Le elezioni di “metà mandato” negli Usa che si svolgeranno martedì 6 novembre cambieranno la totalità degli eletti nel Congresso ed un terzo di quelli del Senato.
In 36 stati si svolgeranno le elezioni per determinare la carica di governatore, in alcuni di questi i candidati sostenuti da Orange Man sfideranno dei Democratici che portano avanti programmi progressisti di ampia portata, sostenuti dai “socialisti democratici”, o a cui Bernie Sanders ha dato il proprio endorsement.
Per il proprio appoggio l’ex candidato alle primarie del Partito Democratico ha posto come condito sine qua non il sostegno alla proposta dell’assistenza medica gratuita universale, una ipotesi politica che gode di un forte credito a livello popolare, anche oltre i perimetri dell’elettorato democratico (circa l’80% dei nord-americani sarebbero d’accordo), e che è stata al centro del bashing mediatico.
L’impossibilità di accesso alle cure mediche è uno dei drammi maggiormente percepiti attualmente dalla società americana.
In alcuni di questi stati – come in Florida, Texas o Georgia, per non citarne che alcuni – le elzioni dei governatori sono uno test importante, vista la polarizzazione delle posizioni politiche, e forse una anticipazione degli ipotetici scenari futuri per le prossime elezioni presidenziali del 2020.
Oltre a Congresso, Senato e governatore statale, le elezioni riguardano una cospicua serie di cariche “minori”, comunque importanti per gli equilibri politici locali.
Donald Trump ha fortemente “personalizzato” questa tornata elettorale, facendone una specie di referendum sul proprio operato, e costringendosi già durante la fase delle primarie del Partito Repubblicano ad un tour de force per sostenere i profili dei candidati del Grand Old Party a lui più affini, per completare l’Opa sul Partito e creare le condizione per una sua possibile rielezione come presidente.
Una scommessa, quella di Trump, che potrebbe rivelarsi parecchio rischiosa, considerando che più della metà dei nord-americani secondo i sondaggi, non gradisce il suo operato, e che le sue esternazioni hanno dato vita ad una nuova ondata di attivismo che ha investito in particolare la porzione femminile della popolazione (eccezion fatta per la parte bianca non diplomata), le fasce giovanili di afro-americani (specie al Sud) e di ispano-americani, oltre ad alcuni raggruppamenti di “minoranze etniche” che rischiano di fare il proprio ingresso in alcune importanti cariche elettive.
Secondo uno studio di Public Religion Research Institute pubblicato il 29 ottobre, il 57% di donne voterebbe per il Partito Democratico, mentre il 31% per il Partito Repubblicano.
Nelle ultime settimane, la retorica di Trump si è particolarmente concentrata sulla questione immigrazione, nel solco delle politiche securitarie fino a qui propugnate che hanno trovato oppositori determinati con la campagna Abolish ICE, sull’enfasi data alle cifre dell’economia, e in ultimissima istanza ad una possibile risoluzione della “guerra commerciale” con Pechino, questione che vede il suo staff con posizioni differenti e l’alternarsi di prese di posizioni contrastanti.
Chiaramente per Trump la posta in gioca è quella di poter proseguire con le politiche intraprese finora, di cui però ha beneficiato solo il cosiddetto 1% più ricco della popolazione, nonostante la promesse di estendere le politiche di taglio fiscale alla classe media in caso di esito positivo del voto.
Sul piano economico, le manovre di maggior rilievo sono state il taglio delle tasse alle imprese – di cui ha beneficiato la Corporate America, cioè i grandi gruppi del capitalismo americano, che hanno visto il proprio fardello fiscale abbassato dal 35% al 21% – insieme all’incremento delle spese per la Difesa, di cui si è avvantaggiato il complesso militar-industriale e il Pentagono, nel solco di un Keynesismo militare mai tramontato; e la guerra commerciale a colpi di dazi, che ha avvantaggiato alcuni settori produttivi, ma ne ha penalizzati altri a causa delle contromosse adottate dalla Cina.
Le minori entrate fiscali e le maggiori spese militari hanno fatto schizzare nell’ultimo anno il deficit federale a 779 miliardi, cioè il 17% in più in un solo lustro, cui si è aggiunta una maggiore spesa per gli interessi sul debito, con il rendimento dei Treasury a dieci anni che è passato dall’1,80 al 3,14%!
È interessante notare che il taglio delle tasse – che ha portato ad un ri-acquisto dei titoli borsistici nord-americani da parte dei gruppi eaccolti nell’indice delle 500 imprese più grandi di Wall Street – secondo una proiezione di JP Morgan potrebbe portare la cifra del ri-acquisti a 800 miliardi di dollari nel 2018, contro i 520 dell’anno precedente; un flusso di valore che ha fatto lievitare i maggiori indici borsistici dal Nasdaq, al S&P 500 al Dow Jones.
Un quarto dei beneficiari della riforma fiscale sono stati cittadini americani con un reddito annuo superiore al milione di dollari, mentre i profitti delle Corporations sono saliti in media del 16,1%, incrementando la concentrazione della ricchezza e il potere dei monopoli.
Un report di Moody’s (non proprio tacciabile di simpatie marxiste), da poco pubblicato, sostiene che il taglio alle tasse “contribuirà all’ampliamento delle disuguaglianza negli USA, esacerbando la concentrazione di reddito e ricchezza”.
Per comprendere il potere dei monopoli negli USA, citiamo un brano di un’intervista a Matt Stoller, ricercatore all’Open Markets Institute, realizzata da “Le Monde” il 1 novembre.
“I monopoli sono presenti in tutti i settori, dagli occhiali all’alimentazione, passando per il mercato editoriale. Per la fornitura dell’accesso a Internet la maggior parte degli americani non ha che due scelte. Quattro compagnie aeree controllano 80% dei biglietti aerei. La metà del mercato della birra è controllato da un gruppo di investimento brasiliano. Google e Facebook controllano il 75% della pubblicità della Rete. Potremmo proseguire all’infinito”.
Dietro le cifre sul buon andamento dell’economia, in termini di salari e di occupazione, si cela poi una realtà molto diversa.
Un ottima inchiesta di “Libèration”, del 1° ottobre, ha messo in luce la natura ingannevole delle cifre sparate da Trump, che danno un quadro della polarizzazione sociale.
Innanzitutto, dal 1980 al 2014 i redditi della metà degli americani più poveri non sono aumentati in alcun modo.
Dal 2009 al 2015, più del 50% del totale degli aumenti reddituali hanno riguardato solo l’1% degli americani più ricchi.
La precarietà sociale, che ha caratterizzato una buona parte della working class americana degli ultimi anni, ha portato alla mancata possibilità di “finanziare” la propria pensione, costringendo a lavorare una parte sempre più rilevante della popolazione ben oltre i 65 anni, la sola fascia di popolazione in cui il tasso d’occupazione è relativamente aumentato, passando dal 15,4% nel 2006 al 19,3% dieci anni dopo. E l’unica in cui appare destinato ad aumentare, secondo le previsioni del Bureau of Labor Statistics (BLS), fino al 23% nel 2026.
Altro dato; vi è una parte di “outsider” tenuti ai margini della società nord-americana, non contabilizzati dalle statistiche, una sorta di “fuoricasta” non classificati, di circa 23 milioni d’adulti tra i 25 e i 54 anni, che molti esperti attribuiscono al fenomeno “epidemico” di consumo di oppiacei che ha travolto la società americana.
Dal 1999 al 2016, su 100.000 decessi, la causa di morte per overdose da oppiacei è passata da 2,9 a 13,3 aumentando di ben più di 6 volte tra i bianchi (da 2,8 a 17,5), quasi triplicando tra gli afro-americani e raddoppiando tra i latino-americani, come riportato da una inchiesta di “Le Monde” del 29 ottobre!
Permane uno strato di sotto-occupazione che incrementa il fenomeno dei “working poor”, soprattutto tra i lavoratori a tempo parziale spesso costretti a svolgere più occupazioni contemporaneamente per sbarcare il lunario; circa il 5% della popolazione attiva, dato che raddoppia per ciò che concerne la popolazione afro-americana e ispano-americana, riproponendo “la linea di colore” come elemento di forte differenziazione all’interno della stratificazione sociale.
Una cifra dà il quadro dell’aumento della disparità della ricchezza sul lungo periodo più di qualsiasi altra: nel 2016, il 10% degli americani più ricchi concentravano su di sé il 47% del redditi nazionali, contro il 34% del 1980.
Sono anche questi dati reali che alimentano un senso d’insicurezza complessivo in quella “classe operaia bianca” che si è tradotto in un voto pro-Trump; una classe che vede quanto il livello di vita si sia deteriorato dal dopo-guerra fino ad oggi, e “i giorni migliori” siano al tramonto, e che gli Stati Uniti “rischino di perdere la loro cultura e la loro identità” (sette su dieci la pensano in questo modo!) sull’onda di un “calo demografico” dell’“America bianca”, che secondo le previsioni nel 2050 sarà solo la metà in rapporto alle altre comunità.
E’ su questa “percepita” perdita di status che il suprematismo bianco propugnato da Orange Man ha fatto breccia, senza per altro intaccare materialmente le condizioni di impoverimento della popolazione, ma anzi aumentando ulteriormente la polarizzazione sociale complessiva e le diseguaglianze tra gruppi sociali, portando solo pochi vantaggi a quella fetta di working class bianca a cui la propria propaganda si rivolge riaffermando i valori WASP anche contro l’irrompere nel dibattitto pubblico di temi da tempo banditi nella cultura politica nord-americana.
Saranno i risultati elettorali che ad indicare la capacità di tenuta della narrazione di Trump e il livello d’avanzamento di una alternativa politica “non moderata”, che le candidate e i candidati più progressisti, che hanno sfidato l’establishment democratico, stanno incarnando.
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