Da veri tedeschi. L’avevano detto, l’hanno fatto. All’indomani della condanna (in primo grado) a 16 anni di carcere per Herald Espenhahn, amministratore delegato di ThyssenKrupp, un altro dirigente – Klaus Schmitz – aveva dichiato che «dopo il verdetto di Torino sarà difficilissimo lavorare da voi». L’applauso con cui Confindustria lo ha accolto a Bergamo, sabato scorso, deve avergli confermato la bontà della scelta.
E quindi, ieri, il consiglio di sorveglianza della multinazionale ha deciso un cambio di strategia: si vendono una serie di attività non più interessanti (Waupaca, Tailored Blanks, Xervon e Metal Forming). Ma soprattutto Stainless Global, la divisione per gli acciai speciali che comprende proprio gli stabilimenti italiani. Torino, già in chiusura prima della strage del dicembre 2007 (sette operai morti bruciati), e soprattutto Terni, «uno dei principali siti produttivi dell’acciaio inox». Si tratta di 3.600 persone, 2.700 delle quali in Umbria.
Thyssen ha fatto le cose per benino, per mascherare al massimo il carattere «punitivo» di questa dismissione. L’intera Stainless conta però 11.000 dipendenti nel mondo, fattura 5,9 miliardi di euro e rappresenta da sola il 60% di quel che verrà messo in vendita. Naturalmente, da Berlino si premurano di assicurare che «il piano non prevede riduzioni forzose dell’organico» e che gli eventuali acquirenti dovranno garantire «il futuro dei siti e dei posti di lavoro». Ma una volta avviata la procedura di cessione, ricordano Laura Spezia e Vittorio Bardi (rispettivamente segretario nazionale e responsabile siderurgia della Fiom), «le dismissioni, gli scorpori e le vendite non garantiscono il mantenimento dell’occupazione, né il futuro dei siti». La «forte preoccupazione» del primo sindacato metalmeccanico si tradurrà in «iniziative di mobilitazione» capaci di «coinvolgere il governo».
Eppure Thyssen, nella stessa riunione, ha presentato prospettive e conti favolosi. Il primo semestre fiscale – che secondo la legge tedesca inizia settembre e si chiude a marzo – ha visto levitare l’utile operativo del 22%, mentre il fatturato è cresciuto «solo» del 21; sullo stesso livello (22%) gli ordinativi. Roba da far schiattare di invidia le più grandi imprese manifatturiere dell’Occidente (a cominciare dalla Fiat, of course). Niente da fare, «ci guadagniamo» (anche nell’inox italiano: 53 milioni nell’anno 2010-2011) ma «ce ne andiamo».
Sì, va bene, Thyssen investirà «parecchi miliardi di euro» nei prossimi anni nei «mercati del futuro»; soprattutto in «Cina, che ha una influenza chiave sui grandi flussi internazionali di merci e fa da battistrada allo sviluppo economico globale». Ma senza dimenticare gli altri del Bric (Brasile, Russia, India), dove viene originato ormai «circa il 30% del Pil globale e questo livello sta crescendo». Scegliere di seguire il flusso principale della storia non è evidentemente senza senso economico, ma è chiaro che la vendita dell’acciaio inox italiano – non proprio un materiale «residuale» – rappresenta anche il compimento di una «vendetta» annunciata.
Ora da più parti (l’ha fatto ieri anche Cesare Damiano, capogruppo Pd nella Commissione lavoro) si invocano politiche industriali di tutela, perché «il territorio non può pagare le scelte prese in altri paesi dalla multinazionale». A maggior ragione l’hanno fatto il sindaco e il presidente provicniale di Terni (Leopoldo Di Girolamo e Feliciano Polli), chiedendo l’impegno immediato del governo per «mantenere un’eccellenza produttiva del nostro paese con una valenza internazionale»; visto che «ci sono le condizioni perché possa continuare a rappresentare uno dei motori di sviluppo del nostro territorio».
Ma proprio questa è la natura di una multinazionale: l’indifferenza al territorio. Se di un paese è comunque costretta a tener conto, quello sarà la «residenza fiscale»; in questo caso la Germania. Dove, guarda un po’, Thyssen ha raggiunto un accordo col sindacato nazionale – l’un tempo gloriosa IGMetall, che non ha nemmeno avvertito i colleghi di altri paesi – perché fossero risparmiati gli stabilimenti nazionali. I vincoli sindacali e legali tedeschi, dunque, sono forti e non discutibili anche per una multinazionale.
Che però non concede altrettanto altrove. Del resto solo in Italia esiste un sistema di regole contrattuali fondato sul reciproco riconoscimento tra le parti sociali, anziché sulla legge. E solo qui la principale azienda industriale nazionale – la Fiat – ha deciso di rompere questo sistema per imporre le sue regole. Persino in violazione della Costituzione (pretendendo il divieto di sciopero). E nel far questo è stata «benedetta» dal governo di destra, dai sindacati« complici» e persino dall’opposizione parlamentare.
Thyssen ha colto al volo questo varco «legale» e l’applauso di Confindustria. La vendita dell’acciaio ha dunqeu un significato politico e sociale che dovrebbe far riflettere di più tutti i soggetti in campo: l’impresa (sia essa Fiat, Thyssen o altre) non accetta più limiti alla propria azione, siano essi sindacali oppure legali. Anche «l’omicidio volontario plurimo con dolo eventuale», secondo questa impostazione tutta orientata «alla competitività», non deve avere campo di applicazione all’interno dei posti di lavoro. Se condanna ci deve essere, perché qualcuno – lavorando – muore, che sia un pro forma. Una contravvenzione, insomma.
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