata, la piazza diventa il luogo del giudizio.
Ma il prezzo è alto. Le famiglie dei giustiziati affrontano l’ostracismo sociale e le comunità sono lasciate a gestire il trauma delle epurazioni interne. Nel caso di Abu Shabab, la cui milizia avrebbe ricevuto il sostegno di Israele, la sua esecuzione è stata seguita dal rifiuto della sua famiglia di reclamare il suo corpo, un gesto di disconoscimento inteso a proteggersi dalla punizione collettiva, ma anche un segno di quanto profondamente la collaborazione frantumi i legami comunitari.
A Gaza, dove ogni atto di Resistenza è oscurato dalla sorveglianza, il tradimento non è solo una minaccia tattica, è una minaccia esistenziale. Eppure, i metodi utilizzati per affrontarlo rischiano di replicare le stesse strutture di dominio a cui si oppongono.
Senza trasparenza, responsabilità o possibilità di ricorso, la giustizia rivoluzionaria può diventare indistinguibile dal controllo autoritario. La sfida per Hamas, e per qualsiasi movimento sotto assedio, è proteggere la lotta senza svuotarne il nucleo morale.
V. AMBIVALENZA, GIUDIZIO E PAURA INTERIORE
Non tutte le critiche alle esecuzioni a Gaza provengono da un luogo di cancellazione. Alcune emergono da una solidarietà profonda, di principio e inquieta. Si chiedono: cosa succede quando la Resistenza, a cui è negata la sovranità legale, inizia a rispecchiare gli stessi sistemi che combatte? Cosa succede quando la piazza diventa un luogo non solo di rottura, ma di paura?
La preoccupazione è reale. Le esecuzioni pubbliche, per quanto rare, rischiano di diventare strumenti di terrore interno piuttosto che di disciplina rivoluzionaria. Quando Hamas giustizia presunti collaborazionisti senza processi trasparenti, alcuni abitanti di Gaza non vedono sovranità, ma autoritarismo. Ricordano la Francia del dopoguerra, dove le purghe dei collaborazionisti Nazisti si trasformarono in vendette e dove figure come Sartre e Camus invocavano moderazione, non perché il tradimento non fosse reale, ma perché la giustizia senza processo diventa indistinguibile dalla vendetta.
A Gaza, la posta in gioco è diversa. Il collaborazionista non è una figura teorica. Permette attacchi con droni, omicidi e il collasso delle cellule della Resistenza. Ma l’assenza di un’infrastruttura giudiziaria non esime dal bisogno di responsabilità. Quando i movimenti di Resistenza centralizzano la punizione senza trasparenza, rischiano di far crollare la distinzione tra chiarezza rivoluzionaria e potere incontrollato.
La paura non riguarda solo Israele, ma anche il fatto di essere governati dall’interno, di nuovo. In Cisgiordania, questa paura assume la forma del coordinamento della sicurezza: le forze dell’Autorità Nazionale Palestinese arrestano i loro connazionali palestinesi per conto dei servizi segreti israeliani, reprimono il dissenso e controllano la Resistenza. A Gaza, emerge attraverso le purghe interne di Hamas, dove le accuse di collaborazionismo possono portare a esecuzioni senza processo.
In entrambi i territori, i palestinesi affrontano non solo la violenza dell’Occupazione, ma anche il rischio che la loro stessa dirigenza, frammentata, in difficoltà e spesso irresponsabile, possa replicare lo stesso controllo a cui si oppongono.
La Lotta per la Liberazione richiede non solo la libertà da Israele, ma anche la libertà dalla paura, sia essa imposta da un occupante o imposta da coloro che affermano di governare nella sua ombra.
Alcuni critici si chiedono se i combattenti di Hamas affrontino la stessa fame dei civili. Se le esecuzioni proteggano la popolazione o la disciplinino. Che il messaggio sia sovranità o sottomissione, queste domande sono importanti. Non negano la logica della rottura, ma esigono che la rottura venga esaminata. Che la violenza simbolica non diventi consuetudine. Che la Resistenza non diventi indistinguibile dal dominio.
Stare con la Palestina non significa mettere a tacere queste domande. Significa insistere sul fatto che #FreePalestine debba significare libertà da ogni forma di paura, esterna e interna. Significa esigere un futuro in cui la giustizia non sia improvvisata, ma costruita.
La sovranità non dovrebbe esistere solo in manifestazioni pubbliche come le esecuzioni, ma dovrebbe plasmare i sistemi quotidiani in cui le persone vivono. La vera Liberazione significa costruire strutture che proteggano i diritti delle persone, non solo punire il tradimento. Significa lasciare spazio al disaccordo, al lutto e alla critica, senza paura.
Il dibattito e il dissenso non dovrebbero essere messi a tacere. Sono parte di ciò che mantiene la lotta onesta, responsabile e viva. Ma in questo momento critico, quando le immagini delle esecuzioni vengono già utilizzate come arma per cancellare il contesto e appiattire la resistenza, è più urgente contestualizzare che dibattere. Nominare le condizioni che hanno prodotto questi atti prima di affrettarsi a condannarli isolatamente.
Questo non è un invito al silenzio. È un invito alla precisione. I palestinesi sono stati messi a tacere abbastanza a lungo, dagli occupanti, dai media, dal linguaggio della civiltà che esige la calma mentre le bombe cadono. Rifiutare questo silenzio significa rifiutarsi di lasciare che altri definiscano i termini del giudizio. Significa insistere sul fatto che la chiarezza venga prima di tutto.
Significa non essere come Israele con le sue detenzioni amministrative, i suoi archivi segreti e la sua prigionia a tempo indeterminato senza processo. Significa rifiutare la logica secondo cui la sicurezza giustifica l’opacità. La liberazione non deve imitare l’architettura di controllo dell’Occupazione.
Per costruire un futuro degno di essere difeso, la Resistenza deve essere responsabile nei confronti delle persone che afferma di proteggere. Ciò significa un giusto processo, anche sotto assedio. Significa moderazione senza cancellazione e disciplina senza paura. Significa creare una giustizia che non si basi sullo spettacolo, ma sulla struttura, non solo sulla rottura, ma sulla riparazione.
VI. CONCLUSIONE: COSA RIVELANO LE ESECUZIONI
Parlare di collaborazionisti in Palestina senza contesto significa partecipare alla Cancellazione. Significa appiattire una lotta plasmata dall’assedio, dalla sorveglianza e dalla lenta violenza della frammentazione coloniale.
Le esecuzioni a Gaza, filmate, diffuse, condannate, sono già state assorbite dalla macchina della stenografia morale occidentale. “Terrore”, “barbarie”, “illegalità”: questi sono i termini utilizzati da esperti e diplomatici che si rifiutano di dare un nome all’Occupazione, per non parlare della sua architettura coercitiva.
Ma la polemica esige chiarezza. La restaurazione esige specificità. Ed entrambe partono dal rifiuto: il rifiuto di lasciare che la narrazione sia scritta da coloro che bombardano, sorvegliano e ricattano.
Le esecuzioni a Gaza non sono state aberrazioni. Sono state rivelazioni. Hanno messo a nudo le linee di frattura della società palestinese sotto assedio, il brutale calcolo della sopravvivenza e la disperata affermazione della sovranità in un panorama in cui la sovranità è stata negata.
Leggerle come mera brutalità significa fraintendere l’intera Architettura dell’Occupazione. Indietreggiare senza contesto significa partecipare all’appiattimento della Resistenza Palestinese, una Resistenza plasmata non solo da bombe e confini, ma anche dal tradimento, dall’infiltrazione e dal rifiuto di essere governati dall’interno.
Il collaborazionista in Palestina non è un cattivo statico. È una figura costruita, plasmata dalla strategia dei servizi di sicurezza israeliani e sostenuta dalle condizioni del blocco. Coercizione medica, ricatto sessuale e minacce contro i familiari non sono eccezioni: sono tattiche documentate.
Un adolescente sorpreso con un telefono, una donna in cerca di un permesso, un padre al Valico di Erez: questi sono i luoghi del reclutamento, dove la sopravvivenza diventa una leva. Il suo tradimento è reale, ma lo è anche il Sistema che lo progetta.
Condannare l’esecuzione senza nominare il Sistema che produce collaborazionisti significa indignarsi senza analizzare, moralizzare ignorando i meccanismi della trappola.
Queste esecuzioni rivelano la violenza simbolica come linguaggio di rottura, un modo per rivendicare il controllo narrativo quando i sistemi legali sono frammentati e la giustizia viene negata. Rivelano il prezzo emotivo della Resistenza: il dolore delle famiglie, la paura delle comunità, il trauma di vivere in un mondo in cui la sopravvivenza può essere trasformata in un’arma.
Ma soprattutto rivelano la posta in gioco della chiarezza. Che comprendere le esecuzioni di Gaza significa comprendere l’intera sentenza, non solo l’atto finale, ma i decenni di sorveglianza, frammentazione e tradimento che lo precedono. Significa rifiutare il binario di civiltà che dipinge la Resistenza Palestinese come patologia e il controllo israeliano come ordine. Significa ripristinare la narrazione, nominare le condizioni e stare al fianco di coloro che resistono, non solo con le armi, ma con la memoria, con la chiarezza e con il rifiuto.
Il ripristino inizia ripristinando l’intera sentenza. Non solo il momento dell’esecuzione, ma i comandanti assassinati, le famiglie distrutte dal sospetto, il vuoto giuridico che lascia i movimenti di Resistenza costretti a improvvisare giustizia sotto assedio. Significa nominare il manuale operativo dello Shin Bet, la complicità dell’Autorità Nazionale Palestinese attraverso il coordinamento della sicurezza e la frammentazione della sovranità legale palestinese.
Significa riconoscere che i movimenti rivoluzionari sotto Occupazione, dall’Algeria al Vietnam, hanno storicamente risposto al tradimento con la violenza simbolica, soprattutto quando la giustizia formale è stata negata.
Ma il ripristino richiede anche chiarezza emotiva. Significa riconoscere il dolore di coloro i cui figli sono stati giustiziati, la paura di non sapere di chi fidarsi e il trauma di vivere sotto costante sorveglianza. Significa rifiutarsi di romanticizzare le purghe, ma anche di ridurle a patologia. Significa lasciare spazio alla contraddizione: che la violenza simbolica può essere sia necessaria che devastante, sia sovrana che traumatica.
Ripristinare la narrazione significa insistere sul pluralismo. Nominare le fazioni coinvolte, le storie cancellate, le coalizioni travisate. Significa rifiutare le abbreviazioni: “Hamas”, “terrorista”, “militante”, e invece nominare il terreno ideologico, storico ed emotivo in cui questi atti si svolgono. Significa riconoscere che le esecuzioni non riguardavano solo la punizione. Riguardavano la sovranità. La rottura. Il rifiuto di lasciare che il collaborazionista rimanesse un canale di Controllo Coloniale.
Questo non è un invito a romanticizzare la violenza. È un invito a comprenderla. A leggerla come parte di una grammatica di liberazione scritta sotto assedio. A riconoscere che i movimenti rivoluzionari, quando viene negata la sovranità, la rivendicheranno in piazza, nello spettacolo, nella rottura. E a chiedersi non se approviamo, ma se siamo disposti ad affrontare le condizioni che rendono tali atti necessari.
* da rimanajjar.medium. Rima Najjar è una ricercatrice palestinese la cui famiglia paterna proviene dal villaggio di Lifta, spopolato con la forza, nella periferia occidentale di Gerusalemme, e la cui famiglia materna proviene da Ijzim, a Sud di Haifa. È un’attivista, ricercatrice e professoressa in pensione di letteratura inglese presso l’Università Al-Quds, Cisgiordania Occupata.
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Bruno
quindi le esecuzioni sommarie sono giustificate?
Redazione Contropiano
Chi non è capace di distinguere un’analisi da uno schieramento difficilmente può raggiungere un giudizio articolato…
Oigroig
Costruire uno «spettacolo delle esecuzioni», un «palcoscenico» di morte dentro un genocidio, e con l’«approvazione temporanea» di Donald Trump alle «operazioni di polizia» di Hamas non mi pare un granché… Alla fine sembra una delega per passare dalla distruzione all’autodistruzione. Il Terrore di Robespierre è durato molto poco e ha prodotto Napoleone e poi, siccome un dittatore non bastava, la Restaurazione… Il «palcoscenico» dell’esecuzione, la sua spettacolarizzazione è un dispositivo di potere e alla fine va sempre a beneficio di chi già deteneva il potere.
yuri
Purtroppo l’ interessante analisi finisce per essere ostaggio dell’ultimo termine, proprio l’ultima parola del lungo testo: sarebbe stato più coerente utilizzare “plausibili’ al posto che ‘necessari’.