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Cile. Il voto dei poveri contro se stessi

Nelle ultime elezioni cilene, è emerso un fenomeno inquietante: ampi settori di lavoratori e casalinghe hanno votato per candidati contrari all’aumento del salario minimo e alla riduzione della settimana lavorativa a 40 ore. Questo fatto non può essere compreso solo con una logica economica, ma piuttosto attraverso un complesso mix di processi psicologici, sociologici, antropologici e filosofici intrecciati nel contesto culturale del Paese.

In Cile, il voto ha da tempo cessato di essere una decisione basata sul benessere materiale ed è diventato un atto carico di identità, emozione e aspirazione simbolica. Molti settori della classe operaia non votano più in base alla loro realtà attuale, ma piuttosto in base all’identità che desiderano proiettare. In un Paese segnato da decenni di egemonia neoliberista, si è radicata profondamente l’idea che il successo dipenda dal merito individuale, che la precarietà sia il risultato di sforzi insufficienti e che lo Stato sia più un ostacolo che un protettore.

In questo quadro, anche coloro che vivono con salari bassi o in condizioni di lavoro difficili sentono che sostenere rivendicazioni sociali li “degradi” o li associ a un’immagine di dipendenza che rifiutano. Perciò, votare per chi promette ordine, disciplina o “mano ferma” diventa un modo per differenziarsi simbolicamente dallo stigma della povertà, anche quando queste proposte vanno contro il proprio benessere materiale.

A livello psicologico, operano meccanismi come la dissonanza cognitiva: quando una persona si sente ormai identificata con un candidato, ne giustifica le decisioni anche se sono dannose. Entrano in gioco anche la paura e la manipolazione emotiva: di fronte a una retorica che associa il miglioramento delle condizioni di lavoro alla crisi economica, alla perdita del lavoro o a uno scenario “chilezuelano”, l’emozione prevale su qualsiasi analisi razionale.

Sociologicamente, l’appartenenza sociale diventa centrale. Molte persone si sentono più vicine a una classe media immaginaria che al proprio gruppo sociale. Aspirare a “essere come quelli al vertice” è più forte che riconoscere la propria vulnerabilità. Pertanto, votano basandosi sulla fantasia di un futuro che non esiste, temendo che il miglioramento delle condizioni di lavoro “spaventi gli investimenti” o “danneggino il Paese“, anche se in pratica significa solo dignità per chi lavora.

A livello antropologico, la politica funziona come un rituale di appartenenza. Il voto non esprime interessi materiali, ma lealtà simboliche: definisce da che parte sto, quali valori sostengo e contro quale gruppo mi posiziono. In un paese profondamente frammentato, le persone votano più in base alla tribù morale con cui si identificano – ordine, impegno individuale, sfiducia nello Stato – che in base alla loro realtà concreta. Questa dimensione rituale spiega perché si possa votare “contro i propri interessi” senza sentirsi in contraddizione.

Filosoficamente, ciò che si verifica è una forma sofisticata di alienazione: la classe operaia adotta la prospettiva del gruppo dominante come se fosse la propria. La narrazione neoliberista è diventata così naturalizzata che molti lavoratori difendono gli interessi aziendali come se fossero i propri.

Questa alienazione è aggravata dalla biopolitica della paura, in cui i media, le élite e i discorsi sull’ordine plasmano la percezione della realtà più dei fatti stessi. E, come descrive Nietzsche, parte del voto risponde a una moralità reattiva: non si vota solo per qualcuno, ma contro un altro gruppo percepito come responsabile del malcontento. Il voto è pieno di risentimento, frustrazione e un senso di perdita di controllo, libera tensioni piuttosto che cercare soluzioni.

Ecco perché il fenomeno che osserviamo non è semplicemente che “non reagiscono nemmeno quando gli mettono le mani in tasca“. È che per decenni si è costruito un senso comune in cui l’identità è più importante della dignità, la paura pesa più dell’evidenza e l’aspirazione simbolica supera i bisogni reali.

Il declino di classe cileno non ha limiti perché non è economico: è emotivo, culturale e profondamente ideologico. Questa è la vera diagnosi presente politico del Cile.

 * psicologa sociale

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2 Commenti


  • Matteo

    Solo del Cile?


  • Giorgio

    Questo si applica perfectamente anche all Italia…

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