Fin troppo evidente la riluttanza con cui è stato proclamato, su pressione della Fiom alle prese con la straordinarietà del “modello Marchionne” e di altre categorie spiazzate da “accordi separati” stipulati nonostante la loro ampia disponibilità a piegarsi (pubblico impiego, scuola, commercio). Fin troppo evidente quel riferirsi sempre e solo alle “cattive politiche” del governo, senza mai chiamare in casusa le imprese e Cnfindustria, cui invece sono stati rivolti continui appelli (e incontri segreti e pubblici tra la Camusso e la Marcegaglia) a “voltar pagina”. Fin troppo evidente, infine, quella minimizzazione – solo quattro ore, solo manifestazioni territoriali, nessuna preparazione particolare, nessun battage pubblicitario – che rendeva questa mobilitazione solo uno sfogatoio ad uso interno alla stessa Cgil. Per poter poi dire: “lo abbiamo fatto, ma non è servito a niente, non ne faremo altri; il problema è tornare in gioco”.
Si può dire che è scesa in piazza più gente di quel che la Camusso volesse, mentre sui posti di lavoro si è fatta sentire la paura e la voglia molle dei quadri dirigenti della Cgil. La “generalizzazione” ha coinvolto solo una parte di quel che si muove al di fuori della Cgil e delle figure sociali che non sono da questa rappresentate. Eppure tanto è bastato per far vedere, ovunque, un bisogno di conflitto ben più vasto, profondo, radicale, indipendente, di quel che magari pensano gli stessi protagonisti.
Riportiamo qui alcuni articoli che pongono con chiarezza alcuni problemi; a partire dal nesso tra “generalizzazione” e forme di lotta.
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da “il manifesto” del 7 maggio 2011
UNITI PER LO SCIOPERO
«Quattro ore? No, generalizzato»
«Sciopero generalizzato». Ma non bastava dire generale? No, perché la quantità di gente che il lavoro non ce l’ha o scioperare proprio non può – pena il licenziamento – aumenta di giorno in giorno. E uno sciopero generale «normale», alla fin fine, riguarderebbe non così tanta gente.
E invece in tutti i cortei italiani si è visto – sotto striscioni con la scritta «Uniti per lo sciopero» – un popolo più variegato dei soli lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato; che purtroppo diminuiscono di numero in modo ormai anche visibile. In alcune zone, dal Veneto alle Marche, per fare un esempio, questi spezzoni hanno raccolto fino alla metà dei cortei della Cgil.
Ma probabilmente nemmeno i vertici della Cgil avevano ben chiaro cosa potesse significare la «generalizzazione», o – forse – che porre il problema fiscale potesse avere una traduzione più concreta delle ben note richieste «politiche». In quasi tutta Italia, invece, le figure sociali «eccedenti» la consueta presenza nei cortei sindacali hanno preso di mira il più postmoderno degli Sceriffi di Nottingham: la tenebosa Equitalia, società controllata dallo Stato (a metà tra Tesoro e Inps), ma nota al pubblico solo per le implacabili e inappellabili «cartelle» che ti arrivano a casa. Come spiegano i precari milanesi, «in un momento in cui arrivare a fine mese è un miraggio, i salari arrivano con mesi di ritardo e una parte va a pagare il mutuo, in cui i precari sono sempre più precari e chi non lo era lo sta diventando, la cosa più facile è che ti arrivi la mannaia di Equitalia che in un battibaleno ti mette la casa sotto ipoteca e la macchina in fermo amministrativo, espropriandoti la vita».
Quindi, «carica!». Non sempre il percorso immaginato, preparato, organizzato, ha coinciso con le previsioni della vigilia. Complice qualche voce fuori dal coro e da qualche nervosismo celerino di troppo (vedi i finanzieri a Genova, nell’articolo sotto).
A Torino, gruppi di giovani – che immancabilmente vengono identificati come «centri sociali» solo per questioni anagrafiche – hanno cercato di entrare nella sede provinciale della società, hanno lasciato qualche scritta benevola sui muri esterni («ladri», «usurai») e lanciato un paio di gavettoni di vernice. La polizia li ha caricati due volte. Uova colorate hanno accolto anche le «forze dell’ordine», con il risultato di due fermati tra i ragazzi. Scene di ordinaria contrapposizione davanti alla sede della Fondazione Crt (tra i controllori di Unicredit), sorvegliata da truppe in tenuta antisommossa.
Ad Ancona, dopo la «Notte Rossa» organizzata dalla Fiom in difesa della Fincantieri («Il cantiere navale cuore e storia di Ancona, facciamolo vivere»), consistenti gruppi di giovani hanno raggiunto la terrazza dell’Assemblea regionale, esponendo uno striscione per «soldi, reddito, borse di studio, futuro». Altri, molti di più, hanno lanciato uova marce e qualche fumogeno contro la sede di Forza Nuova, gruppuscolo dell’ultradestra.
A Bologna, invece, gruppi di studenti e precari hanno bloccato temporaneamente l’attività di molti negozi del centro. Chiara anche la spiegazione: «il corteo diventa blocco selvaggio della circolazione e di tutti quegli esercizi commerciali che, applicando 42 forme di contratto diverso a partire dal “pacchetto Treu” e dalla “legge 30” di fatto rendono impraticabile lo sciopero per tanti precari». Una protesta, quella bolognese, inevitabilmente politica: «odio la Lega», cantavano in coro, in attesa di un risultato elettorale complicato dai cento errori macroscopici commessi dal Pd nell’ultimo decennio.
Anche le banche sono state oggetto di contestazione in numerose città; del resto non può essere altrimenti, in una crisi in cui gli stati spendono allegramente centinaia di miliardi per «salvare le banche» e poi si mettono a tagliarne decine alla spesa sociale per tentare di ripristinare un impossibile – e ingiusto – «rigore». La forma scelta è stata quasi dappertutto quella del «picchetto precario», con un blocco simbolico e temporaneo degli ingressi.
«Sciopero generalizzato», dunque, è espressione che ha colto due aspetti centrali nell’attuale crisi, anche sindacale. Si «generalizza» ad altre figure sociali, altrettanto bastonate dalla caduta dei redditi e dell’occupazione, «stabile» o precaria che sia. Figure che però non hanno la possibilità concreta di usare un’arma storica dei lavoratori, come lo sciopero. E qui si crea il più intrigante degli intrecci; perché lo sciopero diventa più pericoloso, faticoso, costoso, anche per i cosiddetti «garantiti»; ovvero quelli che «precari non erano ma lo stanno diventando». E quindi bisogna aprire il catalogo delle forme di protesta sempre esistite. Come diceva uno dei pastori sardi ad Anno Zero, «Noi non ci fermeremo. L’Africa è molto vicina… e la lotta è molto contagiosa!».
Tassisti: «Alemanno ci ha tradito»
Alessandra Fava
GENOVA
A Genova la protesta di portuali e tunisini. E le botte delle fiamme gialle
È il manichino di un operaio calato dalle finestre di palazzo Ducale il simbolo di una manifestazione che ha portato in strada tre cortei e migliaia di persone. La sua tuta blu e il caschetto giallo raccontano le morti bianche sul lavoro, i salari evaporati, la precarietà. Lavoratori strozzati appunto. Tutta la piazza si gira di 45 gradi e per qualche istante quelli che stanno seguendo gli interventi sul palco ufficiale della Cgil a De Ferrari guardano l’azione di studenti medi e universitari, anarchici e associazionismo che insieme al manichino srotolano anche tre striscioni enormi con scritte come «sciopero generale» e «blocchiamo tutto».
Che la manifestazione fosse imponente lo si era capito già nella prima mattinata alla Commenda quando sfilava il corteo del ponente della Cgil: una fiumana di gente. «Abbiamo chiamato lo sciopero né troppo presto né troppo tardi – commentava il segretario della Camera del lavoro di Genova Ivano Bosco – ci siamo arrivati quando i tempi erano maturi. Certo qualcuno dovrà ora tener conto delle nostre richieste». Ci sono i lavoratori Elsag che rischiano fusioni mirabolanti con Selex, quelli di Fincantieri in cassa integrazione ricattati dalla minaccia di chiusura, i lavoratori delle riparazioni navali e del settore pubblico, ci sono i docenti delle scuole e gli addetti al verde cittadino, precari dal 2004.
Miracolo: ci sono anche i lavoratori delle coop sociali. Sono 250. Non aderivano a uno sciopero dal ’98. Nel corteo anche tanti liberi cittadini. «Ero iscritto alla Cgil poi me ne sono andato – dice Riccardo, insegnante – Oggi però bisognava essere qui, almeno a nome dei miei studenti che in corteo non sono venuti e sembra che abbiano il cervello appiattito». Anche per gli studenti medi e universitari, quelli dell’Uds, gli universitari degli spazi occupati, i centri sociali e gli anarchici, che però dopo lo strappo con la Fiom all’ultima manifestazione sotto la sede di Confindustria, vengono tenuti a bada dal servizio d’ordine Cgil, dalla Questura e dai carabinieri.
Si passa poi per via delle Fontane, davanti al centro di accoglienza degli immigrati tunisini, una chiesa sconsacrata dove negli ultimi giorni hanno dormito una cinquantina di persone. Un avvocato sta spiegando che entro sera se ne devono andare in strutture comunali perché arrivano i libici. Alcuni tunisini si uniscono al corteo. «Fanno bene a venire qui. Grazie agli accordi con i vari Gheddafi, li abbiamo sfruttati e maltrattati per decenni», commenta un portuale.
Mentre la Cgil intasa le strade, gli studenti fanno una manovra diversiva inseguiti da agenti in tenuta antisommossa. Con loro ci sono prof, genitori, ragazzini delle medie. Un gruppetto, molti dei quali minorenni, decide di occupare i binari della stazione di Principe e viene caricato dalla guardia di finanza che calpesta alcuni a terra e respinge i manifestanti verso il porto. Alla fine si registrano una ventina di feriti, quattro vanno all’ospedale. Ecco infine i dati dell’adesione, secondo la Cgil: trasporti 68%, porto 85%, scuole quasi tutte chiuse, aziende del ponente 30/70%.
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