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Il futuro portato all’ammasso della finanza

Rocco Di MIchele
Giovani famiglie/ UN RAPPORTO CENSIS
Salari bassi, casa in affitto, zero risparmi, niente pensione

Ci sono molti modi di evidenziare i risultati di uno studio. Nel caso del rapporto Censis-Unipol su «Welfare Italia» (quasi archeologia linguistica, ormai) molti hanno scelto di concentrarsi sul dato del «risparmio»: solo il 28% delle «famiglie giovani» (fino ai 35 anni) riesce a mettere mensilmente da parte qualcosa, mentre la stragrande maggioranza riesce appena a sopravvivere spendendo tutto il proprio reddito e il 5% più sfortunato è costretto a indebitarsi. La ragione principale è evidente: i livelli salariali della fascia giovanile del lavoro dipendente – tra apprendistati, lavoro a termine, precarietà in mille forme contrattuali «legali» e non – sono particolarmente bassi.
La seconda, ancora più importante, riguarda la spesa per l’abitare. Il 40% di loro vive in una casa d’affitto, quasi sempre presso un privato. E qui se ne va in genere un salario intero. Solo il 20% è proprietaria soltanto della prima casa (il rapporto non lo dice, ma è più che certo che in genere derivi dalla liquidazione dei genitori o da un’eredità), e appena il 23% può contare su altri immobili (per gli stessi motivi). L’8% non ha alcun genere di patrimonio e il 42,6 nessun immobile. Soltanto l’1% vive in casa di un ente (con forse affitto calmierato e anche qui molto probabilmente per «passaggio» da padre in figlio).
Mettendo insieme bassi salari e alti affitti ne vien fuori una povertà diffusa senza eguali in Europa, dove in genere ci sono salari migliori e affitti (molto) più bassi. L’esempio della Germania dovrebbe essere sufficiente.
E non è una «condizione temporanea». La stessa ricerca – ma non molti si son spinti a leggere fin qui – spiega che il 42% dei lavoratori dipendenti tra i 25 e i 34 anni di età andrà in pensione – nel 2050, se ci arriveranno vivi lavorando ai ritmi marchionneschi – con meno di mille euro al mese. Un risultato tragico che dipende – ancora – dai bassi stipendi (il 32% di loro guadagna meno di 1.000 euro al mese, ma anche dal cumulo di «riforme delle pensioni» degli ultimi 15 anni. e questo senza calcolare gli effetti la «riforma definitiva» in gestazione nelle trattative tra Berlusconi, Tremonti e Bossi…
Un dettaglio: questo calcolo – non «previsione» – riguarda soltanto i 4 milioni di «giovani privilegiati» che hanno già ora un contratto a tempo indeterminato (ma non ditelo a Sacconi e Ichino: griderebbero allo scandalo). Per il milione di «atipici» e i 2 milioni senza lavoro, il futuro sarà ancora più nero. Visto perché questa generazione può dire «ci state rubando il futuro»?

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Occupazione sotto tiro

Francesco Piccioni
Il crack. Previsioni fosche per l’industria e le costruzioni. I dati peggiori nel Sud Italia, dove si concentra quasi la metà dei posti in via di sparizione
Le piccole imprese perderanno quasi 90.000 posti di lavoro entro l’anno. Dall’inizio della crisi sono mezzo milione di lavoratori in meno. Il rapporto di Unioncamere Male servizi, industria, edilizia e commercio, più al Sud che altrove. Solo i servizi avanzati tengono botta

In una tempesta gli allarmi non finiscono mai. Quello diffuso dal Centro studi di Unioncamere riguarda l’andamento della piccola e piccolissima impresa italiana, quella che fino a qualche anno fa faceva gridare al «miracolo» e alla santificazione del «piccolo è bello».
Sarà anche un’impresa flessibilissima, con contratti non sempre regolari o vincolanti per il «padroncino»; il rispetto degli orari di lavoro sarà pure «a occhio», con straordinari non sempre conteggiati bene… ma nemmeno questa può farcela. anzi, diventa il termometro dell’insorgere della febbre anche per quelle più grandi.
Il dato più gettonato è quello dell’occupazione: da qui alla fine dell’anno – dice Unioncamere – si perderanno nelle piccole imprese 88.000 posti di lavoro. E’ da notare che questa associazione non è affatto catastrofista di mestiere (anche se, come tutte le associazioni di imprese, ha il vezzo di lamentarsi sempre molto). Appena nel giugno scorso aveva sformato un rapporto di tutt’altro tenore. «Nel 2011 aumenterà il valore aggiunto prodotto da ogni italiano», veniva prevista «una ripresa dell’occupazione con quasi 3127.000 assunzioni entro fine giugno», affidando il ruolo di volano alla ripresa delle esportazioni.
Una meraviglia contraddetta pesantemente a soli due mesi di distanza. «L’accresciuta incertezza su una possibile ripresa internazionale e le forti tensioni sul debito, non solo dell’Italia, ma dell’intera Eurozona e degli Usa, gettano ombre sulle prospettive delle imprese alla ripresa autunnale». Un’incertezza che pesa sui consumi delle famiglie – segnalate in robusto calo anche dall’Istat all’inizio dell’estate – e soprattutto su quelle aziende piccolissime che hanno come unico sbocco il mercato domestico (sia per i prodotti venduti direttamente sul mercato che per le commesse conto terzi di aziende più grandi).
Oggi, a scorrere i dati, non si trova più un settore che preveda di crescere almeno un po’ di fatturato e ordinativi, unico modo di mantenere anche i livelli occupazionali. Va malissimo l’industria, che dovrebbe perdere da sola circa 59.000 posti di lavoro, tranne che per il comparto alimentare – costitutivamente meno sensibile al ciclo economico globale – e in parte anche per la meccanica. Subito dietro arrivano le ditte di costruzioni, che potrebbero lasciare a casa 29.000 unità. Qui parliamo di aziende impegnate, al massimo, in piccoli lavori di manutenzione, oppure che lavorano in subappalto; una dimensione che non trae insomma beneficio diretto da eventuali «grandi opere» ma è invece sensibilissima alla riduzione dei consumi (la manutenzione viene rinviata) o al taglio delle spese negli enti locali.
Una volta queste defaillance del settore industriale venivano in parte compensate dalla crescita dei servizi, oggi non più Anche qui tendono a sparire 29.000 posti, con una sottolineatura particolare per l’alberghiero e la ristorazione (che risentono del calo dei consumi). Basti dire che l’unica variazione positiva viene dai «servizi avanzati», con però la previsione di appena 1.500 persone in più.
Un discorso a parte merita ancora una volta il Mezzogiorno. Nel rapporto di giugno veniva indicato come rinato protagonista dello sviluppo economico (100.000 assunzioni messe in previsione), mentre ora sembra tornare al triste declino degli ultimi decenni: sarebbe concentrata qui, infatti, quasi la metà dei posti in via di sparizione (41.000), mentre il Nordovest (-19.000), il Nordest (-10.600) e il Centro (-16.600) dovrebbero soffrire un po’ meno.
Non si può però tacere davanti al penoso tentativo di «addolcire la pillola» che accompagna il lancio stampa di questi dati. Viene detto dalle agenzie e ripetuto da tutti gli «utilizzatori finali» questo ritornello: «unica consolazione, il saldo negativo nei due anni precedenti era stato più pesante». Basta veramente un briciolo di autonomia di giudizio per capire che se ai posti in meno del 2009 (213.000) e del 2010 (178.000) aggiungiamo anche questi quasi novantamila abbiamo un aggravamento della situazione – mezzo milione di posti perduti – che non può davvero «consolare» nessuno.
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ommaso De Berlanga
TASSE LOCALI
Un «boom» sistematico, più che raddoppiate dal ’95
La Cgia di Mestre evidenzia gli effetti del «decentramento fiscale». Lo stato chiede meno, e meno dà

In fondo è il segreto di Pulcinella: se l’amministrazione centrale dello Stato taglia i trasferimenti ordinari agli enti locali, come fanno questi a finanziarsi per garantire il livello di servizi alla citadinanza che – istituzionalmente — spetta loro? Aumentando le tasse di loro competenza. ovvio. E magari anche qualche tariffa imposta dalle imprese municipalizzate (trasporti, acque, energia, ecc), finché non saranno costrette a «privatizzarle» (passaggio – è ormai documentato ampiamente da molti «esperimenti» – che garantirà servizi peggiori a un costo molto più alto.
Lo studio presentato ieri dalla Cgia di Mestre – associazione di piccole imprese molto attiva sul fronte informativo – semplicemente prova a quantificare l’innalzamento della tassazione «locale» negli stessi anni in cui (per dar l’impressione di rispettare l’impegno a «non mettere le mani nelle tasche degli italiani») Berlusconi e Tremonti sforbisciavano i trasferimenti. Non che i governi di centrosinistra abbiano praticato un’altra politica, ma la promessa «meno tasse per tutti» ha un copyright sicuro. Promessa berlusconiana uguale truffa certa, naturalmente.
E dunque vediamo queste cifre. La tassazione in capo agli enti locali, tra il 1995 e il 2010 è salita in pratica del 138%. Percentuale ragguardevole, forse davvero «impressionante» come sottolinea lo scaltro Giuseppe bortolussi, ma bisogna ricordare che si partiva da cifre molto basse. Nello stesso periodo, a livello centrale, le entrate fiscali ordinarie sarebbero cresciute soltanto del 7%.
Il calcolo in termini assoluti (che viene dichiarato esser stato condotto a «prezzi costanti», ovvero al netto dell’inflazione)) è del resto chiarissimo: le entrate fiscali di Comuni, Province e Regioni, nel periodo considerato, sono passate da 40,58 miliardi a 96,55. Insomma: il problema c’è, magari non «drammatico» come lo descrive la Cgia, ma c’è.
Soprattutto, ci sarà. La manovra in corso di «rettifica», infatti, riduce a briciole i trasferimenti e, contemporaneamente, sottrae al controllo «locale» aziende che – gestite in modo radicalmente opposto a quanto non abbia saputo fare il sindaco di Roma, Alemanno (tra Ama, Atac, ecc) – potrebbero sempre rappresentare una fonte di entrata, invece che soltanto una spesa.
Perché, diciamocelo: la pessima politica va sradicata, ma affidando tutto alle imprese, «senza politica» – ossia senza mediazione tra classi sociali nella gestione della «cosa pubblica» – pensate davvero che le cose funzionino meglio?

da “il manifesto” del 21 agosto 2011

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