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Parlamentari turchi da Ocalan, ma si gioca sporco sul processo di pace

Il 24 novembre si è verificato il tanto atteso viaggio in delegazione di alcuni parlamentari turchi ad Imrali, per incontrare Abdullah Ocalan in merito al processo di pace in corso fra stato turco e PKK, così come stabilito dalla commissione parlamentare per la riconciliazione nazionale, la fratellanza e la democrazia”.

A darne l’annuncio è stato un comunicato del Parlamento, che ha definito l’incontro positivo. Il Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), fino ad oggi impegnato nella mediazione con Ocalan, ha definito la decisione della commissione parlamentare “storica” poiché per la prima volta Ocalan riceve la legittimazione istituzionale ufficiale come interlocutore dello Stato.

Durante la visita, secondo quanto è trapelato, sarebbero stati affrontati i temi più importanti: il destino dei militanti del PKK che disarmano e, soprattutto, la situazione delle Forze Democratiche Siriane (FDS) e la loro integrazione nelle strutture dello stato centrale.

Su quest’ultima questione, per non far deragliare l’intero processo di pace, è necessario mediare fra le esigenze delle SDF di mantenere una loro struttura al cospetto del nuovo regime qaedista e le preoccupazioni turche circa i pericoli per la propria integrità territoriale derivati dalla presenza di un’area autonoma curda, indipendente di fatto e supportata da potenze imperialiste, ai propri confini con la Siria.

Tuttavia, non si sa se per motivi di riservatezza (il verbale della riunione rimarrà segretato per 10 anni) o perché in realtà non si sono fatti sostanziali passi avanti, non è stato stato dato grande risalto ai risultati di questi colloqui, nemmeno dalla parte curda, che, quando si tratta di pronunciamenti di Ocalan, solitamente mette molta enfasi.

Al contrario, hanno fatto più rumore le assenze, in particolare nella composizione della delegazione. C’erano, infatti, soltanto un esponente del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), un esponente dei nazionalisti ed un esponente del DEM, ovvero i due partiti di governo e il partito incaricato di mediare. Si sono volontariamente chiamati fuori tutti gli altri partiti di opposizione, anche quelli che avevano accettato di entrare nella commissione parlamentare.

Particolarmente clamoroso è stato il passo indietro effettuato all’ultimo minuto da parte del Partito Popolare Repubblicano (CHP), principale partito di opposizione, nonostante quest’ultimo negli ultimi mesi si sia sempre dichiarato a favore del processo di pace e nonostante il potenziale autolesionistico di questa decisione. L’ondata di vittorie elettorali nelle elezioni locali degli ultimi anni, infatti, è avvenuta anche grazie al voto curdo.

La motivazione ufficiale è la mancanza di trasparenza nei vari passaggi politici di questo processo di pace. In realtà, probabilmente, la decisione è motivata in piccola parte dal riemergere, all’interno del partito, di pulsioni ideologiche anticurde e, in gran parte, dalla volontà di non allinearsi ad un processo di pacificazione nazionale voluto dal governo, proprio mentre i propri dirigenti e sindaci vengono arrestati e messi sotto processo uno dopo l’altro.

In tal senso, nei giorni scorsi è stato reso pubblico l’atto d’accusa nei confronti di Imamoglu, sindaco eletto di Istanbul, in carcere dal marzo scorso: rischia una condanna fino a 2.352 anni di reclusione perché accusato di essere il capo di un’organizzazione criminale, avente come scopo quello di fargli vincere in maniera fraudolenta il congresso del CHP e la candidatura alla Presidenza della Repubblica per il 2028. Contestualmente è stato richiesto l’avvio delle procedure legali per sciogliere il CHP. Inoltre, è in piedi anche l’accusa di spionaggio per conto della Gran Bretagna

Autore delle indagini è il famigerato procuratore Hakin Gurlek, che in passato si era occupato di alcuni processi nei confronti della sinistra filocurda per poi diventare Vice Ministro della Giustizia e tornare, infine, in Magistratura, nel ruolo di procuratore capo di Istanbul, subito dopo la rielezione a sindaco di Imamoglu. Un vero e proprio sicario governativo, insomma.

L’autoesclusione del CHP dal processo di pace rappresenta una vittoria per Erdogan nella sua tattica di dividere le opposizioni e cercare di attirare verso l’area governativa la sinistra filocurda o, comunque, il consenso curdo. Eppure , sono passati non più di 9 anni dai numerosi coprifuoco imposti in vaste aree del sud-est nell’ambito dell’ultima fase aspra del conflitto con il PKK.

Il Partito DEM, da parte sua, critica la decisione del CHP in quanto il processo di pace nasce per risolvere una questione, quella curda, che è storica e va al di là della lotta attuale fra governo e opposizioni. Tuttavia, ora si trova nella situazione scomoda di essere associato a una “manovra di palazzo” da parte della compagine governativa ed è esposto all’accusa di prestarsi ai suoi disegni neo-ottomani.

La vera mancanza di cui soffre il partito filocurdo è l’assenza di un vero dibattito pubblico e di una mobilitazione popolare a sostegno del processo di pace, come c’erano nel precedente tentativo del 2013-2015; in quest’occasione, tutto sta avvenendo esclusivamente tramite trattative fra vertici e gruppi politici.

Chi sta mobilitando in massa la propria base, in Turchia e in tutta Europa (dove gode dell’appoggio della “sinistra liberale”), è proprio il CHP, il quale, dall’arresto di Imamoglu, organizza periodiche manifestazioni contro la detenzione di sindaci e dirigenti di opposizione; rispetto a tali mobilitazioni il DEM, essendo coinvolto direttamente nella mediazione con Ocalan, mantiene un atteggiamento di adesione meramente formale, pur avendo a sua volta ancora moltissimi sindaci e dirigenti in carcere, come risultato della stagione repressiva dell’ultimo decennio.

Sulla testa del più popolare di questi prigionieri, ovvero Demirtas, si sta concentrando un gioco politico sporco, volto ad attribuirgli false richieste di grazia al Presidente e ad accreditare divaricazioni fra lui e il DEM o Ocalan. Il tutto mirante a screditarlo presso la sua base e ad ostacolarne la liberazione, che, per costituzione, sarebbe dovuta essere già avvenuta dopo la pronuncia definitiva della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) a suo favore.

Evidentemente, il profilo politico forte e autonomo di Demirtas, unico leader curdo ad avere consensi anche i fra i Turchi, è visto come un ostacolo nella cooptazione del consenso dei DEM verso l’area governativa.

Pertanto, dal carcere di Edirne, è dovuto così intervenire: “Sono entrato qui con onore e a testa alta. Ne uscirò con onore, o rimarrò qui fino all’ultimo giorno della mia vita. Non c’è alternativa per me… Qualsiasi dichiarazione, commento o pensiero che non ho condiviso direttamente non mi vincola”.

E sulle presunte differenze fra lui e Ocalan: “Non ho alcuna competizione, divergenza o scontro con Abdullah Öcalan. La visione, il ruolo e la responsabilità storica di Öcalan sono molto importanti, e solo lui può farsene carico… Sono entrato in politica nel Partito della Società Democratica (DTP), e il Partito DEM, l’attuale rappresentante della nostra tradizione politica, è il mio unico partito. Anche se un giorno dovessi entrare in politica, la mia casa è il Partito DEM. Qualsiasi ipotesi che io possa fondare un altro partito o passare a un altro è pura speculazione”.

Questo tentativo di dividere il movimento curdo (e tutta la sinistra) potrebbe avere il suo punto di caduta nel caso in cui, come sembra, dovesse essere emessa un’amnistia parziale che copra solo alcuni militanti del PKK, escludendo gli altri prigionieri politici (per non dover liberare quelli con maggior consenso popolare). Nel mentre, come detto, si attende ancora l’esecuzione delle sentenze definitive della CEDU.

In definitiva, si stanno palesando una serie di nodi non sciolti e di sfacciati tentativi di strumentalizzazione politica che stanno minando la credibilità del processo di pace. Gli atti simbolici non possono bastare.

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