Menu

I coloni se ne vadano: decolonizzazione, non coesistenza

Introduzione

Nel suo recente saggio su Mondoweiss, Lara Kilani osserva che quando i liberali occidentali o segmenti della sinistra internazionale promuovono una “soluzione a Stato unico“, spesso immaginano un futuro in cui palestinesi e israeliani diventano co-cittadini, condividendo istituzioni, diritti civili e un’armonia a cui aspirano.

Ma per molti palestinesi, soprattutto coloro che vivono in prima persona l’assedio, lo sfollamento, i bombardamenti, la confisca delle terre e la continua frammentazione del loro mondo sociale e politico, questo invito all’integrazione si legge meno come una liberazione e più come una richiesta di neutralizzare il significato politico della loro sofferenza.

La critica di Kilani è incisiva. Sostiene in modo convincente la necessità di porre al centro le prospettive e le realtà materiali palestinesi, piuttosto che proiettarvi sopra soluzioni ideologiche concepite esternamente: qualsiasi visione di un unico Stato che non affronti le strutture del Colonialismo di Insediamento rischia di normalizzarne gli esiti. Il suo intervento mette in luce la superficialità concettuale delle fantasie liberali che confondono la coesistenza con la giustizia.

Tuttavia, per trasformare la sua intuizione in un intervento politico più ampio, dobbiamo ampliare il quadro che lascia sottosviluppato: cosa intendono realmente i palestinesi con “uno Stato democratico”, le versioni decoloniali più forti di quella visione, la morte strutturale del modello dei Due Stati e, cosa più difficile, come può manifestarsi la Liberazione quando la società dei coloni si rifiuta di andarsene.

I. Cosa significa realmente “uno stato democratico” per i palestinesi

Kilani osserva, correttamente, che le preferenze palestinesi non sono monolitiche e che il sostegno a uno “Stato democratico” non è né maggioritario né stabile nel tempo e nella geografia. Ma il punto cruciale non è semplicemente che i palestinesi non siano d’accordo. Il fatto è che “un unico Stato democratico”, come immaginato da molti attivisti occidentali, ha poca somiglianza con ciò che i palestinesi stessi intendono quando parlano di una politica condivisa.

Per molti palestinesi che sostengono uno Stato unico, me compresa, la visione politica che lo sottende non è l’integrazione in un ordine esistente. Nel mio saggio “Non Chiamatemi Ismaele; Non Chiamatemi Israele, Chiamatemi Uno Stato Democratico!“, inizio denunciando Israele come una formazione coloniale d’insediamento la cui struttura si basa sulla Cancellazione della presenza palestinese materiale, legale e storica, dalle tombe e dalle moschee ai villaggi, ai registri catastali e alle categorie di cittadinanza.

Tracciando le profanazioni contemporanee accanto alle dichiarazioni Sioniste d’archivio e alle leggi di esclusione, mostro che questi atti non sono deviazioni, ma l’espressione logica dell’architettura fondante dello Stato.

L’espressione “uno Stato democratico nella Palestina Storica” ​​non è quasi mai, per i palestinesi che la usano, una richiesta di parità di diritti all’interno dell’Ordine Sionista esistente. È la sintesi di una decolonizzazione completa: ritorno, restituzione delle terre, smantellamento delle leggi e delle istituzioni dell’Apartheid e un nuovo ordine costituzionale svincolato dai privilegi etnonazionali.

Kilani individua il divario tra questa visione e le proiezioni liberali occidentali, ma non ne delinea appieno le conseguenze strategiche: il sostegno palestinese a un quadro democratico unitario, laddove esiste, nasce da una richiesta di giustizia fondamentale, non dal desiderio di integrarsi nello Stato Coloniale così com’è.

II. La più forte visione di uno stato unico, e perché il potere la rende irraggiungibile, per ora

La versione più forte della proposta di uno Stato Unico richiede lo smantellamento delle strutture legali e militari Sioniste, il ritorno, la ridistribuzione delle terre, la giustizia di transizione e una costituzione laica che ripudi l’etnonazionalismo.

Eppure il problema centrale persiste: non esiste un percorso plausibile dall’attuale equilibrio di forze a questo orizzonte. Un futuro di uno Stato Unico autenticamente decolonizzato richiederebbe la de-Sionizzazione di Israele, la rinuncia alla Supremazia militare, nucleare ed economica, lo smantellamento di un’economia politica basata sul Colonialismo d’Insediamento e l’assorbimento di milioni di rifugiati di ritorno, trasformazioni che lo Stato israeliano è strutturalmente progettato per impedire.

Elencare questi ostacoli non è pessimismo; è chiarezza politica. Il divario tra ciò che la giustizia richiede e ciò che l’attuale struttura di potere può tollerare non è una debolezza concettuale della visione di uno Stato Unico, ma una condizione strutturale che deve essere affrontata onestamente.

III. Il modello dei due stati come meccanismo di gestione

Kilani non lo dice, ma è altrettanto vero, che le alternative più diffuse, Due Stati o una qualche forma rafforzata di autonomia palestinese, non sono più realistiche delle più forti visioni di un unico Stato, che spesso vengono invocate per contrastare. Se la fantasia di un unico Stato può oscurare la profondità del potere strutturale israeliano, la fantasia dei Due Stati oscura le realtà politiche, territoriali e demografiche che l’hanno già preclusa.

Uno Stato Palestinese vitale è stato reso strutturalmente impossibile dalla frammentazione della Cisgiordania in enclave isolate, dall’annessione e giudaizzazione di Gerusalemme, dall’incessante espansione degli insediamenti e dal controllo totale di Israele su confini, spazio aereo, importazioni, energia e tassazione.

La distruzione di Gaza come sistema politico vivibile, la grave crisi di legittimità e capacità dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’impegno degli Stati Uniti e dell’Unione Europea per un “processo di pace” privo di esiti imponibili assicurano che la “statualità” rimanga permanentemente sospesa.

In queste condizioni, la teoria dei Due Stati non è un orizzonte diplomatico, ma una tecnologia retorica, che rinvia indefinitamente la Liberazione Palestinese e funziona come un Meccanismo per gestire una popolazione Colonizzata piuttosto che per risolvere una condizione coloniale. Promette un futuro che la struttura stessa è costruita per impedire.

Questo non è un fallimento neutrale; è una strategia di governo, che ha assorbito con successo decenni di richieste palestinesi in un processo senza fine. E continua a farlo con il “Piano di Pace” di Trump.

IV. Quando i coloni restano: la domanda più difficile del dibattito

La domanda più difficile è cosa significhi decolonizzazione quando la società dei coloni non se ne va. L’articolo di Mondoweiss accenna a questo dilemma, ma non lo affronta direttamente. Eppure questo è il nocciolo del problema.

In quasi tutti i casi storici in cui i coloni sono rimasti, l’Algeria è la rara eccezione, dove la stragrande maggioranza dei coloni europei se ne è andata solo dopo una prolungata guerra anticoloniale, sono emerse due traiettorie.

Nel primo caso, il dominio strutturale è stato ricostituito sotto nuove vesti costituzionali o multiculturali. Il Sudafrica post-Apartheid offre l’esempio più chiaro: l’uguaglianza formale è stata raggiunta, ma le gerarchie economiche razzializzate, i modelli di distribuzione della terra e le strutture di sicurezza sono rimasti sostanzialmente intatti.

L’indipendenza della Namibia ha preservato quasi integralmente la proprietà terriera dell’era coloniale, mentre l’amministrazione marocchina del Sahara Occidentale riconosce l’identità Saharawi in linea di principio, ma mantiene un regime politico e di gestione delle risorse estrattivo. Qui, la forma coloniale sopravvive attraverso l’apparenza della trasformazione.

Nel secondo caso, ha preso forma una formazione politica ibrida che ha preservato la Supremazia militare ed economica dei coloni, garantendo alle popolazioni native solo un’uguaglianza civica simbolica o limitata.

Questo modello è visibile nella Polinesia francese e in Nuova Caledonia; in Kenya dopo la rivolta dei Mau Mau, dove l’élite dei coloni ha rinunciato alle cariche politiche ma ha mantenuto proprietà terriere sproporzionate; e nel Sud degli Stati Uniti del dopoguerra civile, dove i diritti civili nominali hanno mascherato la persistenza del controllo strutturale dei bianchi. In questi casi, il Dominio non viene abolito, ma ridistribuito e riconfezionato.

Nessuna delle due traiettorie equivale alla liberazione. Ecco perché la Questione Palestinese non può essere ridotta ai soliti binari di uno Stato contro due, integrazione contro indipendenza, o coesistenza contro separazione. La questione più profonda è come si possa immaginare la Liberazione quando la società dei coloni intende mantenere la sovranità, il dominio militare e la permanenza demografica. Qualsiasi orizzonte politico credibile deve iniziare affrontando direttamente questo aspetto, piuttosto che darlo per scontato.

V. Precisione contro il potere: dare un nome all’architettura reale

Il saggio di Kilani include una frase sferzante, citata da un amico, che si chiede chi vorrebbe “vivere e condividere lo spazio con i Genocidi“. Il termine cattura l’esperienza viscerale dei palestinesi sopravvissuti, testimoni o plasmati dal Genocidio, ed è del tutto appropriato come espressione di come le proposte integrazioniste siano percepite nel mezzo di una violenza di massa.

Tuttavia, poiché l’espressione appare priva di ulteriori differenziazioni analitiche, rischia di essere interpretata come un collasso dello Stato israeliano, delle sue istituzioni e delle sue diverse componenti sociali in un’unica categoria indifferenziata.

Kilani stessa non si impegna in tale appiattimento; la sua attenzione si concentra sul significato politico della sofferenza palestinese e sull’inadeguatezza degli immaginari liberali di uno Stato unico, non sulla fornitura di una mappa sociologica del potere israeliano.

Ma è proprio qui che un’ulteriore chiarezza rafforza la critica. La politica dello Stato israeliano può essere descritta come Genocida ai sensi del Diritto Internazionale; i sondaggi d’opinione durante la guerra di Gaza hanno mostrato un ampio sostegno all’intensificazione della violenza; e la società israeliana è profondamente stratificata lungo linee etniche, di classe, religiose e ideologiche: élite Ashkenazite, cittadini Mizrahi, russi, etiopi, Haredi e coloni occupano posizioni diverse all’interno dell’Ordine Razziale e Politico.

Nel frattempo, istituzioni statali distinte come l’Amministrazione Civile, il Coordinatore delle Attività Governative nei Territori (COGAT) e il Ministero della Sicurezza Nazionale, traducono l’ideologia nel quotidiano meccanismo di espropriazione e controllo. Nominare questi livelli non attenua l’accusa, ma la acuisce.

Distinguendo tra politica, ideologia, sentimento pubblico, meccanismi istituzionali e gerarchie sociali interne, i palestinesi possono descrivere il dominio con maggiore precisione e sviluppare strategie che si confrontano con l’effettiva architettura del potere piuttosto che con un’astrazione indifferenziata.

VI. Dalle fantasie costituzionali alla costruzione del potere decoloniale

Questo riconoscimento, che né l’integrazione nello Stato Coloniale esistente, né un mini-Stato territorialmente troncato possono portare alla liberazione, richiede un cambiamento fondamentale di prospettiva. Il compito non è scegliere tra progetti fallimentari, ma identificare gli imperativi politici che derivano da una lucida valutazione delle strutture di dominio già in atto.

La liberazione inizia con la riaffermazione dell’agenzia politica palestinese e il rifiuto dell’esternalizzazione delle aspirazioni palestinesi a circoli di pensiero occidentali, Regimi donatori o infrastrutture di solidarietà che continuamente scrivono “ciò che i palestinesi vogliono“. Richiede il decentramento dello Stato stesso: l’ossessione per la statualità, che sia una o due, ha ristretto l’immaginazione politica e oscurato la possibilità di forme di vita collettiva non stataliste, in rete, transnazionali o confederali.

La morsa fiscale di Israele, il controllo sulle entrate doganali, sull’IVA, sulle dogane e su ogni arteria economica, non è un dettaglio tecnico, ma il Meccanismo centrale che trasforma l'”autonomia” in dipendenza gestita. Qualsiasi forma costituzionale negoziata mentre questa morsa rimane intatta non farà altro che formalizzare la prigionia sotto una nuova bandiera.

La liberazione richiede quindi innanzitutto la costruzione di resilienza materiale ed economica: istituzioni parallele, meccanismi di resistenza fiscale, cooperative di difesa del territorio, reti transnazionali e strumenti digitali e finanziari che allentino la presa dell’occupante. Solo su questo terreno le questioni costituzionali possono diventare significative anziché decorative.

Lo stesso principio si estende al più ampio campo politico. La libertà di movimento, la restituzione delle terre e il Diritto al Ritorno devono essere trattati come elementi fondamentali piuttosto che negoziabili e subordinati al disegno costituzionale. E la lotta deve essere situata all’interno delle trasformazioni globali: il declino degli Stati Uniti, l’emergere della multipolarità, i mutevoli allineamenti arabi e le nuove forme di organizzazione digitale ed economica.

La vulnerabilità di Israele è strutturale, non morale; il suo potere si basa su sistemi che possono essere indeboliti, non su rivendicazioni etiche che ha da tempo rinunciato. Qualsiasi orizzonte di liberazione credibile deve rispondere a questa realtà con chiarezza strategica, non simbolica.

VII. Conclusione: nessun progetto senza potere

La liberazione richiede una chiarezza incrollabile. L’intervento di Kilani è importante perché mette in luce la facilità con cui le aspirazioni palestinesi vengono sopraffatte da proiezioni esterne, la rapidità con cui le richieste di “coesistenza” o “uguaglianza” dissolvono il significato politico della sofferenza palestinese.

Ma la visione più profonda che il suo saggio apre, e che questo intende perseguire, è che individuare i limiti delle fantasie liberali è solo l’inizio.

Se l’integrazione non è liberazione, e se la formula dei Due Stati è da tempo diventata un meccanismo di gestione della popolazione piuttosto che un orizzonte politico, allora i palestinesi e i loro alleati devono affrontare quanto segue: nessun progetto costituzionale, uno Stato, due Stati, confederazione, può sostituire il lavoro di costruzione del potere decoloniale.

Un futuro giusto non dipende dalla scelta del modello corretto, ma dalla riorganizzazione della vita politica palestinese, dall’indebolimento delle strutture che sostengono la Supremazia israeliana, dal rafforzamento della leva internazionale e dal ripristino dell’autonomia palestinese al centro dell’immaginario politico.

Kilani ha ragione nel dire che la chiarezza è temuta dal potere. Il compito ora è estendere quella chiarezza alla strategia: identificare le strutture che limitano le possibilità palestinesi, rifiutare i quadri che addomesticano le richieste palestinesi e immaginare la Liberazione non come ciò che il mondo tollererà, ma come ciò di cui i palestinesi hanno bisogno per vivere liberamente sulla loro terra.

 * Rima Najjar è una palestinese la cui famiglia paterna proviene dal villaggio di Lifta, spopolato con la forza, nella periferia occidentale di Gerusalemme, e la cui famiglia materna è originaria di Ijzim, a Sud di Haifa. È un’attivista, ricercatrice e professoressa in pensione di letteratura inglese presso l’Università Al-Quds, nella Cisgiordania Occupata.

Traduzione: La Zona Grigia – Fonte: https://rimanajjar.medium.com/the-settlers-are-not…

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *