Ventisette paesi riuniti per decidere come finanziare ancora la guerra in Ucraina, mettendo soldi per altre armi e stipendi subito e accantonandone altri per la futura ricostruzione del paese. C’è una certezza: il conto è quasi per intero sulle spalle della UE, visto che gli Usa di Trump hanno perso interesse per questa partita.
Il tema centrale degli ultimi giorni è stato: si prendono di prepotenza gli asset russi (210 miliardi) depositati negli istituti europei oppure si fa debito comune (in percentuale alla ricchezza di ogni paese)?
La prima ipotesi è allettante, o lo sembra, perché il conto verrebbe così girato alla Russia. Ma le controindicazioni sono devastanti, specie per un insieme dagli interessi economici non più tanto allineati.
Intanto, come si è scritto più volte, quei soldi sono quasi tutti congelati nell’istituto belga Euroclear, e dunque il premier di quel paese si rifiuta – comprensibilmente – di consentire il prelievo di una cifra mostruosa per le sue finanze con la quasi certezza che poi sarebbe obbligato a restituirla a Mosca. Chiede pertanto “garanzie ferree”, esigibili senza rinvii, dagli altri 26 membri della UE.
E già questo riporta in pratica alla seconda ipotesi: col debito comune? L’idea è esclusa dalla Germania, da sempre contraria e già abbastanza innervosita di suo – insieme ad altri paesi “virtuosi” – per gli effetti della politica monetaria della Bce fin dai tempi del “whatever it takes” di Mario Draghi per salvare l’euro. Gli acquisti di titoli di stato da parte della Bce erano stati per forza di cose sbilanciati, privilegiando i bond delle “cicale” mediterranee, che altrimenti sarebbero andate in default, e trasferendo così un po’ di ricchezza dai paesi solidi a quelli in bilico.
Dunque bisogna cercare di fregarsi i soldi russi… Qui emerge il secondo problema, inaggirabile sul piano “legale”. Euroclear non è propriamente una banca, ma un’infrastruttura che regola transazioni per oltre 30 mila miliardi di euro al mese, in gran parte obbligazioni, di cui assicura la custodia e la regolazione fra le parti in ogni scambio.
Tra i suoi azionisti di riferimento ci sono la banca centrale cinese, i fondi sovrani di Australia, Nuova Zelanda e Singapore, le banche pubbliche della Francia e del Belgio. I depositi fissi ammontano a 42mila miliardi di euro, ma per far fronte alle emergenze dispone di soli 5 miliardi. Niente, di fatto.
La tenuta di Eurclear è tutta affidata alla sua credibilità. Qualsiasi cifra a lei affidata – fossero pure solo 10 euro – restano a disposizione immediata del legittimo proprietario, altrimenti ogni altro depositante troverà impossibile restare tranquillo. Chi mai affida i propri soldi a qualcuno che può decidere di tenerseli per una scelta politica?
E questo senza neanche calcolare le sicure ritorsioni russe sugli asset europei là giacenti (stabilimenti industriali francesi, 18 miliardi depositati, le filiali di Unicredit ancora aperte, ecc).
Immaginare marchingegni “legali” per arrivare all’esproprio è insomma possibile, ma nella realtà del mondo degli affari stabilire un simile precedente significar far fuggire quasi tutti gli altri; o almeno quelli “a rischio politico” (arabi, cinesi, ecc).
E’ come la differenza tra matematica e fisica. In matematica puoi immaginare qualsiasi cosa, anche uno spazio a “n dimensioni” (da 1 all’infinito) e svolgere tutte le operazioni che ti proponi. In fisica ti devi fermare a sole quattro dimensioni, è già la quinta diventa campo aperto per la letteratura fantascientifica (per qualche dimensione in più, fino a 10-11, bisogna ascoltare e capire i fisici da premio Nobel che ragionano sulla “teoria delle stringhe”).
Il problema che sta davanti ai nanerottoli europei è insomma gigantesco. Non si tratta soltanto di garantire l’eventuale buco da 180 miliardi che si aprirebbe – a richiesta russa – nei conti di Euroclear e quindi del Belgio, ma di mantenere la credibilità mondiale di un’infrastruttura finanziaria che fa girare capitali anche e soprattutto in Europa.
Il che coinvolge direttamente la credibilità della moneta unica, peraltro già di suo sotto tensione per il citato malessere dei “virtuosi”. Ma anche quella della stessa Unione, in queste ore alle prese con la firma dell’accordo commerciale con il Mercosur – la Francia è contraria, la Germania lo sostiene, l’italietta chiede un rinvio, ecc – e l’ultimatum posto dal brasiliano Lula: “o si firma questo sabato (dopo venti giorni di rinvio), oppure non si fa più“.
Ma non è di questo che finora hanno parlato i 27. Solo del “marchingegno” legale da inventare per mettere le mani su “appena” 180 miliardi.
C’è in definitiva uno scarto bestiale tra la supponenza tardocoloniale con cui si muovono e cianciano questi sedicenti “leader” e la realtà di un mondo ormai multipolare di fatto, dove cioè i pesi specifici di paesi o macroaree economiche sono decisamente cambiati.
Il grafico qui di fianco mostra senza possibilità di dubbio cosa vada in realtà inteso per “declino europeo” – dunque anche occidentale, euro-atlantico nel suo insieme: non solo o non tanto un “impoverimento assoluto” (che pure c’è stato soprattutto per le classi popolari), quanto una perdita di “peso specifico” in relazione agli altri soggetti, storici o emergenti.
Qualsiasi decisione emerga dal vertice, insomma, a bocce ferme è sbagliata. Sia che si scelga una delle due ipotesi, sia che si proceda “a maggioranza” oppure “all’unanimità”.
Non c’è modo di ribaltare con “marchingegni” una sconfitta strategica sul campo, che mette totalmente in discussione il “modello di crescita” e gestione del potere vigente da quasi 40 anni.
E’ cambiato il contesto e il sistema delle alleanze (gli Usa stanno pensando ad altro…), non si è più “centrali” come qualche decennio fa, ma ci si sta comunque facendo”nemico” tutto il mondo senza avere più neanche “la forza” per minacciarlo.
Un soprassalto di serietà vitale, da questa borghesia morente, non è nelle attese. Bloccare tutto per cambiare tutto, con una via d’uscita socialista in testa, appare ogni giorno di più l’unico modo di evitare il baratro della guerra.
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