Brutto colpo per la credibilità di Al-Jolani e del suo governo qaedista. Il 13 dicembre, nei pressi di Palmira un attentatore ha aperto il fuoco contro una pattuglia americana che, in compagnia di personale siriano, stava effettuando attività di “key leader engagement”, ovvero incontri con capi tribali locali per ottenere appoggio nell’ambito della lotta contro le cellule dormienti dell’Isis, che operano in quelle aree.
Parliamo di una zona desertica situata al centro della Siria, nel governatorato di Homs, in cui è schierata la settantesima divisione dell’esercito siriano, ex Esercito Siriano Libero, formata e addestrata proprio dagli USA nella base di Al-Tanf dal 2016.
Il bilancio finale è di tre statunitensi morti, due militari ed un civile (che faceva l’interprete) e cinque feriti, due soldati siriani e tre statunitensi. Anche l’attentatore è stato ucciso sul posto.
Si tratta delle prime perdite per gli USA, dalla caduta del regime baathista.
Immediatamente Trump ha scritto un post su Truth in cui ha incolpato l’Isis e si è mostrato benevolo verso Al-Jolani, descrivendolo come “estremamente arrabbiato e turbato da questo attacco”; il tycoon ha però, dovuto ammettere che le forze siriane “non controllano pienamente” l’area dove è avvenuto il fatto. Ovviamente, ha concluso che “ci saranno gravi ritorsioni”.
Ma contro chi? Dopo qualche tira e molla informativo, le autorità qaediste hanno dovuto ammettere che l’attentatore fosse un membro delle proprie forze di sicurezza interne. Che, però, “stava per essere licenziato a causa delle sue visioni estremiste”. Così ha provato a cavarsela il Ministero dell’Interno di Damasco.
Anche a Washington l’imbarazzo è evidente. Mentre si cerca di dipingere il governo siriano come affidabile e come risultato di un modello di cambio di regime che collima con le priorità strategiche attuali, non avendo implicato un intervento diretto, ecco che emergono gli “scheletri nell’armadio”: buona parte delle milizie che formano le forze armate delle nuove autorità di Damasco agiscono ancora secondo i dettami della loro ideologia estremista salafita, forse conservando anche legami organizzativi con l’Isis.
In tal senso, si ricorda che uno dei “risultati” della visita effettuata da al Al-Jolani alla Casa Bianca non più tardi di un mese fa è stato l’ingresso formale della Siria nella rediviva “coalizione internazionale anti-Isis a guida USA”.
Il colpo per la credibilità di Damasco è forte e potenzialmente disastroso specialmente alla luce del fatto che nei giorni precedenti era arrivata la prima, vera vittoria al Congresso: la Camera dei Rappresentanti, infatti, aveva votato per la rimozione del Caesar Act, senza inserire alcuna condizione di reintroduzione automatica, come, invece, chiedono Israele e le Forze Democratiche Siriane (FDS), secondo i quali, appunto, la revoca delle sanzioni dovrebbe essere subordinata all’adesione reale di Damasco alla lotta ai residui dello stato islamico e al rispetto delle minoranze (anche se fa un pò ridere che quest’ultima richiesta provenga da uno stato di apartheid).
Ora è prevedibile che la lobby sionista torni alla carica al Senato per apportare delle modifiche al provvedimento.
In tal senso, il solito Jerusalem Post, in un articolo di analisi quasi gongolante per quanto accaduto a Palmira, si sofferma sulla presenza, nell’esercito siriano, di ufficiali già in passato sanzionati dagli USA per la loro condotta estremistica, provenienti specialmente dalle milizie filoturche, ed invita ad “imparare la lezione”, privilegiando la collaborazione con le FDS.
L’attentato di Palmira e, in generale, la continua dimostrazione di inaffidabilità da parte di Damasco potrebbero avere conseguenze proprio sulla questione dell’integrazione delle FDS nelle strutture centrali.
Si rafforza, infatti, la posizione di quanti, specialmente all’interno del Pentagono, premono affinché la presenza militare nel nord-est continui ad essere finanziata anziché venire diminuita drasticamente – come chiedono gli esponenti più vicini a Trump, quali Tom Barrack – in quanto le FDS continuano a dimostrarsi le milizie più affidabili.
Di riflesso, si rafforzano anche le rivendicazioni di decentramento molto spinto portate da parte delle FDS stesse, in contrapposizione alle spinte centraliste provenienti specialmente da Ankara, che teme l’emersione di analoghe rivendicazioni autonomiste nelle aree curde all’interno dei propri confini.
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