Le «furbate» difficilmente semplificano i problemi. In genere li moltiplicano.
È la lezione che si deve trarre dalla sentenza emessa lunedì da tribunale di Torino. Riguarda – nello specifico – la Bulloneria Barge di Borgaro. Ma poiché accoglie il primo ricorso proposto dalla Fiom contro l’applicazione del «contratto separato» del 2009, riguarda di fatto tutte le fabbriche metalmeccaniche in cui la Fiom è presente. E sono davvero tante.
L’avvocato della Fiom torinese, Elena Poli, è consapevole che le questioni sollevate sono davvero tante. Una premessa – per orizzontarsi – va fatta. Tutto è cominciato nel gennaio 2009, quando Confindustria, governo, Cisl e Uil hanno firmato un accordo che riformava il «modello contrattuale»; ovvero il quadro di regole da cui discendono i contratti di categoria. In Italia non c’è una legge particolare che disciplina questa materia, e nemmeno la rappresentanza sindacale. Così, «i contratti di lavoro sono normali contratti tra privati, come quello d’affitto».
Alla fine del 2009, Fim e Uilm hanno disdetto il contratto dei metalmeccanici in vigore dal 2008, firmato anche dalla Fiom, e raggiunto un’intesa – altrettanto «privata» – con Federmeccanica. Naturalmente peggiorativa delle condizioni di lavoro e con un aumento salariale ridicolo. Ma il contratto del 2008 non era legalmente scaduto, perché «non tutti i contraenti lo avevano sciolto». Altrimenti sarebbe troppo comodo: non voglio più pagare il mutuo o l’affitto e smetto di farlo, anche se la controparte non vuole. Per la Fiom il contratto 2008 era valido e quindi ha inviato ben due lettera di diffida a rispettarlo a tutte le imprese. Molte hanno concordato la «perdurante vigenza» di quello del 2008, altre hanno varato comunque il nuovo accordo. E lì è scattato il ricorso.
Ora la sentenza Barge fissa un precedente. Federmeccanica, tramite il presidente Pier Luigi Ceccardi, considera «un errore» la decisione del tribunale. E contraddittoria, perché sosterrebbe che «il contratto 2009 è valido e legittimamente applicato a tutti i dipendenti dell’azienda, tranne a quelli iscritti alla Fiom e a quelli che ne fanno richiesta».
L’avv. Poli concorda, ma spiega che la contraddizione è nella normativa italiana in materia di contratti di lavoro. Affidati alla «contrattazione tra le parti», associate in «sindacati» (padronali o dei lavoratori, non fa differenza giuridica), può effettivamente produrre un «mostro» se si rompe l’unitarietà della rappresentanza. In questo caso Fim e Uil – che non raggiungono insieme nemmeno lontanamente la quantità di iscritti Fiom – hanno fatto la «furbata» siglando da sole. Ora. dice la sentenza, quel contratto nuovo – e peggiore – vale solo per i loro iscritti, non per quelli Fiom e nemmeno per i non iscritti, che hanno 30 giorni di tempo per scegliere quale contratto vogliono farsi applicare.
Dal punto di vista salariale non cambia nulla. Le aziende hanno già applicato i (modestissimi) incrementi previsti dall’accordo 2009. Su quello normativo, invece, cambia parecchio: c’è differenza per quanto riguarda il trattamento dei lavoratori a termine, di quelli part time, e persino sulle percentuali di cottimo. Non sarà divertente il lavoro per l’ufficio amministrazione della Barge…
Ma non lo sarà per molte altre aziende metalmeccaniche. Parecchie altre cause stanno arrivando a sentenza, «anche davanti allo stesso tribunale di Torino», dice la Poli. Certo, si crea un «dualismo contrattuale» abnorme. Per la normativa vigente sarebbe possibile che due associazioni diverse (sia padronali che sindacali) firmino due contratti nazionali diversi per lo stesso settore. ma non nella stessa azienda. Ma questo è il frutto di una «porcata» contrattuale escogitata per escludere la Fiom.
Per Landini e compagni è una vittoria, che però «non implica la rinuncia al percorso conflittuale sui luoghi di lavoro» per ridursi al solo contrasto giuridico. E promette bene anche per la vertenza paradigmatica: quella contro il «modello Pomigliano», appena ieri denunciato in tribunale. Peccato (o delega?) che il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, intervistata a questo proposito abbia risposto: «chiedete alla Fiom».
L’avvocato della Fiom torinese, Elena Poli, è consapevole che le questioni sollevate sono davvero tante. Una premessa – per orizzontarsi – va fatta. Tutto è cominciato nel gennaio 2009, quando Confindustria, governo, Cisl e Uil hanno firmato un accordo che riformava il «modello contrattuale»; ovvero il quadro di regole da cui discendono i contratti di categoria. In Italia non c’è una legge particolare che disciplina questa materia, e nemmeno la rappresentanza sindacale. Così, «i contratti di lavoro sono normali contratti tra privati, come quello d’affitto».
Alla fine del 2009, Fim e Uilm hanno disdetto il contratto dei metalmeccanici in vigore dal 2008, firmato anche dalla Fiom, e raggiunto un’intesa – altrettanto «privata» – con Federmeccanica. Naturalmente peggiorativa delle condizioni di lavoro e con un aumento salariale ridicolo. Ma il contratto del 2008 non era legalmente scaduto, perché «non tutti i contraenti lo avevano sciolto». Altrimenti sarebbe troppo comodo: non voglio più pagare il mutuo o l’affitto e smetto di farlo, anche se la controparte non vuole. Per la Fiom il contratto 2008 era valido e quindi ha inviato ben due lettera di diffida a rispettarlo a tutte le imprese. Molte hanno concordato la «perdurante vigenza» di quello del 2008, altre hanno varato comunque il nuovo accordo. E lì è scattato il ricorso.
Ora la sentenza Barge fissa un precedente. Federmeccanica, tramite il presidente Pier Luigi Ceccardi, considera «un errore» la decisione del tribunale. E contraddittoria, perché sosterrebbe che «il contratto 2009 è valido e legittimamente applicato a tutti i dipendenti dell’azienda, tranne a quelli iscritti alla Fiom e a quelli che ne fanno richiesta».
L’avv. Poli concorda, ma spiega che la contraddizione è nella normativa italiana in materia di contratti di lavoro. Affidati alla «contrattazione tra le parti», associate in «sindacati» (padronali o dei lavoratori, non fa differenza giuridica), può effettivamente produrre un «mostro» se si rompe l’unitarietà della rappresentanza. In questo caso Fim e Uil – che non raggiungono insieme nemmeno lontanamente la quantità di iscritti Fiom – hanno fatto la «furbata» siglando da sole. Ora. dice la sentenza, quel contratto nuovo – e peggiore – vale solo per i loro iscritti, non per quelli Fiom e nemmeno per i non iscritti, che hanno 30 giorni di tempo per scegliere quale contratto vogliono farsi applicare.
Dal punto di vista salariale non cambia nulla. Le aziende hanno già applicato i (modestissimi) incrementi previsti dall’accordo 2009. Su quello normativo, invece, cambia parecchio: c’è differenza per quanto riguarda il trattamento dei lavoratori a termine, di quelli part time, e persino sulle percentuali di cottimo. Non sarà divertente il lavoro per l’ufficio amministrazione della Barge…
Ma non lo sarà per molte altre aziende metalmeccaniche. Parecchie altre cause stanno arrivando a sentenza, «anche davanti allo stesso tribunale di Torino», dice la Poli. Certo, si crea un «dualismo contrattuale» abnorme. Per la normativa vigente sarebbe possibile che due associazioni diverse (sia padronali che sindacali) firmino due contratti nazionali diversi per lo stesso settore. ma non nella stessa azienda. Ma questo è il frutto di una «porcata» contrattuale escogitata per escludere la Fiom.
Per Landini e compagni è una vittoria, che però «non implica la rinuncia al percorso conflittuale sui luoghi di lavoro» per ridursi al solo contrasto giuridico. E promette bene anche per la vertenza paradigmatica: quella contro il «modello Pomigliano», appena ieri denunciato in tribunale. Peccato (o delega?) che il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, intervistata a questo proposito abbia risposto: «chiedete alla Fiom».
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La Bertone nel mirino Fiat: la Fiom firmi o volo via
Loris Campetti
Punto primo: non si tratta, si firma quel che la Fiat ha già deciso perché uno dei compiti dei sindacati consiste nella ratifica delle scelte del Lingotto, abolizione dei diritti e del contratto nazionale compresa; l’altro compito dei sindacati è fare i cani da guardia del padrone e imporre agli operai il rispetto delle nuove regole. Punto secondo: se il sindacato maggioritario che è la Fiom non aderisce si va a costruire altrove con altri lavoratori. Punto terzo: l’intero programma Fabbrica Italia potrà saltare in relazione agli «sviluppi delle azioni giudiziarie promosse dalla Fiom». Torna più cattivo che mai il Marchionne di Pomigliano e Mirafiori e prende di mira i più di 1.000 dipendenti della ex Bertone, ora rinominata Officine Automobilistiche Grugliasco. La Fiom è l’ostacolo al lavoro e al progresso, gli operai sappiano contro chi lanciare scatenarsi se la Fiat deciderà di andare a costruire chissà dove il nuovo modello Maserati. Sulla minaccia di far saltare l’intero progetto Fabbrica Italia, e dunque sui ricorsi alla magistratura, Susanna Camusso ha risposto: «chiedetelo alla Fiom». Punto.
Ieri Sergio Marchionne ha ricevuto i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil e dei metalmeccanici per comunicare decisioni già prese e ricordare che il tempo delle riflessioni è finito. I segretari hanno ascoltato e commentato brevemente: è vero, bisogna firmare subito sennò il capo si innervosisce e chissà cosa potrebbe fare. Così i leader maximi di Cisl, Uil, Fim, Uilm e Fismic (anche l’Ugl, pur non essendo chiaro se e chi rappresenti). Per la segretaria della Cgil Camusso, sull’investimento alla Bertone «dovranno decidere le Rsu. Da un lato abbiamo confermato l’interesse che si faccia l’investimento, dall’altro abbiamo chiesto che con le Rsu si arrivi a un punto che permetta ai lavoratori di decire». Certo il clima non è bello e l’incontro con Marchionne non deve essere piaciuto alla segretaria Cgil che ha aggiunto, si pensa rivolta all’Ad del Lingotto: «Ho la sensazione che una serie di scelte precedenti continuino a pesare e non ci sia la voglia di cambiare pagina».
Molto chiare le parole di Maurizio Landini, segretario generale Fiom: «Fiat è la prima azienda che esce da Confindustria e quindi non esiste più il contratto nazionale di lavoro ma quello di Pomigliano e Mirafiori. Non so se le altre organizzazioni l’abbiano capito, noi non siamo d’accordo: non abbiamo firmato a dicembre e non intendiamo firmare oggi».
La parola passa ai lavoratori, i diretti interessati, i due terzi dei quali hanno scelto di farsi rappresentare dalla Fiom con 10 Rsu su un totale di 15. E ieri, al termine del «ricevimento» dei vertici sindacali in casa Fiat, le Rsu si sono riunite per decidere il da farsi. All’unanimità, a prescindere dal giudizio delle organizzazioni d’appartenenza, hanno ribadito la decisione di sottoporre il diktat di Marchionne al giudizio e al voto dei dipendenti il 2 maggio. Chiedono anche alla Fiat di consentire ai 300 lavoratori mandati in trasferta in diversi stabilimenti italiani di essere informati e di votare.
Mentre è netta l’indicazione favorevole di Fim e Uilm e opposta a quella della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici Cgil non dà indicazione di voto, così come era avvenuto a Pomigliano e a Melfi, perché «non si tratta di un voto libero ma di un ricatto, il solito: lavoro in cambio dei diritti individuali e sindacali, in cambio del contratto e con la «promessa» di estromettere le sigle non firmatarie dalla fabbrica negando agibilità e rappresentanza nello stabilimento di Grugliasco, così come a Pomigliano e a Mirafiori.
Il ricatto alla Bertone è ancora più grave che nelle altre fabbriche perché agito contro operai che da 6 anni sono senza lavoro (proprio ieri il ministero ha confermato il rinnovo di un anno della cassa integrazione), operai che hanno salvato la fabbrica dalla chiusura e dalle speculazioni padronali, che hanno sperato nella svolta quando la Fiat, a prezzi stracciati, ha rilevato l’azienda. Ora vengono presi a pesci in faccia da Marchionne, ma non sarebbe onesto chedere loro di votare no perché l’ha deciso il loro sindacato. Gli operai, questi operai, non sono burattini, sanno ragionare con la loro testa e saranno loro, individualmente, a decidere se ce la fanno a far prevalere la dignità calpestata o se il prezzo da pagare è troppo alto, insostenibile.
Punto primo: non si tratta, si firma quel che la Fiat ha già deciso perché uno dei compiti dei sindacati consiste nella ratifica delle scelte del Lingotto, abolizione dei diritti e del contratto nazionale compresa; l’altro compito dei sindacati è fare i cani da guardia del padrone e imporre agli operai il rispetto delle nuove regole. Punto secondo: se il sindacato maggioritario che è la Fiom non aderisce si va a costruire altrove con altri lavoratori. Punto terzo: l’intero programma Fabbrica Italia potrà saltare in relazione agli «sviluppi delle azioni giudiziarie promosse dalla Fiom». Torna più cattivo che mai il Marchionne di Pomigliano e Mirafiori e prende di mira i più di 1.000 dipendenti della ex Bertone, ora rinominata Officine Automobilistiche Grugliasco. La Fiom è l’ostacolo al lavoro e al progresso, gli operai sappiano contro chi lanciare scatenarsi se la Fiat deciderà di andare a costruire chissà dove il nuovo modello Maserati. Sulla minaccia di far saltare l’intero progetto Fabbrica Italia, e dunque sui ricorsi alla magistratura, Susanna Camusso ha risposto: «chiedetelo alla Fiom». Punto.
Ieri Sergio Marchionne ha ricevuto i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil e dei metalmeccanici per comunicare decisioni già prese e ricordare che il tempo delle riflessioni è finito. I segretari hanno ascoltato e commentato brevemente: è vero, bisogna firmare subito sennò il capo si innervosisce e chissà cosa potrebbe fare. Così i leader maximi di Cisl, Uil, Fim, Uilm e Fismic (anche l’Ugl, pur non essendo chiaro se e chi rappresenti). Per la segretaria della Cgil Camusso, sull’investimento alla Bertone «dovranno decidere le Rsu. Da un lato abbiamo confermato l’interesse che si faccia l’investimento, dall’altro abbiamo chiesto che con le Rsu si arrivi a un punto che permetta ai lavoratori di decire». Certo il clima non è bello e l’incontro con Marchionne non deve essere piaciuto alla segretaria Cgil che ha aggiunto, si pensa rivolta all’Ad del Lingotto: «Ho la sensazione che una serie di scelte precedenti continuino a pesare e non ci sia la voglia di cambiare pagina».
Molto chiare le parole di Maurizio Landini, segretario generale Fiom: «Fiat è la prima azienda che esce da Confindustria e quindi non esiste più il contratto nazionale di lavoro ma quello di Pomigliano e Mirafiori. Non so se le altre organizzazioni l’abbiano capito, noi non siamo d’accordo: non abbiamo firmato a dicembre e non intendiamo firmare oggi».
La parola passa ai lavoratori, i diretti interessati, i due terzi dei quali hanno scelto di farsi rappresentare dalla Fiom con 10 Rsu su un totale di 15. E ieri, al termine del «ricevimento» dei vertici sindacali in casa Fiat, le Rsu si sono riunite per decidere il da farsi. All’unanimità, a prescindere dal giudizio delle organizzazioni d’appartenenza, hanno ribadito la decisione di sottoporre il diktat di Marchionne al giudizio e al voto dei dipendenti il 2 maggio. Chiedono anche alla Fiat di consentire ai 300 lavoratori mandati in trasferta in diversi stabilimenti italiani di essere informati e di votare.
Mentre è netta l’indicazione favorevole di Fim e Uilm e opposta a quella della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici Cgil non dà indicazione di voto, così come era avvenuto a Pomigliano e a Melfi, perché «non si tratta di un voto libero ma di un ricatto, il solito: lavoro in cambio dei diritti individuali e sindacali, in cambio del contratto e con la «promessa» di estromettere le sigle non firmatarie dalla fabbrica negando agibilità e rappresentanza nello stabilimento di Grugliasco, così come a Pomigliano e a Mirafiori.
Il ricatto alla Bertone è ancora più grave che nelle altre fabbriche perché agito contro operai che da 6 anni sono senza lavoro (proprio ieri il ministero ha confermato il rinnovo di un anno della cassa integrazione), operai che hanno salvato la fabbrica dalla chiusura e dalle speculazioni padronali, che hanno sperato nella svolta quando la Fiat, a prezzi stracciati, ha rilevato l’azienda. Ora vengono presi a pesci in faccia da Marchionne, ma non sarebbe onesto chedere loro di votare no perché l’ha deciso il loro sindacato. Gli operai, questi operai, non sono burattini, sanno ragionare con la loro testa e saranno loro, individualmente, a decidere se ce la fanno a far prevalere la dignità calpestata o se il prezzo da pagare è troppo alto, insostenibile.
da “il manifesto” del 20 aprile 2011
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