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La guerra degli Stati Uniti contro la Cina, il Venezuela e la sinistra internazionale

Ovunque si guardi, gli Stati Uniti sono in guerra: in patria, attraverso l’occupazione militare delle città, la violenza istituzionale e i rapimenti autorizzati dallo Stato; e all’estero, tramite coercizione economica, guerre per procura e interminabili interventi. In tempi come questi, quando è fin troppo facile lasciarsi sopraffare dalla natura inesauribile della macchina bellica, dobbiamo ricordare che non si tratta di crisi separate, ma di fronti diversi della stessa lotta. E resisterne uno significa resisterli tutti.

Il nemico, in ogni caso, è l’imperialismo statunitense.

Movimenti di resistenza contro l’imperialismo statunitense sono sorti in tutto il mondo in risposta alla sua violenza indiscriminata e alla mancanza di rispetto per la vita umana. Insieme, formano il fronte vivo della sinistra internazionale, una rete di persone e organizzazioni che cercano la liberazione dagli stessi sistemi di dominio e controllo coloniale.

Sebbene le forme differiscano — dagli accampamenti studenteschi agli scioperi dei lavoratori — lo scopo rimane lo stesso: la fine dell’impero e la creazione di un nuovo mondo multipolare fondato sulla semplice verità della nostra comune umanità e dell’eguale valore di ogni nazione e popolo.

L’alleanza tra Cina e Venezuela fa parte di questo progetto più ampio. E la spinta statunitense alla guerra contro entrambe le nazioni non è altro che una reazione violenta alla verità imminente che lo status egemonico degli Stati Uniti sta svanendo e con esso il loro controllo sulle risorse globali, sul potere politico e sulla capacità di dettare i termini dello sviluppo e della sovranità per il resto del mondo.

Nel corso dell’ultimo mese, l’amministrazione Trump ha lanciato una serie di attacchi contro imbarcazioni da pesca venezuelane, sostenendo di voler reprimere i trafficanti di droga. La menzogna è tanto poco originale quanto assurda, e rappresenta un esempio lampante della facciata ormai logora della presunta “moralità” dell’internazionalismo liberale. La verità emerge spesso in periodi di turbolenza, quando l’agitazione prevale sul calcolo; la consapevolezza di un imminente declino è così grave che l’impero non cerca quasi più di nascondere le sue vere intenzioni.

Qual è dunque la verità?

La verità è che la guerra degli Stati Uniti contro il Venezuela non ha nulla a che vedere con la droga e tutto a che fare con il controllo. Per anni, il Venezuela ha affrontato pressioni incessanti, guerra economica, sanzioni e minacce costanti volte a minarne la sovranità e a mantenerlo sotto lo stivale dell’impero statunitense. Come per molte nazioni, l’interesse degli Stati Uniti nel Venezuela riguarda le risorse strategiche e il potere.

Primo: il Venezuela si trova sopra le più grandi riserve petrolifere provate al mondo [quelle di cui c’è assoluta certezza, non solo la “possibilità”, ndr] , insieme a importanti depositi di oro, coltan e altri minerali cruciali per la tecnologia e la produzione energetica. Il controllo di queste risorse strategiche significa controllo dei mercati globali e della sicurezza energetica. Secondo: la posizione geografica del Venezuela all’interno dell’America Latina lo rende un punto di leva fondamentale nella regione.

Eppure la sfida del Venezuela non è sorta dal nulla. È arrivata dopo più di un secolo di dominio statunitense nell’emisfero: dall’invasione di Haiti all’occupazione del Nicaragua, dai colpi di Stato in Guatemala, Cile e Honduras. Ciò che unisce queste storie è un unico messaggio proveniente da Washington: nessuna nazione latinoamericana ha il diritto di seguire un percorso indipendente.

La Rivoluzione Bolivariana, avviata con l’elezione di Hugo Chávez nel 1998, fu una sfida diretta a quell’ordine. Emersa dalle rovine del collasso neoliberista, affrontò la condizione storica del Venezuela come Stato rentier subordinato agli interessi statunitensi. Chávez dirottò i proventi del petrolio verso programmi sociali, come istruzione e sanità di massa, ampliando al tempo stesso la partecipazione politica attraverso consigli comunali e cooperative.

La sfida venezuelana assunse una forma continentale 20 anni fa, nel novembre 2005, quando i leader latinoamericani si riunirono a Mar del Plata, in Argentina, per il Vertice delle Americhe. Lì, Washington cercò di imporre l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), un accordo che avrebbe vincolato la regione a una subordinazione permanente al capitale statunitense.

Il vertice si trasformò invece in un punto di svolta della storia moderna latinoamericana. Davanti a decine di migliaia di persone che urlavano “ALCA, ALCA, al carajo!”, i governi di Venezuela, Brasile, Argentina e altri rifiutarono l’accordo. Quel rifiuto, guidato politicamente da Hugo Chávez e sostenuto dai movimenti sociali del continente, segnò il crollo del consenso neoliberista e la rinascita della sovranità latinoamericana.

Da quella vittoria nacquero ALBA e Petrocaribe, meccanismi di cooperazione regionale che privilegiavano lo sviluppo sociale rispetto ai profitti aziendali. Gli Stati Uniti hanno trascorso decenni cercando di annullare tutto ciò attraverso sanzioni, colpi di Stato e ora una militarizzazione aperta dei Caraibi.

Oggi, la situazione è resa più complessa dall’ingresso di un nuovo attore sempre più potente. La Cina, negli ultimi decenni, ha mantenuto una forte alleanza con il Venezuela. A partire dai primi anni 2000, la Cina iniziò a fornire al Venezuela decine di miliardi di dollari in prestiti da ripagare con spedizioni di petrolio.

Ciò ha permesso al Venezuela di finanziare programmi sociali e infrastrutture evitando i sistemi finanziari controllati dall’Occidente, come il FMI e la Banca Mondiale. Un rapporto dell’U.S. Institute of Peace afferma: “Il boom dell’industrializzazione cinese nei primi anni 2000 creò nuove opportunità per i suoi partner commerciali ricchi di risorse in America Latina e Africa. Il presidente venezuelano Hugo Chávez… fu entusiasta degli avanzamenti della Cina.”

Da allora, la Cina ha anche aiutato il Venezuela a costruire ferrovie, progetti abitativi e infrastrutture di telecomunicazione nell’ambito della sua più ampia Belt and Road Initiative (BRI) per favorire lo sviluppo nel Sud globale. La partnership, a differenza di quella statunitense, non è coercitiva ma strettamente non interventista.

La Cina non sostiene cambi di regime come fanno i leader statunitensi, ma mantiene un solido supporto diplomatico, definendosi un “partner di sviluppo apolitico” mentre critica la storia delle interferenze statunitensi negli affari interni dei paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Nel frattempo, gli Stati Uniti criticano la mancanza di volontà della Cina di fomentare cambi di regime.

A causa dell’alleanza economica e politica tra Cina e Venezuela, è impossibile comprendere la crescente spinta alla guerra contro il Venezuela senza considerare anche la preparazione alla guerra contro la Cina. Fanno parte, dopotutto, della stessa battaglia. Come scrive il rapporto dell’USIP: “Il Venezuela rimarrà un punto chiave della rapida espansione della rivalità strategica tra Stati Uniti e Cina.

I leader statunitensi sono perfettamente disposti a sacrificare la vita dei civili venezuelani se ciò significa distruggere l’economia venezuelana, installare un governo fantoccio e demolire il nascente movimento di solidarietà tra le due nazioni. Al contempo, il Venezuela ha fornito alla Cina una fonte di sovranità economica contribuendo a diversificare le sue fonti energetiche lontano dal Medio Oriente e da fornitori controllati dagli Stati Uniti, fungendo da ancora di salvezza contro sanzioni e isolamento economico.

Quindi, anche se gli Stati Uniti hanno certamente un interesse diretto nel Venezuela, il paese rappresenta anche un altro fronte nella guerra degli Stati Uniti contro la Cina, che sotto l’amministrazione Trump si è manifestata come una crescente guerra commerciale sulle risorse strategiche, una iper-militarizzazione degli alleati nel Pacifico attorno alla Cina e una repressione interna contro cittadini cinesi e sino-americani negli Stati Uniti.

Ovviamente, la Cina non rappresenta alcuna minaccia esistenziale per i cittadini statunitensi. L’unica minaccia che rappresenta è verso un sistema mondiale dominato dagli Stati Uniti e verso la perpetuazione della divisione internazionale del lavoro che mantiene pochi élite occidentali ricchi mentre il resto del mondo soffre.

La spinta degli Stati Uniti verso la guerra contro la Cina è parte di una campagna continua per ostacolare l’ascesa cinese. Mentre il mondo si muove inevitabilmente verso una nuova multipolarità, i leader statunitensi reagiscono con posture militari, coercizione economica e propaganda bellica. Le recenti tariffe di Trump contro la Cina sono solo una piccola parte di questa strategia più ampia.

Al cuore di questo confronto vi è una lotta per il controllo delle risorse e delle tecnologie strategiche che definiranno il futuro: minerali rari, semiconduttori, intelligenza artificiale e altro. La Cina domina attualmente l’offerta globale di terre rare, componenti essenziali per tutto, dagli smartphone alle turbine eoliche, fino a missili e caccia. Per gli Stati Uniti questo è intollerabile. Minaccia il loro monopolio sulla produzione high-tech e, di conseguenza, la loro supremazia militare ed economica.

Ecco perché vedrete leader politici e media perpetuare la narrativa secondo cui la Cina sta “armando” il commercio, nonostante siano i paesi occidentali ad aver ucciso milioni di persone attraverso sanzioni unilaterali dalla Seconda Guerra Mondiale. Ma la Cina, come nazione sovrana, ha il diritto di proteggere le sue risorse strategiche, specialmente quando vengono usate contro di essa.

I minerali di terre rare, per esempio, vengono utilizzati dagli Stati Uniti per creare sistemi d’arma avanzati in preparazione alla guerra contro la Cina. E se la guerra economica fallirà — come inevitabilmente accadrà, se si considerano i recenti incontri Trump–Xi — allora è sempre più probabile che i leader statunitensi forzeranno uno scontro fisico, e quelle armi verranno utilizzate.

Non è la prima volta che gli Stati Uniti scatenano guerre per risorse strategiche mascherandole con la propaganda. La Guerra del Golfo e l’invasione dell’Iraq — giustificate come “difesa della democrazia” e “protezione del mondo dalle armi di distruzione di massa” che non esistevano — furono in realtà volte a spartire i giacimenti petroliferi iracheni tra corporation statunitensi.

La campagna di bombardamenti della NATO in Libia rispose alla nazionalizzazione del petrolio da parte di Gheddafi e alla minaccia verso il dollaro statunitense [con il progetto di creazione di una moneta africana, ndr].

La continua occupazione della Siria riguarda la sicurezza dei giacimenti di petrolio e gas. Il rovesciamento del presidente boliviano Evo Morales era legato alla sua nazionalizzazione del litio, spesso definito il “nuovo petrolio”, oltre ai tentativi di ostacolare la concorrenza con Russia e Cina. L’elenco potrebbe continuare all’infinito.

La lezione è chiara: dove c’è una guerra o un intervento guidato dagli Stati Uniti, è probabile trovare sotto una qualche risorsa strategica o interesse monetario. È questo che significa essere una potenza imperialista.

Per sostenere il suo dominio, gli Stati Uniti devono continuamente estrarre, controllare o negare l’accesso ai materiali che sostengono l’industria e la tecnologia globale, come petrolio, gas, litio e minerali rari. E quando un’altra nazione osa affermare la propria sovranità sulle proprie risorse, viene etichettata come minaccia alla libertà, sanzionata, bombardata o rovesciata per mantenerla dipendente, debole e obbediente.

Cina, Venezuela e tutte le nazioni che cercano sovranità sul proprio sviluppo in modi contrari all’ordine capitalista-imperialista minacciano questo assetto, ed è per questo che vengono prese di mira — non per ragioni morali o legali. Come abbiamo visto chiaramente in due anni di genocidio finanziato dagli Stati Uniti a Gaza, né la moralità né la legalità guidano la politica statunitense.

La lotta contro l’imperialismo statunitense è una lotta globale. Stare al fianco del Venezuela, della Cina o di qualsiasi nazione che resista alla dominazione significa stare dalla parte della possibilità di un nuovo internazionalismo radicato nella solidarietà oltre i confini.

Questo è il nostro compito: collegare queste lotte, vedere in ogni atto di resistenza il riflesso della nostra stessa lotta e costruire un mondo di umanità condivisa ed eguaglianza globale.

 * da CounterPunch – Megan Russell è coordinatrice della campagna “China is Not Our Enemy” di CODEPINK. Ha conseguito un Master in Conflict Studies presso la London School of Economics. In precedenza ha studiato a NYU, dove si è specializzata in conflitto, cultura e diritto internazionale. Megan ha trascorso un anno a Shanghai e oltre otto anni studiando il mandarino. La sua ricerca si concentra sull’intersezione tra relazioni USA–Cina, costruzione della pace e sviluppo internazionale.

Michelle Ellner è coordinatrice per l’America Latina di CODEPINK. È nata in Venezuela e possiede una laurea in lingue e affari internazionali conseguita presso l’Università La Sorbona Paris IV, a Parigi. Dopo la laurea ha lavorato per un programma internazionale di borse di studio presso uffici a Caracas e Parigi, ed è stata inviata ad Haiti, Cuba, Gambia e altri paesi per valutare e selezionare candidati.

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