I metalmeccanici si sono ritrovati a discutere con molti segretari di altre categorie con seri problemi contrattuali negli ultimi tempi. E se la presenza di Carla Cantone (Spi) e Mimmo Pantaleo (Flc) al fianco delle tute blu non è una novità, quelle di Walter Schiavella (edili), Alberto Morselli (chimici) e Franco Martini (commercio) ha fatto parlare qualcuno di «direttivo ombra».
Ne è venuta fuori una discussione sul futuro a breve della Cgil che non ha rispettato affatto gli schieramenti di appena 10 mesi fa (al congresso di Rimini). Espliciti i riferimenti critici alla «proposta di nuovo modello contrattuale» avanzata dalla segreteria confederale nei giorni scorsi; al punto che Fabrizio Solari – membro della segreteria – l’ha in qualche modo reinterpretata come «non una cosa da ratificare». E tantomeno del Direttivo convocato subito dopo lo sciopero generale. Del resto, ammette Solari, «qualche vuoto di analisi» c’era già a Rimini, e comunque «molte cose nuove sono avvenute» (dalla Fiat ai contratti separati, che saranno forse pochi di numero, ma lasciano 7,5 milioni di lavoratori senza una copertura decente).
Quanto basta per far chiedere a molti – a partire da Maurizio Landini, segretario generale Fiom – che «allora non si può pensare di far passare quella proposta a maggioranza»; anche perché «i dati dicono che la perdita di potere d’acquisto del salario è generalizzata, vale per chi un contratto unitario l’ha firmato come per gli altri; quindi è questo modello contrattuale che non funziona».
Il nodo che ritorna è quello del rapporto con gli altri sindacati confederali, ormai «complici» del governo e a disposizione delle imprese. Un «salto epocale» – e ci si scherza anche sopra – verso il sindacato «di servizio», che si muove nella logica della «gestione» sul posto di lavoro e fuori, non in quella della «contrattazione». È un nodo che differenzia molto, non tanto sul «giudizio», quanto sulle scelte tattiche. «Come si riconquista un contratto anzionale con sindacati divisi?». Soprattutto se viene messo in discussione il principio stesso della contrattazione colletiva.
Qui affonda il bisturi dell’analisi storica e giuridica Umberto Romagnoli, una vita da docente a Bologna, quantificando «il costo dell’unità sindacale nel dopoguerra». Un dare con ben poco avere, per la Cgil. Nè più né meno che la rinuncia a rendere operante l’art. 39 della Costituzione. «Si è accettato un sistema informale di regole», una specie di «privatizzazione del diritto collettivo» nelle relazioni industriali, compresa «l’inderogabilità dei contratti di diritto comune, l’erga omnes, che si reggevano solo su un patto non scritto: che l’imprenditore fosse disposto a firmarlo». In pratica, per 60 anni, i sindacati confederali trovavano prima un accordo tra loro «per via pattizia», e poi trattavano con gli imprenditori. Nessun obbligo di legge per nessuno. Quando Marchionne ha rovesciato questa «consuetudine» si è visto che «il re era nudo»: senza regole certe, né rappresentanza certificabile.
Ora si cercano le regole. Condivise, esigibili, con due livelli di contrattazione (ma come si fa ad «allargare il contratto nazionale fino agli atipici» e volerlo anche «più leggero?»). Le furbizie del passato ti inseguono e ti chiedono conto proprio quando hai il fiato più corto. Se ne può uscire, certo, ma «solo ricostruendo prima un rapporto di forze accettabile a livello sociale». Hic Rhodus, hic salta!
* da “il manifesto” del 13 aprile 2011
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