Pochi giorni fa, la Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH, nel suo acronimo francese), ha pubblicato un corposo rapporto dal titolo “Solidarity as a Crime: Voices for Palestine Under Fire“. Parliamo di un raggruppamento di quasi 200 associazioni e ONG di ben 116 paesi diversi, che si occupano di difesa dei diritti umani.
Il contenuto del rapporto dettaglia per Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania come, in vari ambiti della vita quotidiana e politica di questi paesi, siano stati sistematicamente e sapientemente violati i diritti di “assemblea, associazione ed espressione“, nel tentativo di reprimere e criminalizzazione il movimento di solidarietà con la Palestina.
La FIDH scrive immediatamente che ogni violazione è stata verificata attraverso testimonianze e questionari, per mettersi al riparo dalle accuse di aver manipolato i dati. E anzi, è proprio contro la manipolazione che questo rapporto è stato redatto.
Alla prima pagina del documento leggiamo che, per gli estensori, esso è importante perché, alla luce delle informazioni raccolte, diventa fondamentale ribadire che la lotta contro l’antisemitismo e il terrorismo non deve essere manipolata per sopprimere i diritti umani, né dovrebbe essere consentito di mettere a tacere le critiche legittime alla violenza di Stato o la solidarietà internazionale.
Gli Stati hanno l’obbligo giuridico non solo di combattere la discriminazione e la violenza, ma anche di difendere il diritto alla libertà di espressione, soprattutto quando tale espressione è scomoda, dissenziente o sfida interessi potenti. Il mancato rispetto di tale obbligo mina lo Stato di diritto e mostra il doppio standard che erode la fiducia nel sistema internazionale dei diritti umani.
Il presente rapporto è un appello a un urgente esame, responsabilità e riforma. I diritti e la sicurezza di coloro che si battono per la giustizia in Palestina e altrove devono essere difesi, non soppressi.
Ci teniamo qui a sottolineare come questo studio sottolinei il pericolo rappresentato dalla sovrapposizione tra la critica alle politiche dello Stato di Israele, che come tutti i paesi del mondo porta avanti specifiche politiche con specifici responsabili, e la lotta all’antisemitismo, cioè alla discriminazione per motivi etnici e religiosi. E anzi, evidenzia come stia avvenendo il contrario, a discapito di musulmani e arabi.
Questa deliberata confusione ha permesso alle autorità di delegittimare e penalizzare una vasta gamma di attori, attivisti, accademici, studenti, artisti e persino funzionari eletti che denunciano pubblicamente le azioni israeliane a Gaza o sostengono la liberazione dei palestinesi.
In questo modo, il discorso politico, a lungo considerato un fondamento della vita democratica, viene sempre più spesso equiparato all’incitamento all’odio o all’ideologia estremista, soprattutto quando riguarda Israele o il sionismo. Questa strumentalizzazione non esiste nel vuoto.
In ciascuno dei paesi esaminati, il contesto post-7 ottobre ha aggravato problemi strutturali di lunga data: la contrazione dello spazio civico, l’erosione delle garanzie democratiche, la crescente islamofobia e la normalizzazione del profiling razziale.
Gli attori statali hanno invocato la tutela dell’ordine pubblico, la prevenzione dell’antisemitismo e la sicurezza nazionale per giustificare misure draconiane, divieti di protesta, arresti arbitrari, sanzioni accademiche, censura dei media e minacce legislative, spesso in flagrante violazione degli standard internazionali in materia di diritti umani.
L’importanza di questo rapporto risiede, dunque, nel fatto che non si è soffermato unicamente sui manifestanti in piazza, ma ha anche preso in considerazione le varie modalità con cui sono stati censurati o hanno subito ripercussioni per le proprie posizioni anche titolari di cariche pubbliche, giornalisti, docenti universitari.
Non si può non sentire la ‘mancanza’ di uno studio approfondito anche per ciò che riguarda l’Italia, soprattutto per ciò che riguarda la libertà di insegnamento e di dibattito accademico, in un momento in cui il governo sta tentando di portare a compimento quello stesso processo di equiparazione tra antisemitismo e antisionismo attraverso il DDL 1627 citato nel rapporto.
Del resto, è lo stesso FIDH che chiarisce come il quadro delineato per i 4 paesi del documento sia il sintomo di un indirizzo più generale.
“Questa tendenza riflette un preoccupante spostamento verso la normalizzazione di misure eccezionali per gestire le voci dissenzienti“, ha affermato Yosra Frawes, responsabile dell’ufficio Maghreb e Medio Oriente presso la FIDH. Questa tendenza viene denunciata da questo giornale, ma soprattutto da tante realtà sociali e politiche (attivisti per il diritto all’abitare, sindacati precettati, partiti politici infiltrati) da tempo, e viene indicata come il risultato necessario dell’esacerbarsi delle contraddizioni.
La democrazia diventa un ostacolo quando gli indirizzi strategici devono essere tutti improntati alla guerra, e in cui, dunque, un fronte interno riottoso viene trasformato in un problema di ‘sicurezza’, delegittimando ogni dialettica politica. Si tratta della transizione verso quelle che spesso definiamo ‘democrature’.
Si legge nella conclusione: “In definitiva, la repressione della solidarietà con i palestinesi rivela una profonda crisi, non solo dei diritti umani nei territori occupati, ma della libertà stessa, nelle società che si dichiarano democratiche“.
La propaganda del ‘mondo libero’ che si oppone alle ‘autocrazie’ è morta sulla questione palestinese, ma questo significa anche che si aprono spazi per proporre un modello sociale e politico nuovo, opposto all’economia di guerra, al securitarismo e alla militarizzazione della dimensione civile.
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