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La Fiom chiama, il centrosinistra non risponde

Rosy Bindi, Niky Vendola, Antonio Di Pietro, Massimo Rossi (portavoce della Federazione della sinistra), sotto la regia di una Lucia Annunziata attenta ma amichevole, hanno dato l’impressione di non aver ancora pienamente metabolizzato il «cambio di stagione». Hanno capito che la ruota è girata, al punto da poter affrontare le eventuali elezioni con prospettive di vittoria, ma «sui contenuti» fanno fatica a dire parole da cui non si torna indietro. Chi può dirle, come Rossi, è anche chi per forza di numeri incide meno.
Si parlava da un lato di crisi e politiche economiche, dall’altro di rappresentanza e democrazia sindacale, e contratti. Il nesso è stretto, ma non per tutti.Sul primo punto, la Fiom è arrivata a dire che «da questa crisi non si esce senza un altro modello di sviluppo» e che «questa volta nessuno ci può venire a dire prima i sacrifici, poi ci sarà un secondo tempo». Le risposte si sono differenziate. Tra Vendola che si pone il problema di non essere – come la Grecia – un «paese comandato», e ritiene si possa «negoziare cone Bruxelles modalità e tempi» del rientro nei parametri di Maastricht, prendendo i soldi «da chi fin qui ha festeggiato». E il Pd – oltre la Bindi è brevemente intervenuto Stefano Fassina – che ammette «la necessità di una fase di contratti di sacrificio». Di Pietro non dà ricette (se non sul reprerimento di risorse tramite il recupero dell’evasione e la lotta all’economia criminale) ma, giura «non ci sottrarremo alle responsabilità di governo».
L’impressione finale, insomma, è che il centrosinistra «maggioritario» conosca bene i limiti di manovra che si troverà davanti se anche – ma non è detto e, a parte Idv, pare proprio non volerlo – si troverà a governare «senza il terzo polo». La Fds non si pone invece l’obiettivo di entrare in un futuro governo, preferendo un’alleanza elettorale che lasci poi le mani libere sul piano sociale. Ma «niente giochetti», intimano subito tutti gli altri: o dentro o fuori «in base al programma».
Sulla questione più urgente sul piano sindacale – il diritto dei lavoratori di votare e scegliersi delegati e sindacati – si dicono tutti d’accordo. L’Idv ha in effetti presentato in parlamento una proposta di legge abbastanza vicina a quella su cui la Fiom ha raccolto le firme, e naturalmente la Fds sposa quest’ultima senza riserve. Ma l’assemblea nazionale del Pd sul lavoro, conclusasi a Genova proprio sabato, ha elaborato una piattaforma che mette al centro l’«esigibilità dei contratti» (come chiede Confindustria), ovvero l’impedimento tramite sanzioni della microconclittualità dovuta a condizioni di lavoro intollerabili (ritmi, nocività, turni). In compenso, prevede la «piena agibilità in azienda» per le sigle non firmatarie di un certo accordo (ma preferirebbe arrivarci tramite una «ritrovata unità sidacale», anziché con una legge); e anche la «validazione dei contratti da parte dei lavoratori», visto che per «i sacrifici» il consenso è necessario.
Si sente forte l’aria di mediazione da svolgere su altri tavoli e con ben altri interessi prevalenti. Landini, nel chiudere, ricorda che «la richiesta di partecipazione esplosa coi referendum non prescinde dai contenuti» e quindi «con una coalizione da Fini a Bersani, si perde». Ma è la la democrazia sui luoghi di lavoro il suo punto fermo: «l’unità sindcacale oggi non c’è» e una legge sulla rappresentanza è comunque indispensabile perché «il diritto di scelta è in capo a chi lavora, non ai sindacati». Fra l’altro, «se si può votare per eleggere i delegati, Marchionne non si può scegliere il sindacato con cui fare accordi separati”. Sembra forma, è sostanza.

da “il manifesto” del 21 giugno 2011

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