Il quale prima ha accettato di convocare tutti i sindacati – l’accordo che butta fuori quasi metà degli 8.000 dipendenti era stato firmato solo dai «complici» di Cisl e Uil – come se avesse in qualche misura intenzione di riaprire la partita, poi – al tavolo ministeriale, nel tardo pomeriggio di ieri – ha chiuso ogni spiraglio esprimendo «apprezzamento» per l’accordo trovato dall’amministratore delegato Giuseppe Bono.
Proponiamo qui di seguito alcuni articoli che dettagliano la vicenda Fincantieri e la discussione interna a Fiom Cgil, apparsi su «il manifesto» di oggi. Qui ci permettiamo alcune considerazioni, diciamo così, di carattere «strategico» sul fare sindacato nella fase attuale.
L’accordo separato su Fincantieri:
Seguiamo da tempo con attenzione e rispetto la battaglia della Fiom su diversi fronti – il conflitto con le controparti padronali e le «tensioni» con la segreteria confederale della Cgil, sia sotto la gestione Epifani che, a maggior ragione, sotto l’attuale direzione della Camusso. Riconosciamo infatti a questa categoria e a buona parte del suo gruppo dirigente una sana impostazione «di classe», di rappresentazione dei lavoratori in carne e ossa, di cui pretendono il parere tramite il voto referendario su ogni piattaforma e accordo. Non sempre ne condividiamo le singole scelte, ma questa è normale fisiologia della dialettica politica.
Queste considerazioni, dunque, vengono esposte nello spirito del «consiglio fraterno», come «contributo a una riflessione comune svolta in una condizione comune», non come «lezioncina» supponente e presuntuosa.
Con il governo Monti si è chiusa ufficialmente una lunga fase «concertativa», che già con l’ultimo governo Berlusconi aveva mostrato ampi segnali di sgretolamento (accordo separato sulla «riforma del modello contrattuale», accordo separato sui contratti dei metalmeccanici e del commercio, art. 8 della «manovra Sacconi» di agosto, ecc).
Il «modello Pomigliano» ha fatto da apripista per la ristrutturazione reazionaria delle relazioni industriali in questo paese e la resistenza della Fiom, la sua forza, ha dato speranza anche oltre il movimento dei lavoratori strettamente inteso.
Il contratto dell’auto e la lettera di Federmeccanica che disconosce alla Fiom lo status di «organizzazione firmataria di contratto nazionale» chiudono però un cerchio entro il quale la storica Federazione Impiegati e Operai Metallurgici diventa un sindacato che non ha più agibilità in fabbrica. Al pari di Usb o altre sigle di base.
Era perciò comprensibile e doveroso che la Fiom tentasse una sortita, puntando a un qualche accordo «buono» – ossia fuori dalle manette ai polsi fissate dal «modello Fiat» – con qualche grande gruppo industriale. È la giusta logica del giocare sulle contraddizioni in campo avverso, una tattica che va sempre esperita nel conflitto di classe.
La risposta di Passera, però, segnala che il governo non vuole affatto aprire lo spiraglio utile a mettere in discussione la ridefinizione delle relazioni industriali in atto. Anzi, manifesta un’intenzione che rafforza e legittima politicamente tale processo. Reazionario, ripetiamo.
Del resto, si può rimproverare a un governo di avallare un accordo «non validato dai diretti interessati», come ha giustamente fatto il segretario generale Maurizio Landini. Ma occorre prendere atto che tutto questo governo risulta «non validato da nessun voto popolare». Violazione contrattuale e violazione politica si tengono per mano. È lo scenario nuovo, fosco e duro, in cui siamo obbligati a muoverci.
Di più. Dal mondo dei partiti presenti in parlamento non si alza più nessuna voce critica sui temi del lavoro, del sindacato, delle relazioni industriali, dei diritti. Tutta una sessantennale capacità tattica e manovriera, di cui la Fiom rappresenta al meglio le virtù migliori, si ritrova improvvisamente priva del fondamentale «gioco di sponda» tra sindacato, movimenti, partiti, cultura. A provarci ancora, ci si ritrova ad arrampicarsi su una parete di vetro. E l’esito è scontato.
Infine. Dentro la Cgil non è ignoto l’odio viscerale che Susanna Camusso, e il suo recuperato «coordinatore della segreteria», Gaetano Sateriale, nutrono contro la Fiom e il suo gruppo dirigente fin dai tempi di Paolo Sabattini. Che li mise alla porta non perché fossero – come erano – socialisti di frequentazione craxiana, ma per una passionaccia disdicevole: svendere le vertenze loro affidate.
Nel Direttivo di oggi e domani probabilmente la segreteria confederale non riuscirà a trovare sufficiente consenso per «commissariare» la Fiom, avocando a sé la titolarità a firmare «tecnicamente» il contratto con Fiat. Ma è noto anche che ieri la Camusso ha convocato le migliori menti del giuslavorismo italiano per chiedere consigli su quali misure legislative chiedere per tutelare il lavoro nelle condizioni attuali e future. La risposta è stata univoca: «prima di tutte occorre abolire l’art. 8 della manovra d’agosto, che permette accordi in deroga ai contratti e alle leggi, altrimenti è impossibile approntare qualsiasi difesa». E si sa che la Camusso ha declinato l’invito, perché Cisl e Uil – insieme alla Fiat – hanno preteso a suo tempo proprio quell’articolo per aver certezza «giudiziaria» dell’intangibilità del «modello Pomigliano».
C’è un evidente lavorio per separare a forza «la classe» dalla sua «coscienza», ossia di privarla di una qualsiasi capacità di reazione organizzata. Il lavoro, insomma, «deve» essere reso merce liquida, disponibile quando serve e scaricabile quando è inutile. Questo è il programma europeo di «riforme» che il governo Monti è stato chiamato a realizzare.
L’«unità sindacale» dal 2012 in poi si fonda su queste basi «strategiche». Nessuno più della Fiom può rendersene conto. Il punto fermo dell’azione sindacale dei metalmeccanici, che fin qui è stato anche un punto di forza contro chi li accusava di «far politica» invece che sindacato – «non usciremo mai dalla Cgil» – rischia ora di ritorcersi loro contro. Basta guardare il caso di Delio Di Blasi, in Calabria (Strappo a Cosenza: «licenziato» Di Blasi, leader della minoranza, il manifesto del 10 gennaio).
Uno alla volta o tutti insieme, è la Cgil che li vuole buttare fuori.
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«Il governo valida degli accordi separati, non mi sembra un buon modo per affrontare queste situazioni – continua il segretario della Fiom – alle nostre richieste non abbiamo avute risposte; ad esempio chiedevamo la ridistribuzione del lavoro fra tutti i cantieri altrimenti nel giro di qualche mese alcuni cantieri sono in cassa integrazione e Passera ci risponde che verificherà».
Fim e Uilm entrano, chi scocciato, chi defilato per un tavolo che avrebbe volentieri evitato e se ne escono contenti, ancora più forti dell’accordo firmato con l’azienda che prevede cassa integrazione ed esuberi per 3.600 degli 8 mila lavoratori, la promessa solo formale del mantenimento degli otto siti, con un bel punto interrogativo per Castellamare e Sestri ponente, dove – ben che vada – 400 più 741 lavoratori diretti andranno in cassa integrazione; mal che vada, saranno definitivamente lasciati a casa. I due siti vengono giudicati desueti («sono ben note le carenze infrastrutturali», si legge nell’accordo) e poi ci sono «percorsi di razionalizzazione/ristrutturazione delle aree» da proseguire con gli enti locali, quindi potranno essere mantenute delle attività «compatibili col permanere di dette inefficienze». Non proprio le parole di un piano industriale per un rilancio.
La Fiom arriva con i desiderata di Landini, frutto anche di decine di assemblee dei lavoratori: «ridistribuire il lavoro fra tutti i cantieri» e chiedere «un piano industriale vero per Fincantieri». Fuori, gli operai di Genova, Palermo e Ancona rumoreggiano. Quelli di Genova sono partiti all’alba su un pullman alla volta di Roma. Così «il cantiere non si tocca lo difenderemo con la lotta» riecheggia per la seconda volta nella piccola strada davanti al ministero dello sviluppo, a due passi dal salotto buonissimo di via Veneto. Dopo il nulla di fatto con Sacconi, ci si attendeva qualcosa di più da Corrado Passera, anche grazie al doppio incarico di ministro dello sviluppo economico e dei trasporti.
«Al ministro Passera e a questo Governo chiediamo un piano per le infrastrutture e la mobilità, che riguarda anche la cantieristica – ragiona infatti Landini con la stampa prima di entrare – Ci sono due cantieri a rischio perché non sanno se avranno lavoro. Non so se c’è la volontà di chiudere, ma servono impegni chiari. In passato l’errore è stato di limitarsi ai settori della crocieristica e del militare, ora bisogna guardare ad altri filoni per dare lavoro al settore».
Per gli addetti ai lavori è la solita litania: trasporto mercantile, rinnovo della flotta mediterranea catturando anche incentivi europei, navi ecologiche e in grado di sfruttare nuove energie. In parte è quello che dice anche l’azienda nell’ultima parte del piano. Peccato che il governo non ci abbia mai creduto, i finanziamenti siano zero e le commesse pure. Così mentre i gossip di corridoio raccontano di un ad Giuseppe Bono che a tu per tu con Passera avrebbe addirittura minacciato le dimissioni in caso non vada in porto il suo piano, i sindacalisti nazionali confederali alle 19 si sedevano al tavolo per rialzarsi un’ora e mezza con la sola promessa da parte di Passera di un approfondimento ma nessun impegno preciso al riguardo.
Intanto in giro per l’Italia la protesta non si ferma. A Genova, gli operai anche ieri erano davanti ai cancelli, come hanno fatto dal 22 dicembre all’altro ieri e hanno impedito l’entrata a tutti, anche a quelli degli appalti. L’ennesimo blocco del lavoro dimostra la sfiducia nell’incontro romano. La sensazione è che si rischi a marzo, con la consegna dell’Oceania Riviera, la chiusura del cantiere.
ROMA
Ieri il Comitato centrale della Fiom si è parzialmente diviso, nell’incertezza su quale fosse la risposta giusta da dare a un doppio schiaffo: quello della Fiat (che ha siglato un «contratto per l’auto» insieme a Cisl, Uil e Fismic, fotocopia di quel «modello Pomigliano» che doveva essere un «caso unico e irripetibile», secondo diversi ingenui e non) e quello di Federmeccanica, l’associazione degli imprenditori metalmeccanici che dal 1 gennaio non considera più la Fiom «firmataria di contratto nazionale». In entrambi i casi per la Fiom vuol dire esser «legalmente» fuori dalle fabbriche, muoversi quasi «in incognito» dentro i reparti. Come sotto il fascismo o negli anni ’50.
La relazione di Maurizio Landini ha avuto il voro di 91 delegati, l’emendamento di Fausto Durante (capofila dei fedeli alla segretaia generale della Cgil Susanna Camusso) 34. La sinistra interna di Sergio Bellavita e Giorgio Cremaschi solo 18. Qui si è verificata la rottura simbolica della maggioranza che era rimasta unita fin dal congresso di Rimini, nel 2010.
Ma andiamo con ordine. Landini aveva chiesto una presa di posizione unitaria su un programma di mobilitazione e una piattaforma rivendicativa: una manifestazione nazionale l’11 febbraio a Roma, «aperta alle forze sociali», per riconquistare il diritto di manifestare a Roma e, soprattutto, a piazza S. Giovanni «violata» dagli scontri del 15 ottobre; il sostegno al referendum chiesto dai lavoratori Fiat per abrogare il «contratto auto» – non validato dai diretti interessati, i dipendenti – per cui si stanno raccogliendo le firme necessarie (il 20% del totale, secondo la legge); la riconquista di un contratto nazionale di tutti i metalmeccanici, per cui è scattata dal 1 gennaio l’«ultrattività», con una piattaforma già approvata dalla categoria con un voto di massa.
La «destra» – diciamo così – si è distinta con un solo emendamento: per obbligare la Fiom ad «accettare qualsiasi risultato darà il referendum». Non è stato approvato e Landini, nelle conclusioni, ha spiegato che «naturalmente, se fossimo sconfitti nel referendum, il gruppo dirigente ed io per primo ce ne dovremmo asumere la responabilità». Non senza però ricordare che «bisogna riuscire a farlo», perché la Fiat, già altre volte nel passato, ha impedito fisicamente le consultazioni negli stabilimenti. In quel caso, bisognerebbe valutare un quadro differente…
Ma ha anche spiegato di aver ricevuto dai «vertici della confederazione» – e proprio alla vigilia di un Direttivo nazionale che dovrà prendere in esame anche questo dossier – una richiesta per trovare una «posizione comune» sulla valutazione della vicenda Fiat, tale da evitare un pericoloso strappo tra la categoria e la Cgil nazionale. Senza risultati pratici.
Da «sinistra» invece, Bellavita (ex Rete28Aprile e membro della segreteria Fiom) ha visto «una pesante sottovalutazione delle politiche del governo, dell’attacco di Federmeccanica e del disegno Fiat». Ha giudicato perciò «inadeguata la risposta con la sola manifestazione nazionale», proponendo invece uno «sciopero generale dei metalmeccanici come spinta generale per tutto il movimento dei lavoratori contro il governo». Una risposta, a suo giudizio, «non politica, ma assolutamente sindacale». Tempi difficili, si diceva.
In nome dell’austerità ed equità hanno deciso un’ulteriore redistribuzione della ricchezza verso il profitto e la rendita e, con le «riforme strutturali», la ridefinizione di un assetto sociale e democratico ingiusto e autoritario.
In base ai canoni liberisti abbiamo «il miglior sistema previdenziale» di tutti i paesi europei: li abbiamo sorpassati tutti con la riduzione dei pensionamenti e del valore reale delle pensioni oltre i 1.100 euro netti mensili. E per le nuove generazioni la pensione vola a 70 anni con un sistema contributivo di cui si discute la riduzione dal 33 al 27% dei contributi, che allargherà tutti gli spazi per lo sviluppo dei fondi previdenziali, cioè del sistema finanziario. Alla crescita senza precedenti delle disuguaglianze sociali si risponde con l’affannoso tentativo di creare le condizioni per rilanciare lo stesso meccanismo.
Mercato, spread, speculazione finanziaria, paradisi fiscali, sembrano una nuova religione e non il prodotto di scelte politiche e dell’attività umana che hanno identità precise. L’obiettivo è esplicito: definire le condizioni per una competizione locale e globale di ogni impresa o filiera che non può essere soggetta ad alcun vincolo sociale, in una folle rincorsa alla riduzione della condizione lavorativa a pura merce. Questo è quel che succede nel paese reale, nell’economia reale, dove alle roboanti affermazioni di coesione sociale corrisponde il massimo di disgregazione sociale. Ne deriva la stessa crisi del sindacato che si è cullato nell’idea che ciò che avveniva a livello politico – la crisi della rappresentanza politica – non riguardasse la rappresentanza sociale, incapace di ridefinire ruolo e funzione a fronte della radicalità delle trasformazioni in atto. La stessa Cgil in questi anni ha inseguito e subìto l’iniziativa degli altri soggetti, dal governo alla Confindustria agli sindacati, senza mai definire un proprio progetto e argini invalicabili su cui aprire uno scontro sociale, limitandosi ad atti di pura testimonianza.
Il collegato Lavoro e l’art. 8 della manovra berlusconiana che distruggono diritti, tutele e contratti nazionali, sono scomparsi dall’agenda del confronto con il governo Monti; la Fiat applica quella legge a 86.000 lavoratori e Cisl, Uil e Confindustria firmano, confermando che per loro l’accordo unitario del 28 giugno 2011 è del tutto compatibile con quella legge; la Federmeccanica, per tentare di impedire la fuoriuscita di altre aziende dalla Confindustria, si inventa un semi-clandestino accordo separato per l’indotto, dove si afferma che a fronte di turnazioni su 6 giorni (fino alla domenica mattina, o a partire dalla domenica sera) si fanno 120 ore di lavoro straordinario. Un puro e semplice aumento dell’orario di lavoro, talmente semi-clandestino che non lo sanno nemmeno i lavoratori interessati. Si sottoscrivono contratti nazionali unitari che prevedono per le nuove assunzioni un aumento dell’orario di lavoro rispetto agli altri lavoratori per i primi 4 anni. E poi, un apprendistato che in diversi contratti prevede una retribuzione iniziale di 650/700 euro mensili, con le assenze per malattia e le condizioni lavorative diventate oggetto di scambio a fronte del ricatto del posto di lavoro.
Le molteplici soluzioni aziendali di welfare contrattuale si configurano sempre di più come risposta difensiva alla riduzione dell’universalità dello stato sociale. Sul precariato hanno fatto tutto ciò che era previsto dal piano Maroni del 2001 (allora bloccato dalla iniziativa della Cgil), che oggi ci consegna una situazione dove l’80% delle assunzioni avviene con contratti atipici. La precarietà è ormai normale condizione di lavoro e di vita. Per non parlare della follia di proporre, i sindacati insieme alla Confindustria, l’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, anticipando la stessa decisione assunta a livello europeo.
L’impatto della recessione su questa situazione sociale è drammatico. Quando si arriva ad espellere dagli stabilimenti un’organizzazione sindacale nel silenzio più assoluto, la memoria torna ai periodi più drammatici della nostra storia. Può veramente succedere di tutto, quando la democrazia, la libertà e il pluralismo sindacale sono considerati variabili dipendenti del mercato, delle scelte padronali.
Non ci saranno tempi migliori se non saremo in grado di mettere in campo un’idea alternativa, un altro punto di vista sull’assetto sociale e democratico del nostro paese e dell’Europa. Riguarda le forze politiche, che a fronte della crisi devono tornare a essere espressione di credibili alternative di società, salvo diventare irrilevanti. Riguarda i movimenti, che hanno la necessità di un radicamento sociale nei territori, nelle scuole, nella società, ricostruendo obiettivi definiti democraticamente a partire dalle esperienze dei beni comuni. Riguarda la rappresentanza sociale, la Cgil, che deve aprire una fase di mobilitazione e proposte con al centro il lavoro, la democrazia, il superamento della precarietà: l’agenda non può essere definita solo dal governo, su queste tre questioni dobbiamo aprire una vertenzialità diffusa.
La Cgil deve porsi l’obiettivo nei confronti del governo Monti dell’abolizione dell’art.8 e del ripristino delle norme costituzionali sulla libertà sindacale.
Nel preannunciato confronto sul Mercato del Lavoro, l’art. 18 non può essere affrontato alla fine, ma bensì all’inizio del negoziato, perchè se la scelta è quella di superare il dualismo esistente, l’art. 18 va esteso a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori, i contratti precari vanno superati riconducendoli alla loro eccezionalità, riassumibile in due-tre tipologie.
Gli ammortizzatori sociali come sistema di finanziamento e di copertura delle lavoratrici e lavoratori va esteso a tutte le imprese, mentre non è eludibile l’introduzione di un reddito minimo, come indicato dal Parlamento europeo, finanziato dalla fiscalità generale.
Tutto ciò non può prescindere da un aspetto decisivo: quello del lavoro, di un piano per il lavoro socialmente e ambientalmente compatibile.
Su questa base si deve aprire un confronto dentro e fuori le organizzazioni sindacali. Quello che non è possibile, che non ci è più concesso, è l’adeguamento alla inarrestabile quotidianità delle grandi burocrazie che pensano di gestire alla meno peggio l’esistente, in attesa di un tempo migliore che non ci sarà.
* Coordinatore della mozione congressuale «La Cgil che vogliamo»
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